ODISSEA – Riassunto e commento 23° libro

ODISSEA

L’ANNUNZIO A PENELOPE
 PENELOPE INCREDULA
LA FALSA FESTA NUZIALE
 IL SEGRETO DEL TALAMO
 ULISSE ESCE DAL PALAZZO

LIBRO XXIII

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Tempo: Notte della quarantesima giornata dall’inizio del poema
Luoghi dell’azione raccontata: La reggia di Ulisse

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NEL LIBRO PRECEDENTE
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Incomincia la strage; dapprima cade Antinoo e quindi Eurimaco, che con promesse di risarcimento ha invocato invano clemenza da Ulisse. È poi la volta di Anfinomo, trapassato dall’asta di Telemaco, il quale, finite le frecce, provvede di armi se stesso, il padre e i due mandriani. I Proci cadono ad uno ad uno, mentre Minerva interviene ad incoraggiare Ulisse e ad atterrire con l’egida gli avversari. Sono risparmiati solo Femio e l’araldo Medonte, per intercessione di Telemaco. Quindi le ancelle infedeli, segnalate da Euriclea, sono costrette a rimuovere i cadaveri dei Proci e a ripulire la sala, dopodiché tutte vengono impiccate nel cortile, unitamente al capraio Melanzio, orrendamente mutilato. Ha luogo infine la purificazione del mègaron con zolfo e fuoco.
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Euriclea intanto corre esultante a risvegliare Penelope, per comunicarle la vera identità del mendico ed annunziarle l’avvenuta strage dei Proci. Penelope, attonita, non può credere a simile straordinaria notizia e solo per rispetto alla vecchiaia della serva non la punisce.
Ma Euriclea insiste nelle sue affermazioni, sicché la regina in un trasporto di gioia la abbraccia, ricadendo tuttavia subito dopo nel dubbio; è impossibile che Ulisse da solo abbia potuto uccidere tutti i Proci; certamente si è trattato di un Dio. La serva, allora, assicura di avere personalmente riconosciuto il suo re dalla cicatrice della gamba ed esorta la regina a scendere nel mègaron, dov’è attesa.
Penelope acconsente e, giunta di fronte ad Ulisse, Io guarda a lungo in silenzio stentando tuttavia a riconoscerlo a causa dei cenci che lo ricoprono; Telemaco non manca di rimproverare alla madre il suo freddo contegno nei riguardi dello sposo dopo vent’anni di assenza, ma Penelope si giustifica dichiarandosi del tutto stupita ed affermando altresì di avere delle prove infallibili per accertarsi se il forestiero sia veramente Ulisse.
Intanto l’eroe pensa al modo di impedire che la notizia della strage si sparga per la città e provochi la vendetta dei parenti dei Proci. A tale scopo egli ordina che le ancelle si abbiglino e si dia inizio ad una festa danzante, sicché gli estranei possano pensare che si stanno celebrando le nuove nozze della regina.
Eurinome lava l’eroe, lo unge e gli fa indossare una splendida veste; Minerva poi gli accresce vigore e bellezza. Ma Penelope rimane sempre nel suo atteggiamento di diffidenza. Ulisse non manca di accusare la moglie di avere un cuore insensibile e ordina quindi ad Euriclea di preparargli un letto in disparte dalla stanza nuziale, giacché la moglie si ostina a non voler riconoscerlo.
Penelope infine ricorre alla prova estrema, per dissipare ogni suo dubbio; ordina ad alta voce ad Euriclea di far togliere il letto nuziale di Ulisse dalla stanza e di prepararglielo altrove. L’eroe allora si stupisce che la regina impartisca simile ordine; ella ben sa, perché è la sola con Eurinome ad essere partecipe del segreto, che nessuno potrà mai spostare quel letto, che egli stesso  ha costruito sul tronco di un ulivo, dopo avervi eretta intorno la stanza.
È la prova suprema; Penelope, ormai convinta di trovarsi di fronte al suo sposo, impallidisce e sviene per la commozione; quindi, riavutasi, corre verso Ulisse, Io abbraccia e lo bacia, unendo le sue lacrime a quelle di lui, egualmente commosso.
Minerva trattiene frattanto la notte nel suo cammino e Ulisse annuncia alla moglie che non sono tuttavia finite le sue traversie, perché secondo la profezia di Tiresia, egli dovrà lasciare nuovamente Itaca per un lungo viaggio con un remo in spalla fino a giungere ad un popolo cui il mare e la navigazione siano sconosciuti e che scambierà quel remo per un ventilabro. Solo allora, fatti sacrifici a Nettuno, potrà fermarsi e ritornare in patria ad attendere una tranquilla vecchiaia ed una morte soave.
Posta fine alle danze tutti vanno a riposare ed anche Ulisse e Penelope si ritirano nella loro stanza, dove I’eroe narra del suo periglioso ritorno, dopoché la donna gli ha esternato i dolori e le umiliazioni sofferte in sua assenza ad opera dei pretendenti. I due si abbandonano quindi a un dolce e profondo sonno.
All’alba Ulisse, dopo aver raccomandato alla moglie di restare ritirata in casa senza ricevere alcuno, le annuncia che si recherà in campagna dal vecchio padre Laerte, per annunciargli il suo arrivo. Quindi armato e insieme a Telemaco e ai due fedeli mandriani esce dalla reggia, avvolto da una nube ad opera di Minerva e si avvia verso il podere di Laerte.
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COMMENTO – Questo libro ed il seguente, già Io si è detto, segnano come il crepuscolo della grande poesia odisseica. Un crepuscolo non del tutto privo di qualche bagliore, ma nel quale si avverte la fine e la conclusione del canto. L’uccisione dei Proci, già narrata cronachisticamente in troppi particolari, all’inizio di questo libro è rivissuta poeticamente nel racconto che la vecchia Euriclea fa a Penelope, quando si reca a svegliarla per annunciarle, finalmente, la grande notizia del ritorno di Ulisse.
Ed ora nelle sensazioni che la serva ebbe di questa strage, dalle sue stanze, dove giungevano le grida e i lamenti dei feriti, nella apparizione che essa ha avuto di Ulisse, asperso di sangue recente, in mezzo ai cadaveri dei Proci come feroce leone che si esalti della sua forza tra le pecore scannate del gregge, anche la freddezza che avevamo notato al libro precedente, negli elenchi dei caduti che si succedevano, si colora di poesia.
Ma il principale nucleo poetico del canto vuol essere l’incontro tra Ulisse e Penelope ed il riconoscimento. In esso non c’è esplodere di sentimenti, come forse vorrebbe la nostra affrettata passionalità di lettori moderni, ma tutto è preparato per gradi. Penelope, dapprima, all’annuncio di Euriclea non crede; poi, quando le prove che la vecchia serva adduce, la cicatrice, la consapevolezza di Telemaco, apportano una qualche luce al suo sperare (quanta spontaneità in quell’abbraccio alla nutrice, subito represso, tuttavia!) la donna ci viene presentata per l’ultima volta eternamente dolente e sospirosa, nell’atroce alternativa tra la speranza e la disperazione, tra gioia e dolore, tra sentimento e ragionamento, che è sempre stata la caratteristica del personaggio, fin dalla sua prima presentazione.
E questa atmosfera di dubbio e di incertezza dura ancora, forse troppo a lungo, nello stesso incontro e colloquio col marito, nell’angolo raccolto del mègaron, accanto al focolare, dove le ragioni del cuore sono ancora imbrigliate dalle ragioni della mente fino ad esplodere, dopo la prova suprema del letto nuziale, nel trionfo d’amore.
E allora, quando la prudenza e la saggezza nulla più hanno da chiedere, pienamente soddisfatte, noi avvertiamo quanto sacrificio esse siano costate alla stessa Penelope, che ci era apparsa fredda e quasi artificiosa, come le hanno rinfacciato Telemaco ed Ulisse, e che invece ora apre il suo cuore alla più appassionata felicità che solo si attenua nel rimpianto degli anni perduti e nella trepidante attesa e certezza, quasi, di altri mali che verranno a turbarla.
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