ODISSEA – Riassunto e commento 19° libro

ODISSEA

SI TOLGONO LE ARMI DALLA SALA
COLLOQUIO DI ULISSE E PENELOPE
 LA LAVANDA DEI PIEDI
 ULISSE ED EURICLEA
IL SOGNO DI PENELOPE
LA PROVA DELLE SCURI

LIBRO XIX

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Tempo: Notte sulla trentanovesima giornata dall’inizio del poema
Luoghi dell’azione raccontata: La reggia di Itaca
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NEL LIBRO PRECEDENTE
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Nel pomeriggio giunge alla reggia il pitocco Iro, che ingelosito del  nuovo accattone, vorrebbe scacciarlo. Antinoo stimola allora i due alla lotta ed Iro ha la peggio e viene trascinato da Ulisse fuori della sala per un piede. Penelope intanto, ispirata da Minerva, scende fra i Proci più bella che mai e li invita ad offrirle i doni di nozze, il che i pretendenti fanno al più presto, inviando servi alle loro case. È notte: nella sala si canta e si balla e l’ancella Melanto, che osa deridere Ulisse, ne è fieramente minacciata e fugge con le altre. Quindi, eccitato da Minerva, Eurimaco incomincia ad offendere il mendico, il quale risponde e gli tiene testa, sicché il giovane pretendente, adirato, tenta di colpirlo con uno sgabello che invece atterra un coppiere. Telemaco interviene energicamente e infine, dopo un’ultima libazione, ognuno torna alle proprie case.
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Ulisse propone al figlio che si portino via le armi dal mègaron; se i Proci ne chiederanno il motivo si potrà dire che è stato perché non si logorino ulteriormente per il fumo. Euriclea vorrebbe restare per far lume, ma Telemaco la congeda, ché potrà essere d’aiuto il forestiero e la prega di tener chiuse le ancelle nelle loro stanze. Avviene dunque il trasporto, durante il quale Minerva illumina le operazioni con una luce sfavillante di cui Telemaco si meraviglia. Poi il giovane se ne va a dormire per consiglio di Ulisse, che resta invece nella sala a sorvegliare le ancelle e in attesa del colloquio richiesto da Penelope.
La regina scende intanto nel mègaron seguita dalle ancelle che sparecchiano le tavole e attizzano il fuoco; tra esse è Melanto, che svillaneggia nuovamente il mendico, minacciandolo con un tizzone. Ulisse le risponde redarguendola ed anche Penelope interviene, riducendo la pettegola al silenzio.
Fattosi poi sedere accanto il forestiero la regina gli chiede chi sia e donde venga; egli comincia innanzitutto col tessere un alto elogio della donna e vorrebbe quindi esimersi dal narrare le proprie miserie in casa altrui. Penelope risponde che anch’ella è infelice e gli dice dell’assedio dei pretendenti, dell’inganno della tela, ora scoperto, della impossibilità ormai, da parte sua, di tenerli a bada e di impedir loro di consumare tutte le sostanze di Ulisse.
Infine il mendico, ancora sollecitato, narra di essere fratello di Idomeneo di Creta e antico ospite di Ulisse, che nell’isola aveva approdato per una tempesta, all’epoca del viaggio a Troia e ne era ripartito con doni ospitali, dopo dodici giorni.
Penelope, commossa al ricordo del marito, diffiderebbe di queste notizie se il mendico non le desse indicazioni cosi precise sul come allora vestiva Ulisse, da essere indotta a credergli, pur disperando di poter più rivedere lo sposo.
II mendico allora, per rassicurarla, racconta anche a lei la storiella dei Tesproti, rassicurandola e predicendole prossimo il ritorno dell’eroe.
La donna non può credere a simile predizione ed ordina comunque alle ancelle di lavare i piedi all’ospite e di trattarlo con ogni rispetto; ma il mendico chiede che la lavanda sia fatta solo da un’ancella anziana come lui e vi si accinge pertanto Euriclea. Ad un tratto la vecchia, che già ha notato molte rassomiglianze tra il mendico e il suo padrone, benché Ulisse abbia voltato le spalle alla luce, avverte una ferita sulla sua coscia ed in tal modo lo riconosce.
Ella vorrebbe subito comunicare la sua gioia e la lieta notizia a Penelope, ma Ulisse la afferra per la gola e si fa giurare che a nessuno svelerà il segreto, prima che sia fatta giustizia dei Proci.
La regina poi, che non s’è accorta di nulla, riprende il colloquio con l’ospite, esternandogli la sua incertezza sul da farsi e chiedendogli di interpretarle un sogno. Ha visto un’aquila che piombando dall’alto sulle venti oche del suo cortile le ha tutte uccise; al suo pianto l’aquila, ridiscesa dal cielo, le ha detto con voce umana che quelle oche significavano i Proci uccisi dal re, già giunto ad Itaca e prossimo a compiere la strage. Ulisse conferma l’interpretazione del sogno e approva il saggio disegno della donna di proporre il giorno seguente ai pretendenti la prova delle scuri, per la scelta dello sposo in colui che saprà tendere il vecchio arco di Ulisse e passare in una .sola volta con la freccia gli anelli di dodici scuri.
Quindi Penelope sale nelle sue stanze, dove Minerva le invia un dolce sonno, mentre Ulisse resta nel mègaron.
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COMMENTO – Il Canto di Euriclea, si suol dire; perché l’episodio del riconoscimento dell’eroe da parte della vecchia e fedele nutrice segna come il vertice del libro ed insieme della poesia. Ma potremmo dire, e a torto non diciamo, anche il Canto di Penelope; perché la donna nell’intimo e segreto colloquio col mendico per la prima volta mette a nudo il suo cuore direttamente, le sue sofferenze nascoste, le sue speranze, a quell’uomo che le sta dinanzi, che è ancora il mendico, ma un mendico che fa ricordare Ulisse perfino nelle fattezze fisiche, oltre che nella saggezza, che parla di Ulisse il quale fu suo ospite, che rievoca cosi bene certi particolari del suo abbigliamento, impossibili, che lei, Penelope, oh si, ricorda pure benissimo, come fosse ieri, benché siano passati vent’anni!
Canto dunque di Penelope, anche. E duplice riconoscimento, diremmo. Ché anche Penelope, oltre ad Euriclea, riconosce Ulisse. Euriclea per una cicatrice che viene a dissipare i suoi dubbi del tutto e a renderla certa che quelle gambe e quei piedi che ella lava sono proprio le gambe ed i piedi di Ulisse. Ma l’amore in lei verso il forestiero s’è acceso all’udire il colloquio di lui con la sua signora.
E in quel colloquio, appunto, Penelope ha scoperto Ulisse. Non importa se altre prove e ben più reali e convincenti ci vorranno perché la regina possa essere del tutto certa (prudente e saggia, come vedremo, quasi all’eccesso) che Ulisse sia Ulisse. In questo canto, tutto soffuso di tinte dolci e dubbie, il cuore di Penelope si è incontrato col cuore di Ulisse e ne è nata una mutua comprensione, una mutua e viva simpatia, un accordo segreto di accenti in un’atmosfera di comune dolore e di ricordi comuni.
E se Penelope non può ancora gettare le braccia al collo di Ulisse, perché cosi vuole il racconto, che ha le sue necessità e le sue esigenze, Ulisse ha invece pienamente riconosciuto Penelope, ne ha scrutato alla perfezione l’animo, i sentimenti per lui, la commovente fedeltà. Si rinsaldano cosi le ragioni spirituali della vendetta imminente: quella donna è ancora la sua donna che per lui ha sofferto, soffre e ancora, ma per poco, dovrà soffrire.
Il riconoscimento di Euriclea è invece reale e riceve conferma dalle minacce che Ulisse suo malgrado, nostro malgrado, è costretto a fare alla vecchia per garantirsi il suo silenzio, tanto necessario al proseguimento dell’azione e al successo della vendetta. La vecchia ancella vede nel mendico il suo signore per un oscuro ed irrefrenabile istinto che è privilegio delle umili creature; sicché le parole di rimpianto per Ulisse ella le rivolge al mendico, che il suo signore le ha fatto ricordare, poiché in realtà le due persone son già fuse nel suo cuore presago, per una specie di miracolo d’amore. E il riconoscimento di Euriclea, in effetti, non giova all’azione del poema, ché appena avvenuto è subito represso e frenato, ma è proprio e soltanto una manifestazione ed un’espressione d’amore.
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