I PROMESSI SPOSI – Alessandro Manzoni (Versione scolastica)

Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – Milano, 22 maggio 1873)
Alessandro Manzoni fu sommo poeta e romanziere. Nato a Milano, educato dai Padri Somaschi a Merate e Lugano, e dai Barnabiti del Collegio Longone a Milano, visse fino al 1804 a Milano e Venezia: nel periodo 1805-10 fu a Parigi (assieme alla madre Giulia Manzoni, con Carlo Imbonati); frequentò l’ambiente degli studiosi, legandosi specialmente allo storico Fauriel, che ebbe notevole influenza sulle concezioni storiche del Manzoni, specie su quelle espresse nell’Adelchi.

Fino al 1809 si dedicò a una produzione letteraria prevalentemente neoclassica: Trionfo della Libertà, poemetto in 4 canti, in terzine 11801); Adda, epistola in versi sciolti (1803), In morte di Carlo Imbonati (1806), Urania (1809).
Nel 1808 si unì in matrimonio con la ginevrina Enrichetta Blondel, che, passata dal calvinismo al cattolicismo, influì, col prete Eustachio Degola, sulla conversione dello scrittore (1810).
Dal 1810 alla morte visse quasi costantemente a Milano, dove, nel 1837, passò a seconde nozze con Teresa Borri Stampa; aderì al moto del Risorgimento, firmando nel 1848 l’indirizzo che chiedeva l’intervento di Carlo Alberto in Lombardia contro l’Austria.
Fu eletto senatore (1861) e cittadino onorario di Roma (1870).
Come letterato, il Manzoni è il caposcuola del romanticismo italiano (Lettre à Monsieur Chavet, 1820; Lettera sul Romanticismo, 1823; Discorso del romanzo storico, 1815; Dialogo dell’invenzione, 1850).
Tra le sue opere poetiche si annoverano anzitutto gli Inni sacri (1512-22); poi il frammento di canzone Il proclama di Rimini (1815), l’ode Marzo 1821, pubblicata nel 1848, e il Cinque Maggio (1821).
Opere drammatiche: Il conte di Carmagnola (1820) e l’Adelchi (1822).
Tra le opere storiche, linguistiche, apologeti che spiccano il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822), il Saggio comparativo fra la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859; la Lettera a G. Carena sulla lingua italiana (1850); la relazione Dell’unità della lingua italiana e dei mezzi di diffonderla (1868); la lettera Intorno al libro De vulgari eloquio di Dante; le Osservazioni sulla morale cattolica (1819).
Ma la grandezza del Manzoni si lega soprattutto al suo capolavoro narrativo, I promessi sposi (1823, 1827,1841), dove una trama semplicissima permette allo scrittore di presentarci un vasto quadro di vita secentesca italiane.
Il suo romanzo storico, il primo ed il migliore di una serie che ebbe fortuna in Italia, lo innalzò a massimo scrittore del secolo XIX e a creatore della prosa moderna, limpida, svelta in sostituzione del linguaggio accademico. Fedele alla verità, su personaggi e fatti storici (il cardinale Federico Borromeo, la dominazione spagnola in Italia, la carestia, la calata dei Lanzichenecchi, la sommossa di Milano, la peste) innestò figure di sua invenzione, trascurando però la nota romanzesca, caratteristica prima dei lavori di Walter Scott al quale si era ispirato.
Ma il Manzoni è grande, oltre che per la felice vivacità  di alcune figure che basterebbero da sole a fare grande uno scrittore (don Abbondio, Perpetua, Azzeccagarbugli), soprattutto per l’umanità della sua visione d’insieme. Egli, fu il primo a vedere nel romanzo storico la realtà dell’uomo e a sentirvi il dramma che è nella creatura umana. E in questo dramma scorse una consolazione e una salvezza: la provvidenza divina, che segue sempre le vicende dell’uomo e le illumina quando sembra che stiano per cadere nella notte.

I PROMESSI SPOSI

La sera del 7 novembre 1628, don Abbondio, curato di un paesino sul lago di Lecco (quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno…) torna tranquillamente a casa leggendo il breviario quando è fermato da due “bravi ” di don Rodrigo che l’aspettano al bivio di una stradicciola per imporgli di non celebrare l’indomani il matrimonio fra Lucia Mondella e Renzo Tramaglino. II poveretto, sorpreso, confuso e terrorizzato, ritorna come può alla sua casetta dove, circuito dalla curiosità della governante, Perpetua, che tenta di carpirgli il segreto del suo turbamento, e teso alla ricerca di un pretesto per rimandar le nozze già da tempo stabilite, trascorre una notte inquieta.
Renzo, la mattina seguente, vestito a festa, gli si presenta per prendere gli ultimi accordi sull’ora della cerimonia. Il giovane, allontanato con pretesti dal parroco che nel timore di incorrere nell’ira di don Rodrigo non vuole unirlo in matrimonio con la promessa, si reca alla casa di questa, pronta ed abbigliata secondo il costume del luogo: qui Lucia gli rivela la capricciosa passione di don Rodrigo per lei. Agnese, la madre della fanciulla, consiglia Renzo di consultare il dottor Azzeccagarbugli che poi, quando sente pronunciare il nome del riverito e temuto don Rodrigo, congeda bruscamente il povero giovane restituendogli anche i capponi che l’esperta Agnese gli aveva consegnato per il dottore. I poveretti ricorrono all’aiuto di padre Cristoforo del convento di Pescarenico che coraggiosamente si reca da don Rodrigo a chiedergli ragione del suo atteggiamento: ma il drammatico e tempestoso colloquio non approda a nulla. Allora, una sera, per consiglio di Agnese, i giovani tentano di sposarsi clandestinamente davanti al riluttante don Abbondio: ma il tentativo fallisce per l’impacciata timidezza di Lucia cui il curato impedisce di pronunciare la formula, mettendo poi a soqquadro il paese urlando e strepitando: il sagrestano, senza sapere cos’è successo, suona le campane a martello che fanno fuggire anche i bravi mandati da don Rodrigo a rapire Lucia.
.
Fra Cristoforo inveisce contro don Rodrigo
.
Agnese, Renzo e Lucia si rifugiano nel convento di Pescarenico dove frate Cristoforo li consiglia di partire per Monza: Gertrude, la “monaca di Monza ” figlia del potente principe di Leyva ed entrata in convento per forza, prenderà Lucia sotto la sua protezione. Renzo, invece, salutate le donne, si dirige verso Milano: cena in un’osteria, beve un po’ troppo e la mattina, al risveglio, trova vicino al suo letto un notaio con gli sbirri chiamati tempestivamente dall’oste che l’ha denunciato alla Polizia. Renzo comincia a seguirli docilmente, ma per via, approfittando dell’eccitazione che regna in città, sfugge alle guardie e si reca a Bergamo dove è fraternamente accolto dal cugino Bortolo che gli offre anche lavoro nella sua filanda. Don Rodrigo ha capito quanto i poveretti stiano a cuore a frate Cristoforo, e sospetta il buon padre di aver contribuito a far fallire il rapimento di Lucia: per mezzo del cugino Attilio riesce a metterlo in cattiva luce presso il conte zio, personaggio influente alla corte di Madrid, che molto diplomaticamente convince il superiore dei Cappuccini a trasferire Cristoforo da Pescarenico a Rimini. Don Rodrigo, però, che ha fatto la puntigliosa scommessa col conte Attilio – Lucia dovrà essere nel suo palazzo per San Martino, l’11 novembre – ricorre ad un potente amico, l’Innominato, per rapire Lucia dal convento di Monza. Quando la monaca con un pretesto fa uscire di casa Lucia, i bravi dell’Innominato la mettono a forza nella carrozza e la portano al castello del loro signore dove è affidata ad una vecchia megera.
L’Innominato che ha voluto vedere Lucia ed è stato toccato dal suo aspetto desolato e da alcune parole rivoltegli dalla poverina – ella, nel frattempo, spaurita e tremante, fa voto di rinunciare a Renzo se sarà liberata – durante la notte insonne è assalito da tormentosi pensieri che fanno vacillare la sua antica baldanza e lo spingono il mattino seguente, mentre le campane suonano a distesa in onore del cardinale Federico Borromeo in visita pastorale, a scendere dal castello ed a chiedere un colloquio con lui per riceverne una parola buona. L’incontro fra i due personaggi, dignitoso e cordiale e vivido di fraterna comprensiva carità da parte del prelato che sa trovare le espressioni adatte per acquietare il tormento dell’Innominato, si conclude con la conversione del signore che promette di liberare subito Lucia. Proprio don Abbondio che conosce la tremenda fama di lui deve accompagnarlo al minaccioso castello per incontrare la sua parrocchiana. Don Rodrigo, deluso per il secondo fallito tentativo e timoroso dello scherno del paese, parte per Milano: Agnese e Lucia si ritrovano nella casa di donna Prassede, moglie di don Ferrante.
Intanto la calata dei Lanzichenecchi, la carestia, la peste sconvolgono la Lombardia ed Agnese, Perpetua, don Abbondio, in fuga davanti alle schiere delle soldatesche che attraversano il territorio di Lecco, trovano rifugio e generosa accoglienza nel castello dell’Innominato che ha mutato vita ed ha preparato la sua sicura dimora per ospitare i profughi. Passato il pericolo, i tre ritornano al paese che trovano devastato e saccheggiato. La peste portata dalle milizie infuria a Milano dove miete numerose vittime: anche don Rodrigo è colpito dal male e muore al Lazzaretto assistito da padre Cristoforo che esorta Renzo, venuto a Milano a cercare Lucia, a perdonargli. Renzo è giunto al Lazzaretto sul carro dei monatti fortunatamente incontrato quando era inseguito dalla folla inferocita che, vistolo battere alla porta della casa di don Ferrante per avere notizie di Lucia, l’aveva scambiato per un “untore”, un diffusore di peste: vi trova Lucia e padre Cristoforo che poco prima di morire di peste la scioglie dal voto formulato quand’era prigioniera dell’Innominato.
Cessata la pestilenza che ha portato via anche Perpetua, i due promessi, finalmente sposati da don Abbondio, abbandonano il loro paesino per andare a vivere la loro nuova vita nel bergamasco.
.