ODISSEA – Riassunto e commento 1° libro

ODISSEA

INVOCAZIONE E PROTASI

A GLI DEI A CONCILIO

MINERVA E TELEMACO

PENELOPE

EURICLEA

LIBRO I

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Tempo: Un giorno del ventesimo anno dalla partenza di Ulisse per Troia

Luoghi dell’azione: Olimpo; reggia di Ulisse ad Itaca.
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Il poema, come già l’Iliade, si apre con l’invocazione alla Musa; segue la proposizione o protasi, l’argomento cioè che il poeta si accinge a cantare: le avventure di Ulisse, costretto da una forza avversa a vagabondare sui mari e ad affrontare gravi pericoli, per salvare se stesso e i compagni.
Ormai gli eroi reduci dalla guerra di Troia sono tornati alle loro case. Il solo Ulisse è ancora lontano da Itaca, trattenuto nell’isola di Ogigia dalla ninfa Calipso, che vorrebbe farlo suo sposo. Gli Dei ne hanno sinceramente pietà, salvo Nettuno, cui Ulisse ha accecato il figlio Polifemo. Ma un giorno, sull’Olimpo, approfittando dell’assenza del Dio del mare, Minerva perora la causa dell’eroe itacese e ottiene da Giove il consenso che Mercurio, recatosi da Calipso, le ingiunga di lasciar libero Ulisse, mentre ella scenderà nell’isola di Itaca, per confortare Telemaco e per consigliarlo di recarsi a Pilo e a Sparta, in cerca di notizie del padre.
La Dea, postisi i talari d’oro ai piedi, vola ad Itaca e si arresta sulla soglia della reggia sotto l’aspetto umano di Mente, condottiero dei Tafi ed antico ospite di Ulisse. Il giovane Telemaco si avvede del forestiero e lo introduce nella reggia, mentre i Proci, come al solito, si accingono a banchettare. Telemaco ed il finto Mente si appartano, un po’ discosto dagli altri, e parlano. Il giovane esterna al vecchio le sue apprensioni per la sorta del padre e si lamenta dell’odioso comportamento dei Proci; l’ospite lo incoraggia a sperare ancora e lo esorta a recarsi a Pilo, dal re Nestore e a Sparta da Menelao, per chiedere notizie del padre.
La Dea, quindi, sparisce d’incanto e cosi il giovane si rende conto della teofania, che lo lascia stupefatto.
Il banchetto dei Proci viene intanto rallegrato dall’aedo Femio, che canta, sulla cetra, il ritorno degli eroi da Troia; lo ode dalle sue stanze Penelope e scende nella sala, accompagnata da due ancelle, per invitare l’aedo a cambiare il soggetto delle sue canzoni, ché quegli argomenti cosi tristi troppo la addolorano.
Ma il figliuolo la esorta a ritornare alle sue stanze, con tono insolitamente autoritario, e annuncia ai Proci che all’indomani riunirà l’assemblea degli Itacesi, per protestare pubblicamente contro la loro prepotenza di ingordi pretendenti. I principi tentano di reagire per bocca di Antinoo e di Eurimaco, ma poi, calata la sera, tornano alle loro case.
Anche Telemaco, accompagnato dalla vecchia nutrice Euriclea, si reca nella sua stanza; non riesce tuttavia a prender sonno e per tutta la notte ripensa ai consigli che gli sono stati dati dall’ospite circa il viaggio che intende fare a Pilo e a Sparta.
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COMMENTO – Chi, avendo già letto l’Iliade, apra l’Odissea a questo primo canto si persuaderà presto che i due poemi si presentano in maniera del tutto diversa. Rapido, incisivo, ardente il prologo dell’Iliade; lento, indefinito, pacato quello dell’Odissea.
I motivi poetici delle due opere non sono gli stessi, lo si avverte subito; e – diciamolo pure – mentre l’Iliade ci aveva presi nel vortice dell’azione, delle passioni sublimi, partigiani volenti o nolenti dei “nostri” personaggi, nell’Odissea l’inizio è più monotono e pare che il poeta indulga ad una necessità artistica piri che poetica, la presentazione dell’ambiente, in funzione di coloro che ne saranno i protagonisti.
II discorso si potrebbe ripetere per i primi quattro libri, quelli cosiddetti della Telemachia, in quanto appunto Telemaco è al centro dell’azione, un Telemaco che si libera dagli impacci e dalle remore spirituali e morali della sua giovane età, per diventare uomo, con l’aiuto di Minerva, ma soprattutto sull’esempio del suo grande padre, ch’egli scopre spiritualmente, prima ancora di averne notizia da Nestore e Menelao, nel viaggio a Pilo e a Sparta.
Ma per restare a questo primo canto si osservi il concilio degli Dei; anche essi, per quanto creature superiori, risentono della diversa atmosfera del poema, che non è più l’ardente celebrazione delle passioni spinte al loro vertice, ma un più maturo e sereno ripensamento della vita umana, al quale forse il lettore con maggior diffidenza e meno entusiasmo si accosta, ma dal quale il suo animo verrà più saldamente soggiogato col trascorrere dei versi, col passare dei canti.
Dall’Olimpo agli occhi nostri si schiude la scena di Itaca e della reggia di Ulisse. L’eroe non c’è; già lo sappiamo. Ma il dolore di Penelope, che Omero ci fa appena intravvedere con tratti di sublime poesia, l’ansia giovanile di Telemaco, il disordine politico, l’incipiente anarchia che schiude la via alle prepotenti ingordigie dei Proci, tutto insomma ne accresce il rimpianto e crea quell’aria di trepida attesa, di tormentata aspettazione, quella sensazione di vuoto, che presto diviene certezza di ritorno.
Ulisse non c’è ancora, ma tutto ci parla di lui. Quando Io incontreremo per la prima volta nel corso del quinto libro, seduto sulla spiaggia della bellissima isola Ogigia, egli con gli occhi velati di lacrime guarderà oltre l’orizzonte, l’animo proteso alla sua patria rupestre. Non è lungo il tratto che ci divide da lui in questi primi canti, anche se l’ira non ancor spenta di Nettuno, lo tiene tuttora lontano dalla sua isola.
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