ITALO SVEVO e LA CULTURA ITALIANA

 

Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz, nacque a Trieste nel 1861.
Secondo la tradizione della sua famiglia fu indirizzato agli studi commerciali e, non ancora compiuti gli studi, a causa di un grave dissesto finanziario del padre, si impiegò in una banca. La formazione letteraria si svolge parallelamente all’esistenza quotidiana di Svevo: e in essa egli riversa tutti i suoi sogni, le sue aspirazioni e le sue ambizioni.

La filosofia tedesca (e in particolare Schopenhauer) il romanzo francese (in particolare Zola, ma anche Balzac, Flaubert, Daudet e Stendhal) alcuni classici italiani come Machiavelli, Guicciardini, Boccaccio e, soprattutto, quale punto di orientamento De Sanctis: queste sono le sue letture fondamentali. Così egli arriva a concepire il primo romanzo, Una vita (1892) e, dopo la delusione seguita al quasi completo insuccesso del libro, a continuare la sua strada fino al secondo romanzo, Senilità (1898). L’insuccesso, ancora maggiore, di questo romanzo persuase Svevo a non insistere. Dovranno così passare venticinque anni, prima che appaia alla luce il terzo romanzo La coscienza di Zeno (1923).
In questo periodo Svevo continuò a scrivere qualche cosa, ma soprattutto s’incontrò davvero con alcuni aspetti fondamentali della cultura europea, come Joyce (di cui fu amico), con Proust, con Freud. Poté in tal modo rendere più esplicite, anche di fronte a se stesso, alcune questioni che aveva già intuite e affrontate nei precedenti romanzi. Tale maggiore coscienza riflessa si nota chiaramente nella Coscienza di Zeno ed è la causa prima del suo tono diverso – distaccato ed ironico -, dei suoi limiti e del suo enorme successo.

Scoperto quasi contemporaneamente in Italia da Montale e in Francia dal Crémieux, Svevo si trovò improvvisamente alla ribalta della notorietà e raggiunse pochi anni prima della morte (avvenuta nel 1928) quella gloria letteraria a cui aveva sempre aspirato.
Oltre i tre romanzi cui ho fatto cenno, scrisse anche numerose novelle e alcuni lavori teatrali (ora raccolti in volume).

Parallela a quella di Pirandello – e per molti aspetti simile – corre la vicenda letteraria di Italo Svevo. Anch’egli parte da una formazione naturalistica che svuota fin dal suo primo romanzo; anch’egli passa inosservato dalla cultura italiana (Croce, attento cronista della letteratura della nuova Italia, non si accorge della sua esistenza, nemmeno per stroncarlo come aveva fatto per Pirandello); anch’egli opera fuori da quel fervore di iniziative, da quei numerosi circoli letterari e movimenti di idee che caratterizzano l’inizio del secolo; anch’egli si afferma solo dopo la prima guerra mondiale, quando la sensibilità umana e gli orientamenti letterari sono mutati e sono divenuti già pronti a comprenderlo, ma anche a deformarlo; anch’egli, infine, approda ad una lucida consapevolezza dell’alienazione umana nella società contemporanea.

Ma Svevo ha su Pirandello il vantaggio di essere arrivato a tale consapevolezza attraverso uno scavo interiore compiuto senza l’ausilio di quegli elementi intellettualistici che spesso intorbidano e frenano il racconto pirandelliano. Questo vantaggio è forse dovuto al fatto che Svevo nacque, si formò e visse a Trieste, vale a dire in una città non solo geograficamente ai margini dell’Italia. Una città con una cultura autonoma, che di quella italiana sapeva assorbire gli aspetti meno formalistici ed esternamente letterari, ma non rimaneva insensibile agli influssi delle altre culture europee e, in specie, di quelle slave e germaniche.
Questo spiega il modo autonomo, naturale, non riflesso, maturato nelle ragioni stesse della sua cultura e del suo ambiente e non ricevuto in prestito dall’esterno, con cui Svevo scopre il romanzo analitico (il romanzo cioè che alla rappresentazione oggettiva dei fatti, sostituisce quella di una inafferrabile, tortuosa e torbida inquietudine interna), la tecnica del monologo interiore (una tecnica, cioè, di narrazione indiretta e automatica, per cui gli avvenimenti sono presenti solo attraverso il riflesso che essi hanno avuto nella coscienza o subcoscienza del protagonista), l’esistenza del subcosciente. Sarà facile, dopo, fare i nomi di Joyce e di Freud. Ma essi sono davvero conosciuti e meditati da Svevo solo quando si era conclusa la sua prima stagione di narratore.

Oggetto della sua analisi è la irrimediabile frattura che si è determinata fra l’individuo e la vita organizzata in società; e, ancora, la dissociazione che l’uomo moderno ormai soffre all’interno della propria coscienza. La “solitudine” e la “alienazione” sono manifestazioni della “malattia” mortale che corrode non solo lo spirito del singolo individuo, ma lo stesso tessuto connettivo di credenze, costumi, abitudini su cui si strutturano e si organizzano i rapporti umani della società borghese. Sicché, risulta, in definitiva, che l’uomo borghese ha perduto finanche la speranza di una umana fruizione della vita.
La lucidità con cui i protagonisti dei suoi romanzi avvertono la loro crisi, è essa stessa a determinare in loro un profondo, incolmabile scompenso fra il momento della “passione” e quello della “azione”.
La viva mobilità del pensiero, l’intensa accensione dei sentimenti, mentre portano il personaggio alla diagnosi della propria condizione alienata (e alla professione della propria inettitudine), bloccano in lui ogni residua possibilità di azione. E, quanto più è acuta la sua sofferenza della vita, quanto più viva è la sua aspirazione a realizzarsi in esperienze totali, tanto più il personaggio è immobilizzato nei gesti, incapace cioè di un qualsiasi atto valido alla costruzione di se stesso. Suo destino è di subire la realtà: la sua “malattia” è nella coscienza di questo destino, l’impossibilità della guarigione è nella sua disposizione, tutta borghese, a guardare a quel destino da una prospettiva individualistica, che reca già in sé la inevitabilità della sconfitta. In questa coscienza che il personaggio ha della sua “malattia” si riflette l’idea del fallimento della borghesia come classe egemone e della sua incapacità di trovare ormai, sia pure a livello di proposta, una qualche soluzione alla crisi di ordine storico che investe la società italiana ed europea.
Svevo viene così a porsi, accanto a Pirandello, come il maggior narratore della malattia del nostro secolo (il frantumarsi dei rapporti sociali, la solitudine, l’alienazione), come colui che sa rappresentarla con analoga lucida consapevolezza ma nello stesso tempo con una più sofferta e più profonda partecipazione.

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Già all’inizio di questa mia narrazione storica abbiamo osservato come già il primo romanzo di Svevo si inserisca in questo suo modo di guardare la realtà e il mondo. Una vita, infatti, come ho detto, svuota dall’interno la poetica naturalistica, presentando sotto le vesti di un romanzo tradizionale un personaggio che avrà molti fratelli nella letteratura del Novecento. Si tratta di Alfonso Nitti, un giovane venuto dalla campagna a Trieste per impiegarsi in una banca. Egli vive una doppia vita, quella dell’impiegatuccio a cui non riesce ad adattarsi e quella dei suoi sogni letterari e dei suoi studi. La fortuna sembra arridergli perché la figlia del proprietario della banca, Annetta, gli apre la porta della sua casa e intraprende con lui la stesura di un romanzo a due mani. Ma per Annetta la letteratura è solo un capriccio (ed anche uno specchio in cui si rivela la sua anima piccolo-borghese), cosicché tutto finisce in una passione proibita. Ma, proprio quando Alfonso sembra che abbia raggiunto lo scopo, viene preso da una invincibile inerzia, dall’incapacità di agite e di portare fino in fondo quella relazione. La malattia della madre gli dà il pretesto per allontanarsi, lucidamente consapevole che questo avrebbe significato la sua sconfitta.
La morte della madre e il fidanzamento di Annetta con un altro uomo gli tolgono ogni superstite ragione di vita. Non gli rimane che il suicidio.
Come si vede la sicurezza scientifica su cui si fondava il naturalismo è completamente crollata: qui ci troviamo di fronte ad un uomo incapace di inserirsi nel tessuto connettivo di credenze, costumi, abitudini che gli viene offerto dalla società borghese e che contrappone a quell’ambiente sociale, meschino ma reale, un mondo velleitario di sogni irrealizzabili; un uomo
in cui la paralisi della volontà ha il sopravvento sulle esigenze della ragione.

Del suo secondo romanzo, Senilità, l’autore, in un profilo autobiografico del 1928, così scriveva: “È il racconto dell’avventura amorosa che il trentenne Emilio Brentani si concede cogliendola di proposito sulle vie di Trieste. Emilio è un impiegatuccio che gode nei circoli cittadini di una piccola fama letteraria e si duole di aver sprecata (e di non aver goduto) tanta parte di vita. Vorrebbe vivere come fa lo scultore Balli, suo amico, ch’è indennizzato dall’insuccesso artistico da un grande successo personale, con Ie donne specialmente. Finora ad Emilio era sembrato di non aver saputo imitare l’amico, per le grandi responsabilità che su lui incombevano, la sorte di una sorella, Amalia, che vive accanto a lui nella stessa inerzia, non più giovane e affatto bella. Subito la sorella è agitata vedendo che il fratello senza alcun ritegno si dedica al gioco pericoloso e proibito dell’amore, ma presto si convince in seguito all’esempio del fratello e alle teorie del Balli, ch’essa fu ingannata e che l’amore dovrebbe essere il diritto di tutti. Per Emilio intanto la piccola avventura cui aveva voluto abbandonarsi si fa importante proprio in sproporzione al valore morale di Angiolina. Anzi ogni scoperta di una bassezza o di un tradimento di Angiolina non ha altro effetto che di legarlo meglio a lei. Egli sente il suo attaccamento e la sua soggezione a quella donna quale un delitto. Non sapendo imitare il Balli ne invoca l’aiuto.
L’intervento del Balli fra i due amanti ed anche tra il fratello e la sorella ha degli effetti disastrosi. Tutt’e due le donne s’innamorano di lui. Inutilmente Emilio tenta di allontanarlo da Angiolina, perché costei gli si attacca, ma con facilità lo allontana dalla sorella che ora dovrebbe ritornare alla sua prima inerzia e invece segretamente si procura l’oblio con l’etere profumato.
Un giorno Emilio trova la sorella nel delirio della polmonite. Richiama il Balli e i due uomini aiutati da una vicina assistono la moribonda. Ancora una volta per aver scoperto un nuovo tradimento di Angiolina, Emilio lascia sola la sorella, ma poi ritorna a lei e le resta accanto finché chiude gli occhi.
Emilio si dibatte, dunque, in un groviglio inestricabile. Con la mente, egli giudica la depravazione di Angiolina e avverte l’umiliazione che gliene deriva; ma la sofferenza che patisce sul piano sentimentale , anziché spegnere o mitigare il suo amore, gliene acuisce il rovello. Nello scompenso tra la chiaroveggenza intellettuale e la inettitudine sentimentale è la sua tragica contraddizione: egli sa quello che dovrebbe fare, ma gliene manca la necessaria energia morale. Sicché la sua confusione sentimentale intorbida e avvilisce anche la mente, la quale in definitiva si piega al compromesso ed escogita futili giustificazioni in cui la passione trova, vuole trovare, ulteriore e più intenso alimento.

Édouard Émile Louis Dujardin (Saint-Gervais-la-Forêt, 1861 – Parigi, 31 ottobre 1949) definisce il monologo interiore:

“Il monologo interiore, come ogni monologo, è il discorso di un dato carattere usato per introdurci nella sua vita interiore, senza che l’autore intervenga per commentare o spiegare, o come ogni monologo è un discorso senza ascoltatori e un discorso non detto; ma differisce dal monologo tradizionale in questo: riguardo alla sostanza, riflette i pensieri più intimi e più vicini all’inconscio; riguardo allo spirito, è un discorso privo di organizzazione logica che riproduce i pensieri nel loro stato originale così come vengono alla mente; riguardo alla forma, si esprime per mezzo di affermazioni dirette ridotte a un minimo di sintassi.

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SENILITÀ – Italo Svevo

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