ODISSEA – Riassunto e commento 20° libro

ODISSEA

LA VEGLIA DI ULISSE
IL LAMENTO DI PENELOPE
IL BUON FILEZIO
 LE INGIURIE DI CTESIPPO
IL TREMENDO PRESAGIO DI TEOCLIMENO

LIBRO XX

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Tempo: Notte e trentanovesima giornata dall’inizio del poema
Luoghi dell’azione raccontata: La reggia di Ulisse
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NEL LIBRO PRECEDENTE
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Nella notte padre e figlio portano via le armi dal mègaron, dove avviene quindi il colloquio tra Ulisse e Penelope. Alle domande della donna lo pseudomendico racconta la storiella già narrata ad Eumeo, di essere, cioè, fratello di ldomeneo, re dei Cretesi, di aver ospitato Ulisse all’epoca della sua andata a Troia e sul fatto fornisce particolari cosi esatti che la regina, commossa, invoca Io sposo. Ella fa quindi lavare i piedi dell’ospite e, per espresso desiderio di lui, si accinge all’operazione Euriclea, la quale ad un certo punto, per una cicatrice ad una coscia, riconosce il padrone. Ma Ulisse le impone di tacere con tutti; egli continua poi il colloquio con Penelope, le interpreta un sogno nel senso che Ulisse già si trova ad Itaca e farà strage dei Proci, approva l’intenzione della donna di proporre il giorno seguente ai Proci la prova dell’arco. Penelope si ritira nella sua stanza e Ulisse rimane nel mègaron.

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Ulisse, rimasto solo nel vestibolo, dopo essersi preparato un giaciglio con pelli di bue e di pecora, tenta invano di addormentarsi, perché la vendetta del giorno seguente lo preoccupa non poco. Ad un tratto egli scorge un gruppo di ancelle che ridendo e schiamazzando escono dalla reggia, ma riesce a contenere il suo sdegno e a calmare il proprio cuore desideroso di punire le sfacciate.
Minerva, impietosita di lui, lo invita a star calmo e lo conforta a dormire, assicurandogli la sua protezione per la vittoria contro i Proci e infondendogli un dolce sonno ristoratore.
Dopo un breve sonno Penelope si risveglia invece di soprassalto. Angosciata per la scelta del nuovo sposo cui ella sarà costretta il giorno seguente, invoca Diana perché la faccia morire e rivedere quindi, almeno dopo morta, il suo Ulisse, che ora solo le appare in sogno, ad aumentare, nella delusione del risveglio, il suo cocente dolore.
Ulisse ode il pianto lamentoso di Penelope, si alza e, uscito nel cortile, chiede a Giove un segno propizio dal cielo; e subito s’ode un gran tuono a cielo sereno che l’eroe interpreta favorevolmente. Anche una vecchia schiava, che per la sua debolezza sta ancora macinando la quantità di grano assegnatale, si rallegra dell’augurio, sperando che il prossimo giorno possa essere l’ultimo per i Proci. Ed anche di questa spontanea ed augurale voce dell’ancella l’eroe si rallegra.
Si alza quindi Telemaco, il quale, dopo essersi assicurato presso la nutrice del buon trattamento riservato all’ospite, si reca nel foro. Euriclea dà ordini alle ancelle per la pulizia e i preparativi del banchetto, giacché, essendo la festa di Apollo, i Proci giungeranno alla reggia più presto del solito. Arriva intanto Eumèo, conducendo tre grossi maiali e chiede al mendico come i Proci lo abbiano trattato. Giunge anche Melanzio, che mena le più belle pecore ed ancora inveisce contro il mendico, mal sopportando la sua presenza ed infine ecco il bovaro Filezio, che reca dal continente una grossa giovenca e capre, ha parole cortesi verso ii mendico e si commuove al pensiero che forse anche Ulisse, il suo padrone, va ramingando cencioso per il mondo; infine egli non nasconde la speranza che il re un giorno possa tornare e disperdere la gentaglia  che ha invaso la sua casa. II mendico, allora, gli assicura che Ulisse tornerà e Filezio, insieme ad Eumeo, prega Giove perché tale profezia possa avverarsi.
I Proci entrano intanto nella reggia per il banchetto e Telemaco, che ha fatto preparare un tavolo sulla soglia per il mendico, impone ai pretendenti di rispettarlo. Antinoo ne è irritato; un altro malvagio e violento pretendente, Ctesippo, affermando ironicamente di voler regalare qualcosa al pitocco, gli scaglia contro una zampa di bue, che Ulisse tuttavia riesce a schivare. Telemaco, allora, esce in un’aspra invettiva e afferma che meglio sarebbe per lui essere da solo ucciso piuttosto che assistere a tali continui e vergognosi soprusi. Quindi, dopo un lungo silenzio, Agelao, un altro dei pretendenti, esorta i Proci a cessare dalle ingiurie e ad ascoltarlo. Le nozze erano state giustamente indugiate, ma ora è chiaro che Ulisse non tornerà più, per cui bene farebbe Telemaco a persuadere la madre a scegliere un nuovo sposo. Ne guadagnerà lo stesso Telemaco, che i Proci non avranno più, avvenute le nozze, motivo di fermarsi nella sua casa.
Telemaco risponde che non impedirà alla madre di celebrare le nozze, ma non la costringerà mai ad andarsene.
I Proci accolgono le parole del giovane con un riso irrefrenabile, che non è però riso di gioia; e dai loro occhi, sgorgano anche lacrime, senza motivo.
Minerva ha tolto loro completamente il senno. L’indovino Teoclimeno afferma di scorgere nella sala ombre sanguinanti che si aggirano convulse ed ode grida e pianti e le pareti grondano di sangue e l’atrio e il cortile sono pieni di spettri che vanno all’Ade. I Proci ridono di questa profezia e chiamano pazzo l’indovino che ad un certo punto se ne va dalla reggia. Telemaco tiene gli occhi fissi sul padre, attendendo un suo eventuale segnale d’attacco ed anche Penelope, accanto all’ingresso del mègaron assiste alla scena, senza perdere una parola.
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COMMENTO – Canto breve, tra i più brevi, ma denso egualmente di situazioni, di emozioni  e di personaggi. Un piccolo dramma grottesco nel quale il sipario si apre sulla scena quasi vuota, il vestibolo della gran sala, dove Ulisse giace, ma non dorme.
Ad un tratto la scena è attraversata da un gruppo di ancelle che ridono e vanno ad amoreggiare, fuori di casa. Questo del riso sarà il motivo dominante del canto, un riso amaro che tornerà sulla faccia dei pretendenti, nella grandiosa scena del banchetto, un riso folle e di morte.
Neppure Penelope dorme; anche per lei, come per Ulisse, sarà giornata decisiva e Ulisse, che ha udito i sospirosi lamenti della donna, esce nel cortile, mentre l’aria del primo mattino è ancora fredda. Silenzio, ora; solo il rumore lento di una macina, alla quale un’anziana ancella ancora lavora. Oh, Giove, manda un presagio! E un tuono si ode e la serva s’allegra in cuore e pronuncia una maledizione contro i Proci.
Ora la scena si anima. Vengono ancelle a preparare la sala; sarà gran festa, oggi. È il giorno di Apollo e sarà banchetto di nozze. Giunge Eumeo e rinnova la sua solidarietà al mendico; giunge Melanzio e sfoga ancora il suo malanimo; giunge Filezio dal continente e subito s’accende in lui viva simpatia per il forestiero, sotto le cui vesti egli è certo di scorgere lineamenti di re.
Tornano i Proci lieti dell’evento, ma di una gioia velata da un sinistro presagio. È il banchetto. Telemaco ha fatto preparare per suo padre un tavolo sulla soglia del mègaron; non lo si tocchi, ammonisce: e Ctesippo ironico e spavaldo, di una tracotanza a freddo, senza l’ombra di provocazione, scaglia contro il mendico una zampa di bue. E ha inizio in tutti l’inestinguibile riso. Ridono i Proci con facce di pianto; le carni arrostite grondano sangue, l’esaltazione è generale. II Dio ha toccato i nemici di Ulisse e già un corteo funebre d’ombre s’affretta all’Ade. La preparazione psicologica della catastrofe finale va sempre più completandosi.
Sul riso folle dei Proci si eleva quindi sinistra, apocalittica, la visione di Teoclimeno. È un pazzo! Buttatelo fuori!, gridano i pretendenti e il loro lugubre riso riprende e vuol smorzare quel presagio di morte e vuol diradare il velo nero che su loro discende. Si è pensato ad Eschilo e a Shakespeare per una simile scena.
Eschilo e Shakespeare avranno certamente avuto presente Omero per le scene grandiose e consimili dei loro capolavori.
L’allucinante atmosfera di incubo continua. Ulisse e Telemaco guardano; la Parca attende la fine dell’ultimo pranzo dei Proci.
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