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OMERO – Che taluni abbiano negato la persona di Omero, pur non potendo ignorare ed anzi dovendo accettare la realtà dei poemi che portano il suo nome, è fatto risaputo. Ma l’esistenza di Omero è tra le cose che noi dobbiamo ammettere, proprio perché ce lo impone l’innegabile realtà della sua poesia.
Friedrich August Wolf (Hainrode, 15 febbraio 1759 – Marsiglia, 8 agosto 1824) per esempio, un dotto tedesco (1795), credette di poter affermare che l’uso della scrittura non c’era al tempo in cui sorsero i poemi omerici, i quali dunque sarebbero stati trasmessi oralmente e risulterebbero dall’unione di singoli canti, composti in diversi poeti, in diverse età e raccolti e ordinati in due grandi poemi, ad Atene, al tempo di Pisistrato (VI secolo a. C.).
Ma più tardi un altro tedesco, Heinrich Shliemann (Neubukow, 6 gennaio 1822 – Napoli, 26 dicembre 1890) , archeologo appassionato, dimostrò, scavando sul colle di Hissarlik, dove era sorta l’antica città di Troia, che l’affermazione del Wolf non era vera e che la scrittura c’era anche al tempo in cui sorsero i poemi d’Omero.
Questa comunque in succinto la teoria del Wolf:
1. Omero non è mai esistito.
2. I poemi omerici risultano dalla giustapposizione di canti separati, recitati da rapsodi e messi insieme, affidati per la prima volta alla scrittura, al tempo di Pisistrato, da una commissione di letterati.
Quale conclusione dunque si dovrebbe trarre, accettando questa teoria? Che l’Iliade non è una composizione unitaria, opera cioè di un solo autore, ma il prodotto naturale della leggenda popolare.
L’affermazione sembra paradossale ai giorni nostri, ma bisogna pensare che essa fu sostenuta in un periodo nel quale conclusioni di tal genere…. erano di moda, il periodo appunto del romanticismo, una dottrina letteraria (e no solo letteraria) che concepì la poesia come manifestazione naturale più che artistica.
Cioè i poemi omerici, nella loro mole, deriverebbero da piccoli nuclei originari – una piccola Iliade e una piccola Odissea – e poi per ampliamenti ed elaborazioni successive, sarebbero giunti allo sviluppo che presentano attualmente.
C’è, per esempio, un guerriero, Pilemene, che viene ucciso in battaglia nel libro V dell’Iliade e poi lo stesso personaggio ricompare nel libro XIII, per assistere ai funerali del figlio. Ma simili contraddizioni ben si capiscono in un’opera di cosi vasta mole! E del resto cose del genere ci sono anche nell’Orlando furioso e perfino ne I promessi sposi del romanzo di Alessandro Manzoni.
1. Omero si avvalse certamente di una fioritura di leggende epiche a lui preesistenti, tutti elementi che egli utilizzò rifondendoli tuttavia nella sua fantasia; il che è valso a dare al lettore, nonostante le suaccennate e insignificanti contraddizioni, una evidente impressione di unità (teoria degli unitari).
2. Accanto agli unitari restano. sono pochi – gli antiunitari, coloro cioè che sono rimasti sulle posizioni dei seguaci del Wolf.
3. C’è infine un terzo orientamento, che potremmo definire intermedio, ed è quello dei neounitari, per i quali l’Iliade ha avuto un solo poeta e cosi pure l’Odissea, due poeti distinti, che hanno elaborato canti precedenti, per cui i due poemi presenterebbero una unità che nasce dalla molteplicità.
Ma la questione omerica ha perduto oggi molto del suo interesse di un tempo. Al di là di questo lavorio sottile dei critici per noi resta l’opera d’arte, l’Iliade e l’Odissea, di fronte alla cui bellezza di poemi umani e immortali, ogni questione critica impallidisce e perde ogni importanza.
Nel primo poema la tragedia di una città, il romanzo della guerra, dell’odio, della morte; nell’Odissea il dramma di un uomo ramingo per dieci anni alla vana ricerca di una terra che gli sfugge, la sua terra natale, della quale egli ad un certo punto, disfatto dalle sofferenze e dalla speranza eternamente delusa, si accontenterebbe di vedere il fumo che sale al cielo, per chiudere poi gli occhi per sempre.
Romanzo dei viaggi e delle avventure sulla terra e sul mare, fu definita l’Odissea, ed anche poema che sta a capo della letteratura dei libri di viaggi e di avventure, di lunghe separazioni e dispersioni e di sospirati e conseguiti ritrovamenti, di quanto eccita e intrattiene l’immaginazione senza troppo impegnare l’animo e la mente.
Già si è visto che il motivo dei ritorni degli eroi da Troia, dopo l’incendio della città e la guerra decennale, fu comune anche alla poesia ciclica, che come aveva cercato gloria nella imitazione dell’Iliade e nella continuazione delle gesta che Omero aveva omesse, proprio per esigenze di poesia, cosi sulla scorta del grande “nóstos” di Ulisse, cercò di stimolare l’interesse del pubblico degli ascoltatori col narrare i ritorni degli altri eroi da Troia.
Ma come per L’Iliade Omero aveva saputo, al di là della narrazione degli avvenimenti della guerra, farci rivivere l’atmosfera tragicamente cupa, quel senso di vanità della vita, in balia di un fato inesorabile, che va sempre più accentuandosi fino a divenire motivo dominante negli ultimi canti, cosi nell’Odissea le peregrinazioni e le avventure dell’eroe sono soltanto il substrato sul quale la fantasia spazia liberamente plasmando e modellando figure che valgono per l’eternità, non figure e tipi che hanno valore contingente, collegati col fatto storico e colla sua temporaneità.
Come già nell’Iliade anche per l’Odissea Omero entra in “medias res”, offrendo ai seguaci di tutte le letterature un magnifico esempio di narrazione retrospettiva, che anima e vivifica sensibilmente il racconto ed il poema, il quale suole essere diviso in tre nuclei fondamentali:,
1. La Telemachia, cioè i primi quattro canti che celebrano l’efebia di Telemaco e narrano il suo viaggio a Pilo e a Sparta, in cerca di notizie del padre.
2. Le avventure di Ulisse, narrate direttamente nei canti V e VI ed in visione retrospettiva dal VII al XII, col racconto dell’eroe al re Alcinoo.
3. L’arrivo a Itaca e la vendetta sui Proci dal libro XIII alla fine del poema.
E sulla scia degli antichi si son messi i moderni, tra i quali Richard Hennig, geografo tedesco (Berlino 1874 – Düsseldorf 1951) e, più noto, il diplomatico e omerista francese Victor Bérard (Morez, 1864 – Parigi, 1931), per non dire dell’interesse che la questione ha suscitato dopo l’uscita de L’Italia sul mare, una ricostruzione giornalistica del Viaggio di Ulisse, dovuta alla penna e al buon gusto di Giacomo Etna (pseudonimo di Vincenzo Musco, Niscemi 1895 – Roma 1963).
Il Bérard non si accontentò di trarre illazioni e creare ipotesi a tavolino dopo aver consultato mappe e portolani, giacché presa in mano l’Odissea ed imbarcatosi sul suo yacht, egli girò tutto il Mediterraneo con commovente fedeltà al suo poeta, traendo delle conclusioni spesso soltanto congetturali ma sempre seducenti.
ILIADE E ODISSEA – L’accostamento dei due poemi per trarne giudizi estetici o constatazioni sulle analogie o profonde differenze che in essi si sono riscontrate e sui loro caratteri distintivi non è solo un’esigenza della critica moderna. Già l’Anonimo autore del Sublime (piccolo trattato di critica, il cui autore ci è sconosciuto, databile forse verso la prima metà del I secolo a. C., nel quale l’Anonimo, con gusto fine e personalissimo dà sulle opere di poesia e in genere sui fenomeni letterari valutazioni estetiche assolutamente valide anche per noi moderni), osservava che nell’Iliade “Omero spira favorevole alle battaglie; e di lui medesimo può dirsi che è preso dà furore – come quando Ares agitator dell’asta o fuoco – funesto su pei monti infuria, nei recessi della fitta boscaglia; – e la spuma gli viene alla bocca. Invece nell’Odissea…. egli mostra che un grande genio, declinando, ha nella vecchiaia la specialità del favoleggiare”.
E più avanti: “Avendo scritta l’Iliade nella pienezza del suo spirito, tutto il corpo di quest’opera egli fece drammatico e ardente d’azione; quello dell’Odissea invece narrativo, il che appunto è proprio della vecchiezza. Quindi nell’Odissea potrebbe Omero paragonarsi al sole quando tramonta, che mantiene la sua grandezza, perduto però l’ardore. Infatti qui egli non ha più quella intensità che è nei magnifici canti dell’Iliade; non più quella elevatezza sempre sostenuta ed esente da ogni depressione, né quel diluvio di passioni le une sulle altre, né infine la rapidità ed efficacia oratoria, folta di immagini prese dal vero: però alla maniera dell’Oceano quando rientra in se stesso e nei propri termini si apparta, vi appaiono tuttora i riflessi della grandezza, perfino in quei favolosi e incredibili divagamenti”.
È la domanda alla quale da tanti anni la Critica ha cercato di dare una risposta. E non solo la Critica con tanto di maiuscola, ma anche ogni lettore, giunto alla fine dei due poemi si pone quasi inavvertitamente il quesito, ché facilmente si notano le differenze e i tratti distintivi delle due opere.
Che differenze tra l’Iliade e l’Odissea ce ne sono e si tratta veramente di due mondi diversi, tanto diversi che proprio su questa considerazione è sorta fin dall’antichità l’ipotesi delle due personalità poetiche, Omero per l’Iliade ed un altro poeta per l’Odissea.
Per Camillo Cessi (Rovigo, 23 luglio 1876 – Milano il 9 febbraio 1939) nella sua Storia della letteratura greca la differenza sta tutta alla superficie: chi scenda più addentro, troverà che l’unità spirituale fra l’autore dell’Iliade e quello dell’Odissea è cosi piena che le anime degli autori si debbono fondere in una sola, a meno che non si voglia contrapporre ad un fatto in sé naturale, il miracolo di due artisti diversi per tempo e per natura che nella concezione artistica si confondono si da parere uno solo).
Ma anche senza voler accettare l’ipotesi del Sublime, che è poi la tentata composizione di Aristarco delle idee dei ‘separatisti’ alessandrini, e cioè la teoria dell’Omero giovane per l’Iliade e dell’Omero vecchio per l’Odissea, resta tuttavia valida l’affermazione del grado poeticamente minore del secondo poema rispetto al primo?
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Altro discorso è dire – come disse Engelbert Drerup, filologo classico (Borghorst, Vestfalia, 1871 – Münster, Vestfalia, 1942) – che l’Odissea riesce più vicina al nostro sentire moderno che non la sanguinosa serie di battaglie dell’Iliade, dell’Iliade greve e pesante e rialzata solo dall’addio di Ettore ad Andromaca e dal colloquio di Achille con Priamo. Ché si potrebbe obiettare che l’Odissea è poema di più facile lettura e spesso a taluni capita di far coincidere il facile col bello e il difficile col meno bello; come un quadro che narri minuziosamente senza nulla trascurare attira talvolta di più di un semplice abbozzo di difficile intelligenza, ma tuttavia di arte racchiusa e profonda.
E allora concludo con Benedetto Croce (1866 – 1952) che la differenza tra i due poemi non consiste in un maggiore o minor grado poetico, ma nella loro diversa natura e che l’Odissea resta un’opera d’arte, ma non più, nel suo intrinseco, d’impetuosa poesia.
LA POESIA DELL’ODISSEA – Fu detto esattamente che chi, dopo l’Iliade legga l’Odissea, sulle prime può avere come l’impressione di ascoltare una musica elegiaca dopo una grande sinfonia marziale. E si potrebbe aggiungere che la lettura del secondo poema è come la sciabordare delle onde sulla riva del mare dopo la visione di una tremenda burrasca.
All’elemento prevalentemente drammatico si è sostituito l’elemento narrativo, dall’eroico si è discesi all’umano, da un’atmosfera tragicamente cupa il poeta ci trasporta nel regno della fantasia, dove le creazioni si aggiungono alle creazioni, dove anche i dolori passati acquistano una loro dolcezza, dove alla fine non manca un senso di serena tranquillità che sembra essere non solo la conclusione del secondo poema, ma anche del primo.
Non più la ferocia, l’odio, l’eroismo spinto al massimo delle possibilità dei personaggi iliadei, ma sentimenti in sordina, una visione piri pacata della vita, due motivi che si sviluppano contemporaneamente nel cuore del protagonista: l’ansia dell’ignoto, di conoscere, di misurare la propria umanità con quella di altri popoli e la viva nostalgia della propria casa; il desiderio di vedere Polifemo, il mostro gigante dall’unico occhio sulla fronte e le lacrime dell’eroe, seduto su di uno scoglio di Ogigia, sordo alle lusinghe di una ninfa innamorata che invano gli ha promesso l’immortalità: due motivi questi continuamente ed egualmente ricorrenti.
Del primo, che a torto si ritenne quello principale, si impossessò Dante, creando il magnifico Ulisse del canto XXVI dell’Inferno, la possente figura del navigatore anelante – a divenir del mondo esperto – E delli vizi umani e del valore -, simbolo dell’umana sete di sapere e dell’ardimentosa volontà e dopo Dante il Tennynson, il Pascoli, il D’Annunzio.
Ma il secondo motivo, il tema del ritorno, dell’amaro ritorno, è quello fondamentale, anche se meno appariscente degli altri ed anche nei libri dal V al XII, si va si alla scoperta di un mondo nuovo, ricco di avventure e di meraviglie, ma si va soprattutto alla scoperta di Ulisse. Senza quei canti la sua grandezza sarebbe più affermata che dimostrata. Sono essi che sanano in qualche modo lo squilibrio morale e ideale dell’Odissea, e ci svelano un Ulisse ansioso di ritornare alla sua casa e alla sua donna, ma ad un tempo con un cuore di combattente pronto a commuoversi per ogni ricordo della grande vicenda di Troia, e pronto ancora ad osare e a rischiare, nel gioco inebriante del pericolo, la sua vita e quella degli altri.
Nel primo poema, infatti, i personaggi si muovono su sfondi essenziali o appena accennati o non accennati affatto e che comunque non entrano a far parte della scena, perché il poeta non sente la necessita di descriverli.
Nell’Odissea la situazione è capovolta e la descrizione del paese è l’obiettivo principale del poeta, e ad essa si subordina perfino l’azione che diventa un mezzo e non un fine. Per
cui la natura che nell’Iliade ha tanta parte col ritrovato, di tono essenzialmente lirico, delle similitudini, nell’Odissea diventa parte integrante dell’ispirazione del poeta.
E infine, in questa breve rassegna, non può mancare un accenno al “meraviglioso” che tanta parte ha nel poema, del quale Omero consciamente si avvale per rendere più agili le movenze dei suoi eroi, si che le possibilità dell’umano vengono esaltate oltre un limite che farebbe sorridere, per una spontanea comicità dell’assurdo, se la concretezza plastica di queste creature poetiche non le tenesse ben salde a una realtà vivamente umana.
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