ODISSEA – Riassunto e commento 22° libro

ODISSEA

LA MORTE DI ANTINOO
ANCHE EURIMACO ED ANFINOMO CADONO
 MELANZIO PUNITO
ULISSE RISPARMIA FEMIO E MEDONTE
LE ANCELLE INFEDELI E MELANZIO
LA PURIFICAZIONE

LIBRO XXII

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Tempo: Fine della trentanovesima giornata dall’inizio del poema
Luoghi dell’azione raccontata: La reggia di Ulisse

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NEL LIBRO PRECEDENTE
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Ispirata da Minerva Penelope, dopo aver tolto dalla stanza del tesoro l’arco e le frecce di Ulisse, propone ai Proci la gara delle scuri, il cui vincitore ella sceglierà come suo sposo. Intanto i pretendenti tentano di piegare l’arma né vi è riuscito Telemaco, che ha tuttavia desistito dalla prova per un cenno del padre. Antinoo propone allora di rimandare la gara al giorno seguente e di placare nel frattempo Apollo. Ma Ulisse, che intanto s’è rivelato ad Eumeo e Filezio, impartendo loro le dovute disposizioni, chiede ed ottiene per intervento di Penelope e di Telemaco e nonostante lo sdegno di Antinoo, di cimentarsi egli pure. Eumeo infatti gli porge l’arco ed egli supera felicemente la prova, tra lo stupore attonito dei Proci. L’eroe fa quindi un cenno a Telemaco, che gli si pone accanto in armi.
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Liberatosi dei cenci che lo ricoprivano Ulisse si pianta sulla soglia e imbraccia l’arco; la prima freccia è per Antinoo, che stava vuotando una coppa: il giovane cade riverso, rovesciando insieme tavola, vini e vivande. I Proci pensano che l’uccisione da parte del mendico sia stata un tragico errore e Io minacciano perciò di morte, ma ben presto l’eroe si rivela, suscitando un generale terrore e un vano desiderio di mettersi in fuga.
Cerca di intercedere per tutti Eurimaco, il quale tenta di riversare sul defunto Antinoo ogni colpa e promette anche ricchi risarcimenti se Ulisse li risparmierà; ma l’eroe respinge sdegnosamente ogni proposta e scocca proprio contro Eurimaco il secondo dardo, che fulmina il giovane mentre invita i compagni a resistere e ad invocare aiuto.
Si prova allora Anfinomo a fare irruzione contro Ulisse, ma Telemaco lo previene e lo trafigge con un colpo d’asta, recandosi quindi, col permesso del padre, nell’armeria, per prendere armi per lui, per sé e per i due mandriani.
Ne ritorna presto recando scudi, elmi, lance e corazze; Ulisse continua la strage fino all’esaurimento delle frecce e quindi s’arma egli pure di elmo e scudo e impugna due lance.
Il capraio Melanzio, approfittando di un passaggio lasciato inavvertitamente aperto da Telemaco, riesce a rifornire di archi i Proci; se ne stupisce Ulisse e non sa rendersi ragione dell’accaduto. Telemaco tuttavia confessa la propria dimenticanza ed Eumeo e Filezio, invitati a chiudere nuovamente la stanza delle armi, sorprendono Melanzio che si accinge ad un secondo rifornimento, lo acciuffano e dopo averlo saldamente legato con una catena lo sospendono ad una trave, schernendolo. Ritornano infine nella sala, pronti a combattere.
Minerva, per infondere maggiore ardire ad Ulisse, gli appare sotto le spoglie di Mentore e i Proci se ne sdegnano e ignari minacciano di rappresaglie il falso Mentore, che incita Ulisse ad una condotta ancor più fiera e decisa e quindi, trasformatasi in rondine, sta ad osservare il combattimento dall’alto di una trave del soffitto.
Sotto i colpi di Ulisse e dei suoi cadono altri dieci dei pretendenti, i colpi dei quali vanno invece tutti a vuoto; Minerva, poi, fa balenare la sua egida davanti ai Proci che si disperdono atterriti per la sala. Nella strage che continua Ulisse uccide anche l’indovino Leòde che invano lo ha pregato di risparmiarlo.
Sopravvivono ancora soltanto l’aedo Femio e l’araldo Medonte. Femio, incerto se guadagnare l’uscita e rifugiarsi presso l’altare di Giove o buttarsi ai piedi di Ulisse, mette in atto quest’ultima idea ed in suo favore interviene anche Telemaco, sicché Ulisse lo risparmia. Il giovane, poi, raccomanda al padre di far grazia anche all’araldo Medonte, qualora già non sia morto; a queste parole Medonte, che s’era rifugiato sotto un tavolo, nascondendosi con una pelle di bue, esce dal suo nascondiglio e si getta egli pure ai piedi di Ulisse, che ordina ad entrambi di uscire nel cortile.
L’eroe quindi, dopo essersi accertato che tutti i Proci sono effettivamente stati uccisi, fatta venire Euriclea, le ordina di indicargli le ancelle infedeli e di mandargliele nel mègaron e le vieta altresì di svegliare per il momento Penelope. Giungono le dodici ancelle ed Ulisse ordina loro innanzitutto di liberare il mègaron dai cadaveri dei Proci e di ammucchiarli nel vestibolo; quindi fa loro pulire accuratamente la sala e le mense e infine le sciagurate, affidate a Telemaco, vengono tutte impiccate nel cortile, dove viene condotto anche il capraio Melanzio che, prima di morire, è orrendamente mutilato del naso, delle orecchie, delle mani e ilei piedi.
Si purifica quindi la sala con zolfo e fuoco. Le ancelle fedeli si affollano intorno all’eroe festeggiandolo ed Ulisse, dopo tante emozioni e tante ansie, è vinto da un forte desiderio di pianto.
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COMMENTO – Nel libro XXII ha materialmente luogo la vendetta di Ulisse, cioè l’uccisione dei Proci, delle ancelle infedeli e del capraio Melanzio; un libro di battaglia, dunque, di strage, di sangue che scorre sull’interrato del mègaron, di inutili preghiere di moribondi che chiedono salvezza, di lance che volano nell’aria, di corpi che cadono. L’atmosfera fa pensare all’Iliade, ma non certamente alla migliore Iliade, ché la strage dei Proci, poeticamente, denuncia una certa monotonia ed è solo la logica conclusione, per la necessità del racconto, dell’ira prorompente di Ulisse, che ha avuto la sua preparazione poetica nei canti precedenti.
Se si volesse, per chiarezza di eloquio, rappresentare con una curva parabolica la poesia dell’Odissea, potremmo dire che con l’inizio del XXII canto questa curva incomincia a discendere e discenderà sino alla fine, precipitando appunto come una parabola. Nell’Odissea, a differenza dell’Iliade, il poema si conclude e questa conclusione se appaga la nostra curiosità di lettori, ammorza tuttavia l’afflato lirico del poema. I suffumigi di Ulisse non bastano né a salvar la morale né a salvar la poesia.
Non manca tuttavia nel canto qualche vivace sprazzo poetico. Innanzitutto all’inizio, quando dai cenci del mendico balza fuori un grande Ulisse vendicatore di tanti soprusi, di tante angherie. La sua superba figura che si staglia sulla soglia del mègaron, con accanto il figlio, anch’egli giunto alla dimostrazione pratica delle conseguita efebia, già ci assicura che la vittoria è nelle mani dell’eroe. E la purificazione del nostro animo, la catarsi del lettore che è stato presente fin dall’inizio al crearsi di tutte le premesse di questa vendetta, si compie pienamente in questa certezza di successo della giustizia sull’ingiustizia, del bene sul male, della paziente attesa sulla tracotante e continua offesa.
L’estrinsecarsi di questa vittoria di Ulisse, freccia su freccia, colpo su colpo, la punizione delle ancelle reprobe, dell’infame capraio Melanzio sono episodi di cronaca. E il poeta ben se ne avvede e tenta di illuminarli qua e là con qualche similitudine, che tuttavia tradisce l’artificiosità della sua presenza.
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