GIORDANO BRUNO – Vita e opere

Felice il paese che dà vita a un simile eroe!
Infelice il popolo che ha bisogno di un simile eroe! 

(Bertold Brecht)

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A più di tre secoli e mezzo dal suo assassinio, Giordano Bruno appare, fin troppo potremmo dire, vicino a noi, attuale, un problema del nostro tempo, non un eroe, nè mitico né arcaico, ma un combattente caduto sulla breccia perchè responsabile di una di quelle caratteristiche scelte che saranno inevitabili finchè vi saranno oppressioni cui ribellarsi, e conseguentemente ribelli. Scriveva Arturo Labriola, con la sua arguzia non poco scetticheggiante, che Socrate e Bruno sono, in fondo, i “rarissimi folli” tra gli scienziati o i pensatori: quei pochi, cioè, che si rifiutano più o meno espressamente di avallare con la loro autorità intellettuale e teoretica uno stato di cose verso cui concepiscono un giudizio negativo; si pongono, così, contro ad un mondo, contro a sfere di potenza e materiale e spirituale, comunque sempre temporalmente temibili, che sfogano in genere con efferate persecuzioni la rabbia della delusione per le tanto lusinghiere promesse e vantaggiose condizioni offerte al reprobo e da lui respinte. Certamente, il coraggio di respingerle non è facile, quindi tanto meno è comune: ma tale ribellione, caratteristica delle epoche di crisi, in cui contro la distribuzione sociale reagiscono le forze produttive e, sul piano della sovrastruttura, quelle stesse scientifiche, è uno dei modi in cui le rivoluzioni si annunciano, spesso a distanza. Più che comprensibile pertanto la risposta della conservazione, comunque si chiami.

Il militante, e non di un ideale astratto, ma di un moto che scaturisca dalle cose stesse, scientificamente indagate, non ha esitazioni, e, come Bruno, sapendo in anticipo che cosa gli spetta, cerca di non giovare ai suoi carnefici con compromessi e ritrattazioni. Noto, così di passaggio – per quanto l’accostamento possa sembrare almeno bizzarro – che allo scrivente le ultime vicende del Bruno, con quella sua ingenuità di cui direi verso il Mocenigo, e quasi il darsi in mano al boia, hanno ricordato sempre la “volontà di morire” che i Versagliesi con stupore notavano nei Co­munardi sconfitti. Morire, piuttosto che far da spettacolo nel trionfo del nemico – ben s’in­tende, non mai avversario personale, ma nemico storico dell’avvenire. Ma su questo tema, penso, si potrebbe dire molto, ed anche divagando notevolmente.

Ciò premesso, seguo a grandi linee la vita e l’opera bruniana (vedi NOTE sotto), per poi sintetizzare, gio­vandomi anche di parole più adatte delle mie, il significato complessivo di una vicenda tanto importante ancora per tutti noi.

Giordano Bruno nacque a Nola, in Campania, nel 1548 da Giovanni, soldato di professione, e Fraulisa Saulino. Suo nome di battesimo era Filippo, mutato con quello di Giordano entrando nell’ordine di S. Domenico, e di poi costantemente mantenuto. Il clima campano, e quello nolano in particolare, clima di cultura oltre che di amenità paesistica, ritorna spesso alla memoria del filosofo, che rievoca con particolare compiacenza il suo conterraneo Tansillo, anche come modello poetico. “Felice” egli chiama la Campania, e, con un certo orgoglio non tanto campanilistico quanto di mediterraneità, stando che per lui culla della civiltà era il Mediterraneo, se stesso il Nolano e la sua “nolana filosofia”. Del resto, il clima intellettuale e popolare di Napoli torna spesso nei suoi scritti, sia teorici che letterari (la commedia “Il Candelaio” è una viva pittura della Napoli del tempo): e tutta la sua stessa produzione poetica rimane sostanzialmente informata di temi e modi propri sempre del Tansillo(1). Tuttavia, quando il discorso poetico lascia gli schemetti metrici e le consuete formule concettuali per esprimere, sia pure in una gagliarda e densissima prosa, 1’eroico furore conoscitivo e cosmico del pensatore, suona indimenticabile nel robusto periodo di Bruno l’accento lucreziano(2). E Lucrezio egli sempre amò e predilesse, cosa naturale ad intendersi, se si tiene conto dell’affinità di questi due appassionati e pur lucidi pensatori. Tragico, sia detta di sfuggita, il ricordo lucreziano, per me: perchè Lucrezio, adducendo esempi mitologici di vittime della superstizione ideistica, a concludere i primi cento versi della sua “Sulla natura delle cose” col “Tantum religio potuit suadere malorum”…, cioè: a tante infamie potè indurre la religione!

Giovanetto di quattordici o quindici anni, pertanto nel 1562 o 1563, il Bruno vestì il saio domenicano, fu ordinato sacerdote nel 1572 e fu dottore in Teologia nel 1575. Fino a ventot­t’anni fece vita conventuale, svolgendo intensa ed appassionata attività di studio.
Ma il giovane frate, pur percorrendo con acutezza le “Summæ” di S. Tommaso d’Aquino e gli altri testi di quella filosofia “scolastica” che sintetizzava cristianesimo ed aristotelismo (pretendendo dare una spiegazione logica dei fondamenti religiosi, dedotti da dogmi fissi), nutriva interesse ben più vivo per la pubblicistica protestante, specie di nuova esegesi o critica biblica: ed i suoi “eroici furori” erano incitati dal rifarsi di questi protestanti alla filosofia dei Padri della chiesa, col loro principio della fede come unico veicolo di salvezza… Già sembrava al Bruno assurda la pretesa scolastica di una dimostrazione logica della religione. Naturalmente, queste posizioni suscitarono sospetti e manovre oscure, che gli procurarono un primo processo in Napoli, su cui poco si sa, tranne l’accusa, in vero ridicola, di iconoclastia per spregio che avrebbe mostrato a certe immagini sacre.

Per di più, sembra che fin dai diciotto anni nutrisse nei confronti del dogma trinitario non solo dubbi, ma inclinazioni decisamente eterodosse (unità sostanziale: le tre persone sono aspetti del Padre, il Figlio intelletto, lo Spirito Santo amore, sempre del Padre stesso); in più notevole era la sua interpretazione dell’incarnazione come di un’assistenza del verbo divino all’individuo umano Gesù… Tale materia era sufficiente a dar corpo a vere e proprie persecuzioni per eresia: ragion per cui il Bruno, fuggito da Napoli, andò a Roma, in convento. Senonché seppe che a Napoli gli inquisitori in un secondo processo avevano raccolto elementi sufficienti per giudicarlo duramente, e che, per di più, si aveva avuta la circostanza aggravante dell’uccisione, ad opera di un confratello, del frate che forse aveva denunziato il giovane Bruno. Questi, temendo di essere accusato dell’omicidio, gettò la veste e fuggi (1576). Andò a Noli, Savona, Torino, Venezia, Padova, dove riprese l’abito, poi a Bergamo. Varcato il confine voleva andare a Lione: ma invece a Chambéry mutò direzione e si recò a Ginevra. Era la città di Calvino: ma come Serveto (3), Bruno non poteva ridursi a servile teorico di una nuova mitologia fideistica che ora più non giustificasse il privilegio porporato, ma quello mercantile. Difatti, si iscrisse bensì alla Chiesa calvinista italiana, ed alla facoltà di teologia: ma ben presto uno scontro con un docente lo fece arrestare e condannare dal Concistoro.

Anche l’esperienza calvinista era finita: ed egli, appena gli fu possibile, abbandonò Ginevra.

Ormai si era formato nella sua mente il corpo essenziale teorico della sua dottrina. Riprese il primitivo progetto, ed andò a Lione, poi a Tolosa, dove gli fu conferito il dottorato nelle arti e poi in filosofia, indi a Parigi ma nell’una e nell’altra città le sue idee gli attirarono ire e contrasti.
Riuscì in parte ad introdursi nel mondo diplomatico, e fu inviato del re a Londra come gentiluomo dell’ambasciatore di Francia, il signor De la Mauvissière. Restò in Inghilterra due anni e mezzo, forse soddisfatto nel suo temperamento fondamentalmente aristocratico, ed in questo tempo (1583-1585) pubblicò i grandi Dialoghi italiani (La Cena delle Ceneri…, De la causa, principio e uno…, Dell’infinito universo e mondi…, Lo Spaccio della bestia trionfante…, La Cabala del cavallo pegaseo…, Degli eroici furori), forse iniziando anche i poemi latini, che compì in Germania. Ma prima di ciò, tornato a Parigi e tentando una vasta battaglia contro l’aristoteli­smo (4ne fu scacciato da tumulti, fomentati specialmente da goliardi della Sorbona. Andò quindi a Wittenberg, poi a Praga, ove stette mezza anno, poi a Helmstädt (ivi si fece luterano, ma venne scomunicato anche dai luterani). Finalmente, a Francoforte, in una pausa densa di attività feconda, stese compiutamente i tre poemi latini a cui affida l’espressione piena ed esauriente del suo più maturo pensiero, cioè “De minimo”…, “De monade”…, “De immenso et innume­rabilibus” (un’opera in cui si avverte l’influenza del “De rerum natura” lucreziano).

Ormai alta fama della sua dottrina, anche se avversata, si era diffusa di paese in paese.
In fondo fu un accidente abbastanza banale (o, chi sa, un qualsiasi trucco) la causa occasionale della rovina del Bruno. Giovanni Mocenigo, patrizio veneziano, lo invitò nella “libera” terra di S, Marco, per imparare da lui la “mnemotecnica” (arte o metodo di sviluppo della memoria, studiata e teorizzata dal Nolano). Certo, Venezia offriva garanzie di difesa antipapale; ma la “longa manus” pontificale arrivava anche lì, e lo doveva provare il Sarpi sedici anni dopo.
Del resto, la fortuna veneta era in declino, ed il Vaticano troppo potente. Ma Bruno, stanco d’errare, inseguito dall’odio e dal fanatismo, cattolico, calvinista o luterano, e del resto deciso a non piegarsi a nessun costo, come la quercia del suo famoso sonetto, sfidò anche questo pericolo. Alcuni hanno fantasticato di un’intimità amorosa fra il Bruno e la moglie del Mocenigo, sua allieva, almeno presunta: donde gelosia del patrizio, e tranello per intrappolare il filosofo sul suolo italiano… Ma è presumibile piuttosto che il filosofo volesse combattere la sua ultima battaglia: era uno di quei “giganti”, per dirla con Engels, in un’epoca gigantesca, quella del doloroso parto della società moderna, sia pur nelle sue contraddizioni fondamentali. Del resta egli stesso aveva scritto “meglio è una degna et eroica morte che un indegno e vil trionfo”: ed a lui furono attribuiti questi versi, che lo stesso De Sanctis definisce sublimi.

Poi che spiegate ho l’ali al bel desio,
Quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo,
Più le veloci penne all’aria porgo,
E spreggio il monda e verso il ciel m’invio.

Nè del figliuol di Dedalo il fin rio
Fa che giù pieghi, anzi via più risorgo:
Ch’io cadrò morto in terra, ben m’accorgo;
Ma qual vita pareggia al morir mio?

La voce del mio cor per l’aria sento:
– Non temer – rispond’io – l’alta ruina:
– Fendi sicur le nubi, e muor’ contento,
Se il ciel sì illustre morte ne destina.

E così, nel 1591, andò a Venezia, dove il Mocenigo, che nulla apprese di mnemotecnica, ma molto di critica bruniana a dogmi cristiani, lo denunciò sollecitamente agli Inquisitori veneti. Siccome però il processo napoletano di sedici anni prima rimaneva aperto, per rifarsi da quelle ormai vecchie accuse, la Congregazione del Sant’Uffizio (nota per gli ottimisti: esiste ancora!) ne richiese l’invio a Roma, ed il Senato Ve­neto naturalmente acconsentì, dopo alcune riluttanze del tutto superflue, con vari pretesti cavillosi: che l’eresia del Bruno era straordinaria, questi forestiero, e che gli errori erano cominciati a Napoli…
Nel gennaio 1593, Bruno è trasportato a Roma; egli è gettato nelle carceri dell’Inquisizione e tutti i suoi libri e le sue carte, consegnate dal Mocenigo, sono date in esame ai giudici del Sant’Uffizio e al cardinale Bellarmino, lo stesso che avrà parte importante e decisiva nel processo di Galileo e che dagli scritti del Nolano ebbe cura di estrarre le proposizioni eretiche.
Sette anni languì il Bruno nelle segrete romane del Sant’Uffizio; in condizioni facilmente immaginabili, con ogni probabilità massacrato dalle torture (al Campanella spezzarono quasi ogni osso), ogni tanto interrogato e seviziato ulteriormente.
Naturalmente, la pressione morale non era minore di quella fisica: così il Bruno dovette subire l’ossessione di frati e preti venuti a convertirlo, assieme al boia venuto a straziarlo, e resistere così a ricatti e lusinghe. Il 21 dicembre 1599, dopo quasi un decennio di inutile bestiale violenza esercitata sul prigioniero, questi venne tratto davanti all’ultima prova, cioè invitato ad abiurare le sue idee. Egli rispose che non solo non doveva nè voleva farlo, ma che ignorava persino che cosa avrebbe dovuta ritrattare.

Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini)

Esasperato dal sarcasmo della vittima, e dal suo atteggiamento di irremovibile fermezza, il papa, Clemente VIII, noto anche per l’infame “caso Cenci” (5), ordinò di affrettare la condanna. E così, l’8 febbraio 1600, l’eretico “impenitente” fu condannato, secondo il sistema ipocrita, alla sconsacrazione, e consegnato, quindi, al braccio secolare, il Governatore di Roma, che gli comminò il rogo.

Ai giudici il “risvegliatore degli spiriti addormentati”, come si autodefiniva, rivolse parole di straordinaria fortezza e profondità…

“Forse più grande è il timor vostro nel pronunziare la sentenza contro di me, che non il mio nell’udirla”.

Campo dei Fiori fu, il 17 febbraio 1600 (anno santo da solennizzare adeguatamente) teatro dell’esecuzione. Un estremo tentativo di conversione in extremis da parte dei soliti frati (domenicani, gesuiti, ecc.) incontrò il disprezzo del condannato, che infine fu legato ignudo al palo del rogo, sulle fascine tutt’intorno accatastate (6); e, scrive un testimone: “accostatogli un crocifisso, proprio mentre stava per esser giustiziato, lo respinse in atto di disprezzo, sdegnoso in volto: e così morì tra i tormenti, arso vivo…”. Alcuni hanno pensato che quel crocifisso, di bronzo, fosse stato calcolatamente arroventato, affinché il suppliziato, investito dalla vampa, torcesse il viso di riflesso; per non ustionarsi, e che anzi il metallo bruciante gli fosse stato avvicinato alle labbra, onde egli avrebbe distolto la faccia per evitare una più atroce scottatura… ma perchè sminuire in tal modo la fierezza del Bruno (che oltretutto affrontava impavidamente non solo un’ustione, ma l’arsione)? Non c’è forse tutto un simbolo, nell’evitare, proprio in punto di morte, fino al minimo atto, che sarebbe pur stato in tali condizioni scusabilissimo, di superstiziosa idolatria?
Parimenti sul rogo finirono tutte le copie rintracciabili delle sue opere, sempre per decreto del Sant’Uffizio. Le rimanenti, scarsissime, si fecero ben presto introvabili, e conseguentemente di elevato prezzo.

Fin qui la biografia di Giordano Bruno. Dirò ora qualcosa del suo pensiero.

“RIVIVERE AI MARTIRI E’ DATO!” (Rapisardi)

Mi sono chiesto se qualche volume bruniano scampato alla distruzione e divenuto costosissi­ma rarità bibliografica, sia potuto venire a conoscenza di Spinoza (7), magari per tramite dei ricchi amici De Vries o De Witt. E certo il “dio­natura o intelletto-materia” di Spinoza si riallacciano a concetti bruniani.
Gli idealisti tedeschi, Jacobi (nelle “Lettere sulla dottrina di Spinoza”), Schelling, e poi Hegel, sommo fra tutti e vero “idealista intelligente (dialettico)” come lo definì Lenin, rivalutarono in Bruno il ritmo corrispondente reale­razionale, pensiero e natura, anima naturale – materia e coscienza umana; specialmente il senso della totalità come “coincidenza di opposti”, (quindi della realtà come frutto di una sintesi che risolve i momenti contrari di tesi ed antitesi) è concetto squisitamente hegeliano, benché nel Nolano rivesta forme estremamente primitive e poco più che potenziali.
Ma, a parte l’importanza dell’elemento che potrei dire “bruniano” in Hegel, importanza che discende dal fatto che lo stesso hege­lismo fu poi “raddrizzato” da Karl Marx, le ragioni filosofiche dell’attualità, anche odierna, immediata, del Nolano, si intrecciano molto strettamente col suo significato storico più generale. Il Bruno infatti, durature o meno che siano le sue concezioni, resta in primo luogo ed anzitutto un “lottatore infaticabile”, e tutta la sua vicenda ci mostra in maniera lineare e lampante che la superstizione ed il privilegio, arroccati nella salda fortezza del potere economico, non possono essere abbattuti con una critica che non comporti anche quella delle armi. Siccome poi fu assassinato non da “fray Tomàs de Torquemada” ma da preti che, per l’epoca, erano relativamente progressisti (con Galileo, prima della persecuzione, tentarono anche il dibattito “scientifico”), il suo martirio resta un insegnamento tattico-strategico che può evitare molte illusioni sul conto di uno dei massimi poteri capitalistici del mondo (ultimamente, si dice, il secondo dopo gli U.S.A. di Bush), la sede “dove Cristo tutto dì si merca”.

A me interessa porre il problema della modernità di Giordano Bruno.

Tale modernità è stata gran tempo oggetto di dispute e contestazioni di ogni sorta: ora affermata ed ora negata integralmente. Si sa che il positivismo (8), dominante in ispecie nella cultura italiana del Ottocento, nelle sue sfumature massoniche ed anticlericali, si era fatto del Bruno una specie di simbolo ad uso e consumo particolare. In seguito, ben diverse correnti hanno voluto speculare sull’aspetto mistico­poetico che caratterizza il pensiero bruniano, in antitesi sia con la tradizionale logica scolastica della filosofia di chiesa, sia con l’allora solo embrionale tendenza della “nuova scienza” gali­leiana. Così uno scrittore notoriamente reazionario, che conclude apertamente su posizioni di giustificazione d’ogni religione, come Alfred North Whitehead (9), non esitò, in un suo importante saggio, a presentare Bruno come vitti­ma di questo nuovo spirito scientifico galileiano-newtoniano, piuttosto che dell’Inquisizione. Tuttora persiste poi, in ambienti intellettuali legati alla chiesa ed ai Gesuiti, l’argomento della giustificazione della condanna di Bruno, come motivata dal suo… dogmatismo, cioè dalla sua insistenza su verità indimostrabili, intuite misticamente. Ma se il dogmatismo dovesse a buon diritto sfruttare il rogo, arsa avrebbe dovuto essere tutta la chiesa di sempre, la natura della cui dottrina è intrinsecamente dogmatica – come proclamano gli stessi suoi decreti. Il fatto stesso che, in pieno secolo XXI, questi discorsi abbiano ancora diritto di cittadinanza nelle aule universitarie, dimostra, se ancora c’era bisogno di dimostrazione, che le radici della superstizione affondano nel terreno stesso dello sfruttamento, e che quindi l’indispensabile premessa per la liquidazione della superstizione stessa è il eliminazione rivoluzionaria dello sfruttamento, e, sopravvivendo il mercato capitalista mondiale, non può non sopravvivere la chiesa che ne è una delle forze preponderanti.

Può affermarsi che Giordano Bruno sfugge largamente dagli angusti confini di un significato nazionale (e quindi anche nazional-popolare) perchè intriso di cosmopolitismo, di universalismo umanistico, e anche perchè martire della affermazione della ricerca anti-dogmatica, del naturalismo, della lotta al mito di un mondo soprannaturale, così come alla menzogna di una gerarchia detentrice delle chiavi della salvezza.

Come Serveto, vittima del calvinismo capitalistico, a Münzer, vittima del luteranesimo che chiamava i “buoni signori” a sterminare il “bestiame contadino”. Non è certa un caso fortuita che Bruno sia stato respinto e perseguitato da luterani e calvinisti, esattamente come dai cattolici. In realtà, il nucleo fondamentale e moderno del suo pensiero (sintetizzabile nel binomio antiautoritarismo-naturalismo) costituiva un elemento chiaramente agonistico rispetto ad ogni religione. Egli affrontò sia l’intolleranza cattolica e restò vittima di quest’ultima come avrebbe potuto restare vittima della prima.
La borghesia laica, vedendo in Bruno il suo precursore, eresse in Campo dei Fiori un monumento al filosofo, per vendicare il suo martirio. Ma tutti i monumenti in Campo dei Fiori ed altrove, tutte le riabilitazioni e le commemorazioni piccolo-borghesi tutti i pentimenti di coloro che solidarizzano pur sempre con quella ideologia che lo arse vivo, non possono vendicare degnamente la sua morte.

Senza voler fare di Bruno un riformatore sociale, sia pure utopista (diamo a Campanella ciò che è di Campanella), mi limito ad affermare che i nemici di Bruno e dei suoi eredi moderni, cioè le forze dell’oppio ideologico e della menzogna religiosa, saranno vinti quando lo stesso bisogno religioso, sorto dall’alienazione del lavoro umano, sarà stata liquidato mediante la soppressione rivoluzionaria delle strutture capitalistiche; quando saranno estinte le classi, quando 1’umanesimo avrà un significato concreto. Allora, in una società dove il libero sviluppo individuale e sociale si condizioneranno reciprocamente, il dogma della superstizione non potrà riprodursi perchè saranno venute mena le stesse ragioni che concorrono a determinare un’esigenza religiosa, e cioè l’alienazione nel lavoro, la miseria, la superstizione.

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BRUNO NOVATORE DEL SUO TEMPO

È legittimo domandarsi se la filosofia di Bruno possa ora rappresentare alcunché di nuova e valido? Certo no, perchè un quesito così posto non ha senso alcuno. Nemmeno Spartaco era “maturo”, ai suoi tempi, il che non toghe che egli fu un anticipatore nelle lotte per la libertà; nè assolve Pompeo, sterminatore delle sue schiere, dall’essere stato un boia schiavista.
Una più carretta formulazione dell’interrogativo è la seguente: Bruno, pur con i limiti di tutta la “nuova scienza” in cui s’inseriva, anticipava o no posizioni moderne, e superava, o no, il ciarpame teologica legato all’aristotelismo del “principio di autorità”?
Bruno, insomma, è o non è parte del movimento della scienza moderna, dalla cui evoluzione complessa e dialettica trae origine lo stesso moderno materialismo storico-dialettico?
Come per il posteriore Spinoza, la risposta, per Bruno, non può essere che positiva. Il fondo naturalistico del suo filosofare lo colloca decisamente nell’ascesa del pensiero scientifico ancora embrionale, riflesso dell’ascesa stessa della nuova società borghese. Ciò a dispetto delle forme, per gran parte ancora intuizionistiche o astratte-speculative, e non sperimentali, di cui si giova la sua ricerca. Il tempo ha superato le argomentazioni bruniane, ma non l’istanza bruniana naturalistica ed antitrascendenta­le. La cornice metafisica, come quella astratta-geometrica spinoziana, non tolgono che l’istanza rimanga tale, con i suoi limiti, ovviamente, di esigenza inappagata o insufficientemente esplicata, ma anche con la sua intrinseca positività. È una metafisica dell’antimetafisica: fisico – spirituale non sono più dualisticamente contrapposti. In ciò, ripeto, un principio tuttora valido, se oggi svolto con ben altro apparato scientifico, tale, cioè, che permetta di affermare il principio, non più naturalistico, ma materialistico, della priorità dell’esistenza sulla coscienza, della materia sullo “spirito”, e l’esser quest’ultimo tardivo prodotto storico del divenir dialettico di quella.

Bisogna tener presenti le condizioni in cui Bruno viveva, ed in cui il pensiero scientifico stesso aveva da svilupparsi. Era il clima contro­riformistico: con lui era perseguitato Campanella, e si approntavano i fulmini per Galileo (10). Era la rabbiosa reazione di un mondo in decadenza: quello feudale, e della sua cosmologia tolemaico-geocentrica (11conchiusa, gerarchica, a simiglianza dell’accentramento intorno ad uno dei “soli” per grazia di Dio, Papa o Imperatore che fosse.
Come scriveva Engels (“Dialettica della Natura”):…

“La scienza naturale moderna – l’unica alla quale convenga il nome di scienza, all’opposto delle geniali intuizioni dei greci e delle ricerche sporadiche non coordinate degli Arabi – comincia con quell’epoca possente [il Rinascimento], che ruppe ad opera della borghesia il sistema feudale – mostrò (sullo sfondo della battaglia tra la borghesia cittadina e la nobiltà feudale) i contadini ribelli e dietro i contadini gli inizi rivoluzionari del moderno proletariato, la bandiera rossa già in mano e il comunismo sulle labbra – creò in Europa le grandi monarchie, ruppe la dittatura spirituale del Papa, chiamò di nuovo in vita l’antichità greca e con essa il più alto sviluppo artistico dell’età moderna, infranse i limiti dell’antico “orbis” e scoprì la Terra in modo effettivo per la prima volta. Fu la più grande rivoluzione che la Terra avesse fino a quel momento vissuto. Anche la scienza naturale visse e operò in questa rivoluzione, fu rivoluzionaria, la mano nella mano, con la filosofia moderna che si ridestava, e lasciò i suoi martiri sul rogo e nelle carceri. E’ caratteristico il fatto che protestanti e cattolici gareggiarono nelle persecuzioni. Gli uni bruciarono Serveto, e gli altri Giordano Bru­no… Quello che sul terreno religioso era stato l’abbruciamento delle bolle papali ad opera di Lutero, fu sul terreno scientifico la grande opera di Copernico, – nella quale egli, a dire il vero timidamente, dopo un’esitazione durata 36 anni e per così dire sul letto di morte, gettò il guanto di sfida alla superstizione ecclesiastica. Da allora in poi la ricerca scientifica si emancipò, in modo essenziale, dalla religione, sebbene la separazione completa in tutti i dettagli sia stata trascinata fino ad oggi, e in molte teste è ancora lungi dall’essere compiuta. Ma da allora in poi anche lo sviluppo della scienza camminò con passi da gigante; essa crebbe, per così dire, proporzionalmente al quadrato della distanza nel tempo dalla sua origine, quasi che essa volesse dimostrare al mondo che per il movimento della più alta fioritura della materia organica, per lo spirito umano, vale la legge inversa di quella che regola il movimento della materia inorganica.”

LINEAMENTI ESSENZIALI DELLA CONCEZIONE BRUNIANA

Ripercorrendo un simile ciclo espositivo, scriveva Antonio Labriola (Da un secolo all’altro)…

“L’audace, intemperante e sovrabbondante Giordano Bruno s’era fatto l’araldo per tutta l’Europa civile della veduta copernicana, dalla quale trasse, per virtù d’immaginazione costruttiva con percorrenza di genio che mal s’adatta alla paziente dimostrazione dei particolari, i dati più generali di quella intuizione cosmocentrica nella quale ora tutti ci adagiamo senza amba­scia e senza travaglio. La volta del cielo dantesco rimane ora, non che sfondata, dispersa. L’irrelativo dell’universo senza contenenza sensibile rendeva relativa ogni umana misurazione per tempo e per spazio…”.

Del resto, in questa sua esigenza unitaria, cioè di spezzare la gerarchica subordinazione del mondo sublunare a quello celeste, iperuranio, Bruno s’inseriva come continuatore del pensiero rinascimentale – poteva dire con Molière, o chi per lui, “Je prends mon bien partout où je le trouve”…, “prendo la roba mia dovunque la trovo” – ed il Rinascimento, specie in sede filosofica, ebbe estensione internazionale: e pur in ciò doveva preparare la formazione delle grandi nazioni moderne, frutto esclusivo del mercantilismo borghese, da cui sorgeva, “grondante sangue da ogni poro”, il capitale moderno.

Bruno nella “Cena delle Ceneri”, collega tutti i presocratici in una visione naturalistica il cui monismo implica (coincidentia oppositorum, coincidenza degli opposti) il pluralismo e l’infi­nitudine: un “unitutto” cosmico privo di confini, in cui Bruno ravvisa la propria concezione cosmologico, imbevuta profondamente di atomismo epicureo-lucreziano e di dinamismo eracliteo (11 bis– la materia infinita, i cui atomi implicano infinite forme, agitata da un moto continuo di varianza e mutuazione e negazione che non è però influire casuale o incomposto erompere di trasformazioni, ma legge conoscibile con l’intelletto. Ove si vede il nucleo materialistico inserito nella cornice speculativo-metafisica, e posto in secondo piano dall’insorgere sul panorama bruniano della Causa infinita di fecondità universale; e previsione ispirata ma a base scientifica, e accensione metafisica si sposano nella concezione degli infiniti mondi animati che corrono nell’infinito spazio (“e perciò anticamente – scrive il Bruno – si chiamavano “ethera “, cioè corridori, corrieri, ambasciatori, nuncii della magnificenza dell’unico altissimo, che con musicale armonia contemprano l’ordine della costituzione della natura, vivo specchio dell’infinita deità”).

Ma tale concezione è confortata e sostanziata dalla rivelazione copernicana di una terra in movimento, come gli altri pianeti, cui è affine: non più immoto centro di un sistema di sfere cristalline concentriche in cui “come tanti chiodi, stanno inchiodate queste lucciole e lanterne”, ovverosia i corpi astrali. Nondimeno la cosmografia bruniana non coincide con quella copernicana, non essendovi per Bruno centro dell’universo infinito: tutto è centro. Il che non toglie minimamente la straordinaria importanza della rivoluzione copernicana nei fondamenti più intimi dell’apparato culturale del Bruno, su cui, e mediante cui, egli drizzò il suo complesso “sistema”, in cui lo spazio è infinito in quanto illimitato, indeterminata, non conchiuso da un nulla inimmaginabile; è pieno in ogni parte, e percorso da infiniti mondi finiti intervallati, in moto: questa “l’infinita mole dell’universo”: mole dinamica, quasi l’interno di un atomo, non massa bruta continua e compatta. Quindi, critica completa all’aristotelismo ed alla sua cosmologia, sia delle sfere celesti, che dei relativi motori: il motore è l’Uno della natura che dà moto, lui, principio infinito, a tutti i finiti. Relativa è la gravità ad ogni astro, fa parte del suo sistema: non esiste un centro universale, tanto meno la terra, o, su di essa,… Gerusalemme. Tutti gli elementi, senza discriminazione gerarchica, concorrono alla costituzione degli astri, dei mondi.

L’etica, bruniana, espressa essenzialmente nello “Spaccio della bestia trionfante” e negli “Eroici furori”, conferma il carattere borghese-rivoluzionario della “nolana filosofia”. Ciò appunto vanifica le disoneste, ripeto, polemiche, di chi ha cercato di criticare la difesa che del Bruno facevano i socialisti, dicendo, in ultima analisi che… socialista non era. Sicuro, ma avverso al potere della reazione, e, per i suoi tempi, inserito nel cammino del progresso rivoluzionario contro la vecchia società. Il che non vuol dire, massonicamente (12mettersi ad assumere atteggiamenti bruniani verso le plebi (accettazione, per esempio, della necessità di una qualsiasi religione per queste ultime) i quali atteggiamenti oggi sarebbero reazionari. Ma non mai quanto lo furono, lo sono e lo saranno le direttive chiesastiche. Perciò, quando, nella tornata parlamentare del 18 febbraio 1908, il clericale Cameroni, per sostenere la confessionalizzazione della scuola primaria, irrideva al popolo di Roma che in Campo dei Fiori inneggiava “allo spregiatore del popolo, Giordano Bruno”, si di­menticava che la potenza da esso stesso rappresentata fu sempre depositaria della reazione peggiore, e che il “Sillabo” o il “Catechismo” spregiano l’intelligenza umana oggi come ieri.

L’uomo in Bruno è tale per il lavoro: l’età dell’oro era oziosa bestialità: civiltà e attività, trasformazione del mondo e di se stessi. Tratti vichiani appena abbozzati, ma commoventemen­te anticipatori.

La libertà umana non ha per Bruno limitazioni in qualsiasi grazia trascendente. Da ciò quella satira dell’asinità, cioè della pseudo-sapienza infusa per virtù d’illuminazione metafisica. Il sapere è auto-infusione, è cioè conquista che solo si diparte dall’eroico furore di scienza, “l’ardore a divenir del mondo esperto”. Così “l’uomo s’eterna” facendosi infinito, ritrovando l’Uno (l’amore ideale “intellettuale di dio” dirà Spinoza) e spegnendo la limitatezza corporea della vita singola in una morte di bacio di immedesimazione col tutto; sì da trascendere l’individualità. Critica, quindi, delle religioni, ma con due limiti: da una parte, quello di proclamarle eterogenee alla filosofia (nondimeno, il Bruno le attacca proprio con tale strumento), dall’altro, quello di pensare ad una utilità pratica della religione “per il volgo”. E siamo nel pieno della mentalità borghese, che si perpetuerà nell’Illuminismo stesso ed arriverà fino ai nostri giorni (basti pensare a Balfour) (13). Certo, Bruno non è per nulla Thomas Münzer o Franck (14), nè può aver idea della stessa forza della “plebe”, ancor indeterminata e bruta, tranne che per parziali affermazioni (guerra dei contadini in Germania, Ciompi ecc., di cui il filosofo non pare avesse nemmeno sentore). Del resto, non si può pretendere che Bruno fosse più a sinistra di Robespierre o di Hébert (15). Il concetto di “religione comunque buona per le masse” è connaturato, come a quello feudale, anche al dominio borghese, vecchio o nuovo, embrionale o sviluppato, di destra o di sinistra (per religione, è ovvio, non se ne intenda una particolare, e neanche una “rivelata”…).

GIORDANO BRUNO SECONDO LABRIOLA

Estrapolo dagli appunti delle lezioni di Antonio Labriola (febbraio-marzo 1900)…

“Il fatto specifico di Giordano Bruno, è, che egli ha coscienza della sua situazione, che nel suo carattere è la sua tragedia e che nel suo carattere concorre il suo temperamento, la sua fantasia, la sua poesia, la sua vocazione: egli centra con l’eroico furore e come in possesso di una forza che lo trascini: la coscienza del progresso (Bacone – Pascal – Schiller – Hegel). Si ricordi il suo frequente paragonare se stesso con Colombo. La somma del suo pensiero è in quel luogo dell’Infinito universo… “Dalla qual contemplazione (se vi saremo attenti) avverrà, che nullo strano accidente ne dismette per doglia o timore, e nessuna fortuna per piacere o speranza ne estoglia; onde avremo la via vera alla vera moralità, saremo magnanimi, spreggiatori di quel che fanciulleschi pensieri stimano, e verre­mo certamente più grandi di quei dei che il cieco vulgo adora, perchè dovenerremo veri con­templatori dell’istoria della natura, la quale è scritta in noi medesimi, e regolati esecutori delle divine leggi che nel centro del nostro core son iscolpite… Questa è quella filosofia che apre li sensi, contenta il spirto, magnifica l’intelletto, e riduce l’uomo alla vera beatitudine, che può aver come uomo, e consistente in questa e tale composizione: perchè lo libera dalla sollecita cura di piaceri e cieco sentimento di dolori; lo fa godere dell’essere presente, e non più temere che sperare del futuro”.

“Traducendo in prosa moderna, questo è l’avvento della borghesia al governo della società; questa è la mente che spazia libera nella ricerca della natura; questa è la scienza che aspira a diventare la regolatrice progressiva della vita; questa è tutta la rivoluzione del mondo moderno fino all’89 presentita.”

Concludeva Labriola (dopo aver osservato in Bruno i presentimenti di Spinoza e Leibniz(16che Bruno pose il tema della speculazione moderna da Spinoza e Hegel (… dialettica per cui al discorso della mente – le ombre delle idee – risponde il trascorrere delle cose d’una in un’altra…) e che ciò non conviene più in gran parte alla filosofia scientifica, che filosofa su ciò che è obbietto di scienza: il che vuol dire criticismo e scienza del limite. Ma Bruno vive in un periodo di transizione, nel quale le vie della filosofia e della scienza non sono ancora distinte… la forma stessa poetica esaltata è un vantaggio di fronte ai posteriori pretesi tentativi metodici.

“Ma, data la posizione di Bruno copernicano e teologo, la sua metafisica è congrua. Perchè a un mondo infinito non può rispondere un Dio estrinseco, e, data l’immanenza di Dio nel mondo, è pure data l’attualità della causa infinita. Il “natura sive Deus” (natura, cioè dio) c’è voluto per passare alla natura sine Deo (natura senza dio). Abbiamo visto che se dio e natura in Bruno non coincidono meccanicamente, la natura è divina, dio è principio di quell’uno naturale che si irraggia nei molti: c’è un’immanenza insomma nell’unitutto”.

Sempre Antonio Labriola, in una lettera del 1888 al Comitato Universitario in Pisa scriveva sul “significato della commemorazione di Giordano Bruno”…

« Errò per l’Europa quale araldo di nuove idee, e fu dappertutto alle prese con le varie ortodossie, nelle quali, o per moto di popoli, o per innovazione di pensiero, o per ambizione di principi, s’era infranta la grande unità del mondo latino medioevale. Tenne la verità filosofica per superiore ad ogni religione, e questa volle ridotta alla educazione delle moltitudini negli abiti morali; ma ai sentimenti e pensieri suoi non rispondeva nessuno degli ordinamenti politici del tempo, e tutti lo respinsero, come quelli che erano incapaci di reggere al concetto della tolleranza. Alla sua alta mente di filosofo speculativo, corrente all’entusiasmo di una poetica rappresentazione dell’ordine universale delle cose, sfuggirono sempre le ragioni politiche delle difficoltà in cui dette di cozzo; cosicché l’animo suo è tutto un’alta tragedia d’uomo imperterrito e fatale. Shakespeare solo vi avrebbe letto ben dentro fra i contemporanei, come pare che qualche sua proposizione o detto abbia messo in bocca al principe di Danimarca”.

“I pensieri di Bruno, stati gran tempo oggetto di plagio e di fantastica ammirazione, tornarono in molto onore in Germania, specie nelle scuole dell’idealismo” (17e del monismo. Oramai sono dichiarati in ogni parte… Ora molti fanno gran torto alla memoria veramente storica del Bruno, col distrarlo dai tempi suoi, e col ridurlo in figura di uomo che presagisca e precorra tutto il pensiero moderno.
Per genialità speculativa fu certo superiore a tutti i pensatori del secolo suo, e nell’eroico pathos della verità è uomo insuperato. Spezzò del tutto le catene della scolastica, la ruppe con ogni maniera di tradizione, e lui primo e solo trasse a conseguenze speculative la nuova intuizione copernicana. Scrivendo sotto l’impulso dell’animo travagliato dall’entusiasmo di una verità, non sempre a lui stessa chiara nei contorni e nelle attinenze, e coi ricordi di una vasta lettura, e nelle forme più varie, ci ha lasciato pensieri e divinazioni, che gli inesperti della storia possono trarre a strane significati, ma che tornano meravigliosi anche al critico più acuto. Oppugnatore ardito della vecchia fisica, e diroccatore del cielo di Dante, ha vivo già il sentimento della nuova esperienza, a cui la natura avesse ad assoggettarsi, per rivelarci le sue proprie leggi. Umanista, nel senso più italiano della parola, contrappone l’etica naturale della ragione delle cose a qualunque maniera tradizionale di religione, e tutt’uno in se stesso come persona e come filosofo, è missionario della sua propria fede, ed abbraccia il martirio come parte del suo dovere.
A farlo rivivere glorioso martire nella nostra riverente memoria, non c’è bisogno d’introdurre alcun artificio d’interpretazione nel complesso delle sue dottrine, o di alterarne la figura, meravigliosa nella semplicità dei motivi, con retoriche esagerazioni.”

Queste pagine non si sono ingiallite, checché si possa pensare, considerando lo spazio di tempo che ce ne separa. Bruno resta quello che fu, un cavaliere errante del libero pensiero, cioè assertore di libertà intellettuale e di naturalismo, sia pur metafisicizzato nell’immanenza di un principio divino superiore all’universo fenomenico di innumeri elementi singoli, naturalismo aperto ad opposte soluzioni, idealistiche e materialistiche insieme. Ma più che mai resta anche il nemico implacabile della superstizione armata contro la libera ricerca, dell’assolutismo dispotico di una mitologia usata come strumento di conservazione e di regno. Il suo rogo è un tragico ammonimento per i contemporanei nostri, come per i suoi. L’oppio religioso è sempre una droga, ma, somministrata intensivamente, diventa un mortale veleno.

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NOTE

LE OPERE DI GIORDANO BRUNO – Cito le principali

“Le ombre delle idee”…, “Canto di Circe”…, “Architettura e commento dell’arte di Raimondo Lullo” (tutte in latino, del 1582)

Tre trattati latini dell’anno seguente, sulla mnemotecnica (“Arte della memoria”…, “Spiegazione dei trenta sigilli”…, “Il sigillo dei sigilli”)…, “Composizione delle immagini”, in latino, del 1591, sempre sulla mnemotecnica.

“Il Candelaio”, commedia, del 1582 di ambiente napoletano.

I sei dialoghi italiani (“La cena delle ceneri”…, “De la causa principio et uno”…, “De l’infinito universo et mondi”…, “Lo spaccio de la bestia trionfante”…, “La Cabala del cavallo pegasèo”…, “De gli eroici furori”).

Infine, i tre grandi poemi latini, “De triplici minimo”…, “De monade, numero et figura”…, “De immenso et innumerabilibus” (1591).

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NOTE NUMERATE

1) TANSILLO LUIGI (1510-1568), poeta facile e melodioso, ma privo di vera arte, e cortigiano, famoso ai suoi tempi. Autore di poemetti didascalici “La balia…, “Il podere”… e del “Vendemmiatore”, messo all’Indice.

2) TITO LUCREZIO CARO (nato circa 95 a.C. – morto fra il 55 e il 51), uno dei massimi poeti della letteratura latina, autore del poema “De rerum natura” (Sulla natura delle cose) in cui viene enunciata ed esaltata una concezione materialistica (nei primi due libri, dei sei che costituiscono l’opera, è ampiamente svolta la dottrina atomica della formazione e della dissoluzione delle cose che nascono dal moto meccanico degli atomi invisibili ed eterni). “Secondo Lucrezio, scrive il Marchesi, l’ignoranza e la superstizione, che hanno popolato di fantasmi il cielo, hanno pure diffuso l’inquietudine e il terrore nella mente degli uomini. Per vincere questo universale traviamento della ragione e questa comune indegnità di esistenza, bisogna penetrare nella natura delle cose e trarre dai misteri finalmente svelati della vita e della morte la persuasione della immortale bellezza del mondo.

3) MIGUEL SERVETO (1511-1553), spagnolo, grande medico, naturalista, filosofo. Si accostò al socinianesimo, e, sfuggito alla Inquisizione, venne fatto bruciare vivo a fuoco lento (per due ore!) dalle autorità calviniste ginevrine. Infatti, Ginevra era centro governativo del calvinismo, che vi aveva costituito una sorta di teocrazia. Il calvinismo, che riprendeva dalla patristica (S. Agostino) il motivo della corruzione della natura umana e della salvezza mediante la grazia “gratis data”, cioè elargita dalla clemenza divina a persone comunque immeritevoli, in questo motivo traduceva religiosamente, sul terreno mistico, le vicende del mondo mercantile della concorrenza, con le sue leggi che paiono indipendenti dalla volontà individuale, come notò Engels. Infatti i calvinisti (ugonotti in Francia) erano di classe mercantile.

4) L’aristotelismo, tramite la scolastica tomistica, dominava, con autorità sacrale chiesastica, tutto il campo culturale dell’epoca. Infatti Aristotele era considerato autorità indiscutibile, ed il suo testo chiamato a dirimere e risolvete qualsiasi problema: era il principio dello “ipse dixit” (lo ha detto lui, il Filosofo) a confermare anche la tesi, per esempio, del geocentrismo, cioè dell’universo concepito come sistema di sfere cristalline rotanti attorno alla Terra, immobile, centro dell’universo appunto, e recanti infissi su di sé i corpi celesti, Sole incluso. Il copernicanesimo dovette affermarsi – tutta la storia dolorosa di Galileo ne è esempio illustre – contro questo « principio di autorità » che giungeva a far sì che gli aristotelici anteponessero il testo del maestro alla propria personale testimonianza dei sensi: sicché una cima come Cesare Cremonini si rifiutava di guardare nel cannocchiale “perchè non descritto da Aristotele”, e così via, fino all’aristotelico (o peripatetico, che è lo stesso) il quale, visto che i nervi non partono dal cuore, come voleva Aristotele, ma dal cervello, su un cadavere sezionato, affermò che la cosa era sì evidente, da essere credibile, se non ci fosse stata l’opinione di Aristotele in contrario… La “cristianizzazione di Aristotele”, compiuta da S. Tommaso nella filosofia ufficiale della chiesa ne rendeva fisicamente pericolosa ogni critica, interpretabile sempre come eretica.

5CLEMENTE VIII aveva nome secolare d’Ippolito Aldo­brandini. Nato a Fano nel 1536, era di modesta famiglia. Aiutato da Alessandro Farnese cardinale, fu porporato nel 1580. Papa nel 1592, morì nel 1605. Nepotista, abilissimo politico, era personalmente carattere passionale e quasi maniaco. Il processo Cen­ci (1599) contro Beatrice ed altri parenti di Francesco Cenci, nobile delinquente, degenerato, assassinato forse da Beatrice sua figlia con concorso d’altri, infamò questo papa, che difese l’infame memoria di Francesco, già suo nemico, gravando la mano sugli imputati per incamerarsi i beni della famiglia.

6) “Certo – scrive Antonio Labriola, – possiamo immaginare che al Bruno sia stata legata la lingua, perchè il Farinacci, autorità cara ai giuristi, dice che tale è il procedimento da usarsi per gli eretici… Forse che noi ignoriamo la vita del cardinale Borghese, che divenne poi papa col nome di Paolo V, uno dei giudici del Bruno? Forse che noi ignoriamo chi fosse il cardinale di Santa Severina, il quale chiamava celebre notte e lietissima quella di S. Bartolomeo? Forse che noi ignoriamo per quali astuzie lo scaltrissimo Bellarmino procurò la condanna del Bruno, creando un nuovo tipo di eresia, l’irreligione »? E pensare che Galileo credette di poter giocare d’astuzia col Bellarmino!

7) BARUCH – BENEDETTO SPINOZA (1632-1677), grande filosofo olandese (in realtà ebreo portoghese). Difese la libertà di pensiero. II nucleo del suo pensiero è un monismo, in cui l’essere è concepito come uno: la divinità è causa immanente ed intrinseca della natura, da essa inscindibile. Perciò il conoscere il reale è anche conoscere dio, amore intellettuale di dio.

8) Il positivismo – specie nella sua versione pseudo socialista, (quello, per intenderci, dei Ferri, Loria, Lombroso, ecc.), particolarmente in Italia, rivendicò come suo anticipatore il Bruno (basandosi, in sede teorica, su superficiali accostamenti fra lo “Uni­tutto” bruniano e lo “Indistinto” spencer-comtiano). Vide nel Bruno, insomma, l’anticipatore di un laicismo fine a se stesso, coerentemente del resto alla mancanza di un’analisi effettiva delle radici sociali concrete del dogma religioso, per cui i seguaci del positivismo pensavano di opporsi alla Chiesa nell’ambito delle istituzioni borghesi (statali) con monumenti a Bruno in Campo dei Fiori, ecc. In realtà la storia doveva smentirli, dimostrando che l’anticlericalismo borghese è del tutto insufficiente a scacciare i fantasmi della superstizione, le cui ragioni vitali risiedono anche nelle radici della società capitalistica. Non quindi anticlericalismo-laicismo positivistico, ma ateismo rivoluzionario militante doveva essere l’atteggiamento ideale coerente del marxismo e della sua lotta contro la religione, inserita nel quadro della lotta allo sfruttamento ed all’alienazione conseguente che genera la mitologia religiosa e la sua stessa esigenza.

9) ALFRED NORTH WHITEHEAD (1861-1947), filosofo di tendenza cosiddetta “organicistica-realistica” (uno degli interpreti in chiave idealistica della nuova fisica quanti-relativistica). Questa opinione è espressa in “La scienza ed il mondo moderno”.

10) “Galileo – scrive sempre Antonio Labriola – nel “Nun­zio Sidereo”, dopo solo 10 anni dalla morte del Bruno, ne tace affatto, cosa di cui più tardi gli mosse rimprovero Keplero, amico ed ammiratore del Bruno”. Galileo, invero, era ossessionato dal timore di finire come il Bruno.

11Ed infatti il sistema tolemaico (da Claudio Tolomeo suo fondatore, geocentrico perchè poneva la terra a centro dell’universo) con l’avallo aristotelico, come splendidamente mostrerà Bertold Brecht nella sua «”Vita di Galileo” sulla scena, ma come già presupposto dai classici del marxismo, non poteva essere che l’immagine metafisica di un mondo gerarchico distribuito per gradi di dignità, in cui la Terra, centro del mondo, è tale per l’intelletto umano che vi fiorisce secondo l’antico pagano Tolomeo, poi, per i cristiani, perchè ivi si è incarnato dio.

11 bis) ERACLITO (nato all’inizio del sec. V a.C.), filosofo greco, identificò il principio primo del cosmo nel fuoco. Per lui la realtà è un flusso perenne e il “Fuoco “ eraclitico può essere interpretato come espressione o come simbolo di questa mobilità e dinamismo.

12) La Massoneria non perde occasione per ricordare il sacrificio di Giordano Bruno: ma in funzione anticlericale meramente borghese-illuministica. Del pari sostiene la necessità di un dio per il “popolino”. Ovviamente, nel fiorire positivistico del secolo scorso e degli inizi del nostro, queste opinioni massoniche avevano eco e rilievo notevolissimo.

13) ARTHUR JAMES BALFOUR (1848-1930), politico inglese estremamente conservatore, addusse tesi “pragmatistiche” che invocavano la religione come sostegno dell’ordine, e condannò l’ateismo o la semplice eterodossia come fomenti alla sedizione.

14) THOMAS MÜNTZER (1498 circa-1525) e SEBASTIAN FRANCK (1500-1542), furono ideologi del comunismo mistico-utopistico sorto nel clima della guerra dei contadini tedeschi, in contrapposizione al conservatorismo di Martin Lutero. Il primo, poi semi­ateo, fu capo e martire di tal guerra rivoluzionaria. Engels ha dato una magistrale analisi storica di quelle vicende nella Guerra dei contadini in Germania.

15) ROBESPIERRE e HÉBERT furono per la “religione popolare”. Il primo, per quanto indeciso nella “scristianizzazione”, promulgò, come noto, il culto dell’Essere Supremo, e proclamò l’ateismo “aristocratico”. Il secondo, e specialmente il suo seguace Pietro Gaspare Chaumette, detto Anassagora, costituì il culto della Dea Ragione. Anche Marat, che definiva tutte le religioni favorevoli alla tirannide, e il cristianesimo più di tutte, non ebbe modo di influire sulla situazione, pur essendo borghese: a maggior ragione restarono inascoltati gli Arrabbiati, come poi gli Uguali (Babeuf).

16) GOTTFRIED WILHELM VON LEIBNIZ (1646-1715), grande filosofo tedesco, concepì la monade (ente unitario) come superamento del dualismo cartesiano tra spirito e materia: ogni monade (nell’universo sono infinite) è lo “specchio vivente” dell’universo: quella suprema è dio. L’influsso bruniano è notevole.

17) Nel 1900 Labriola scriverà… “L’ultimo suo scolaro è Georg Friedrich Hegel”, correttamente, perchè vero è che per Bruno la ragione umana, tutt’uno con l’universale, è consustanziale con la realtà, il che è in germe: tutto il reale è razionale, e viceversa per non parlare della “coincidentia oppositorum”…..

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