ODISSEA – Riassunto e commento 18° libro

ODISSEA

 IRO, IL PITOCCO
 LA SFIDA CON ULISSE
 L’ANCELLA MELANTO

LIBRO XVIII

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Tempo: Trentottesima giornata dall’inizio del poema
Luoghi dell’azione raccontata: La reggia di Itaca
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NEL LIBRO PRECEDENTE
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All’alba Telemaco si reca alla reggia, dopo aver ordinato ad Eumeo di condurvi anche il forestiero. Viene accolto festosamente da Euriclea e dalla madre, cui il giovane ordina di promettere sacrifici agli Dei, qualora egli possa vendicarsi dei Proci. Si reca quindi in cerca di Teoclimeno, che accompagna alla reggia; dopo il pranzo egli racconta alla madre del suo viaggio e della notizia avuta da Menelao che Ulisse dovrebbe esser vivo. “È in Itaca”, aggiunge l’indovino, che lo ha ricavato da un fausto presagio. Frattanto Eumeo e il forestiero sì recano al palazzo; per la strada il capraio Melanzio insolentisce contro Ulisse e gli dà un calcio; nel vestibolo della reggia il vecchio cane Argo riconosce dopo vent’anni la voce del padrone e muore di gioia. Il porcaro ed Ulisse entrano nella sala, ma l’accoglienza che riserva Antinoo all’accattone è villana e violenta. Se ne sdegna Penelope, quando viene a saperlo e vorrebbe parlare col mendico, il quale però saggiamente le fa dire che attenda il tramonto, quando i Proci se ne saranno andati.
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È il pomeriggio e alla reggia sopraggiunge il mendicante Arnèo, soprannominato Iro, il quale, geloso del nuovo concorrente, lo invita con tono sprezzante ad abbandonare la sala. Ulisse gli risponde per le rime ed allora Antinoo, pensando di ricavarne divertimento, propone tra i due una lotta, promettendo al vincitore un ventriglio di capra e il monopolio dell’accattonaggio alla reggia.
I contendenti accettano, ma non appena Ulisse si scopre, per dar inizio all’incontro, Iro al vedere le sue membra, che Minerva ha rese ancor più robuste, comincia ad impallidire e vorrebbe evitare la prova. Ma i Proci lo costringono a combattere e al primo colpo Ulisse lo atterra, trascinandolo poi per un piede fino alla porta esterna del cortile e gli pone in mano un bastone, perché scacci i cani ed i maiali.
I Proci si congratulano con Ulisse e specie Anfinomo ha per lui parole gentili, ricevendone in cambio l’oscuro consiglio di lasciare quella reggia e di tornare alla propria casa, per sfuggire alla vendetta del re, che potrebbe tornare. Anfinomo è reso inquieto dalle parole dell’accattone, ma è destino che anch’egli debba cadere.
Minerva, frattanto, infonde a Penelope il desiderio di mostrarsi ai Proci; l’ancella Eurinome le consiglia di adornarsi un poco, ma ella rifiuta. La Dea, tuttavia, le manda un dolce sonno, durante il quale la rende stupendamente bella. Ella scende quindi nella sala ed i Proci restano ammirati dalla sua bellezza; la donna riprende dapprima il figliolo, che ha tollerato l’oltraggio di Antinoo all’ospite è quindi, rivolgendosi ai Proci, li invita, essendo ormai venuto il tempo delle nozze, a presentarle i loro doni.
Tutti i pretendenti mandano subito servi alle loro case a prendere i preziosi doni che intendono offrire alla regina: un magnifico peplo con dodici fibbie d’oro Antinoo, una collana d’oro e d’ambra Eurimaco, Euridamante dei bellissimi orecchini e cosi tutti gli altri. I doni vengono poi presentati alla regina che li fa portare nelle sue stanze, mentre i Proci cantano e ballano fino a notte.
Alcune ancelle si fermano coi Proci col pretesto di ravvivare il braciere che illumina la sala, ma il mendico le invita a raggiungere la loro signora, ché per attizzare il fuoco lui solo può bastare. Melanto allora, una delle ancelle, risponde villanamente al vecchio, il quale, minacciandola, le promette di farla punire da Telemaco, per cui tutte ne sono atterrite.
Minerva eccita ancora i Proci contro il mendico, perché più profondamente egli si crucci contro di loro. Eurimaco scherza sulla sua calvizie e lo taccia di pigrizia, giacché preferisce mendicare anziché lavorare. Ulisse reagisce con dignità e fierezza affermando che se giungesse Ulisse le grandi porte della reggia gli sembrerebbero non sufficienti per fuggire.

Eurimaco, adirato, tenta di colpirlo allora con uno sgabello, che ferisce invece un coppiere; ne nasce un parapiglia e Telemaco, intervenendo energicamente, inveisce contro i Proci, chiamandoli ubriaconi ed esortandoli ad andare a dormire. Finalmente Anfinomo calma gli animi e, fatte le libagioni, ognuno si reca alle proprie case.

COMMENTO – Salvo l’episodio della lotta con Iro, il libro XVIII può essere considerato un’appendice del precedente, dal quale appunto si differenzia solo per il tratto iniziale, di una notevole vivacità di colorito, la quale, specie nella descrizione di Iro, ci fa ricordare quelle pagine dell’Iliade in cui omero ha creato la figura di Tersite.
Per il resto continua quell’atmosfera di odiosità, di tensione, di mal celato turbamento nei Proci, nei servi e nelle serve infedeli e ancora di sdegno represso nel paziente Ulisse; atmosfera nella quale va preparandosi lentamente e per gradi la giustificazione umana ed anche poetica della carneficina, con la quali culminerà la vendetta del reduce, tradito, dilapidato nei suoi averi, offeso nella sua dignità, oggetto dei peggiori insulti da parte di Antinoo, di Eurimaco, di Melanto e degli altri soci, facenti parte o simpatizzanti della masnada dei pretendenti.
Ma per tornare all’episodio di Iro, che è l’unico tratto di vera poesia del canto, esso vale ad aumentare quel senso di crescente sgomento, di inespresso ma invisibile e vago terrore che la presenza del mendico – Ulisse ha suscitato fin dal suo primo apparire nella sala. Un uomo, certamente, che nasconde qualcosa di strano, che ostenta una tranquillità di fronte agli insulti e al livore altrui che non è debolezza ma sicurezza di sé, qualcosa, insomma che vale a impregnare di elettricità sempre più l’atmosfera, che già si avverte satura.
I Proci, nel loro intimo e tuttavia inconsciamente già hanno scoperto Ulisse sotto le vesti lacere del mendico; lo denuncia il loro atteggiamento; lo fa capire Antinoo per il quale la lotta con Iro si presenta non solo come un facile motivo di riso e di divertimento, ma come scusa e speranza di poter eliminare il vecchio, tacitando, se non la propria accomodante coscienza, quella dei suoi compagni più scrupolosi. Lo rivela Melanto, la sfacciata e misconoscente che troppo si accanisce contro il pitocco per non avere nel suo subcosciente divinato in lui il punitore delle malefatte sue e delle sue sfrontate amiche.
L’apparizione di Penelope e la richiesta dei doni nuziali, nel passo da me riassunto, nulla aggiunge alla personalità della donna e, poiché la determinazione ad agire le viene da Minerva, l’episodio va inquadrato nel sagace piano della vendetta che la Dea ha architettato. I Proci infatti devono smorzare ogni sospetto che in loro potrebbe nascere, con la certezza delle nozze, con la sicurezza che qualcuno di loro impalmerà la regina, perché Ulisse è morto e più non tornerà.
Perché la brace covi sotto la cenere fino al momento giusto, il giorno della vendetta, di cui appunto questi canti sono la preparazione.

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