ANTONIO LABRIOLA – Filosofo marxista

Antonio Labriola
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Antonio Labriola nacque a Cassino il 2 luglio 1843 da una famiglia di piccola borghesia meridionale. Compiuti gli studi inferiori nella scuola dell’abbazia di Montecassino, egli frequentò l’Università di Napoli dove ebbe tra i suoi maestri Bertrando Spaventa.
Ben presto però, appena terminati gli studi, egli dovette fare l’amara esperienza della caccia all’impiego riservata a ogni laureato in una società, quale era ed è quella dell’Italia meridionale, in cui la disoccupazione intellettuale era un fenomeno cronico.
Nel 1865 egli riuscì a ottenere un posto nell’insegnamento secondario, ma in precedenza aveva dovuto per sbarcare il lunario fare l’applicato di pubblica sicurezza e l’impiegato di prefettura. Ma non è da questa umiliante esperienza giovanile che nacque la vocazione rivoluzionaria del Labriola ed egli non fu mai uno di quei disoccupati intellettuali che passano le proprie giornate al caffè e attorno al tavolo del biliardo di cui aveva discorso Engels in una pagina in cui rievocava l’atmosfera delle sezioni italiane della Prima Internazionale.

AI movimento operaio e al socialismo egli giunse più tardi e in età matura, per vie assai diverse e più complesse di quelle dei facili entusiasmi giovanili. Per ora infatti egli attendeva a studiare e a far carriera, e riuscì brillantemente in entrambe le cose.
Dopo aver pubblicato nel 1866 un lavoro sull‘Etica di Spinoza, cui seguirono nel 1870 uno studio su Socrate e nel 1871 gli scritti Della Libertà morale e Morale e religione, egli riuscì vincitore a soli 30 anni del concorso per la cattedra di filosofia morale e di pedagogia bandito dall’Università di Roma.

Egli era, come si suol dire, un uomo arrivato e gli uomini arrivati, si sa, sono spesso uomini d’ordine. E tale, in un certo senso, potrebbe apparire a un osservatole superficiale anche il nostro Labriola: le sue amicizie e le sue frequentazioni gravitavano prevalentemente in un ambiente politico e intellettuale che possiamo definire di destra, anzi, con maggiore precisione, di “destra storica”; i giornali per cui egli collaborò come corrispondente politico – La Nazione di Firenze e Il Monitore di Bologna – per i quali scrisse rispettivamente delle corrispondenze sulle amministrative napoletane del 1872 e su quelle politiche del 1874, erano entrambi governativi.

Bertrando Spaventa  (Bomba, 26 giugno 1817 – Napoli, 20 settembre 1883)  
Eppure questo giovane professore universitario avrebbe quindici anni dopo solidarizzato con i disoccupati dell’edilizia romana e lavorato a preparare le prime manifestazioni del Primo maggio tenutesi in Italia, avrebbe parlato in comizi agli operai, sarebbe stato  fischiato dai suoi studenti e si sarebbe trovato coinvolto in processi a carattere politico. La cosa è piuttosto sorprendente, se non altro perché costituisce una smentita dell’affermazione, che in Italia ha forse più valore che altrove, che chi è rivoluzionario a venti anni a quaranta è moderato o conservatore.
Ma forse sarebbe più esatto dire che quella del Labriola è l’eccezione che conferma la regola. Comunque non ci resta che di prendere atto di questa evoluzione e di cercare di spiegarla. Non si tratta però di una spiegazione facile e piana. La via del Labriola verso il socialismo fu estremamente complessa e accidentata.
Occorre naturalmente tener conto in primo luogo del suo processo di formazione e di affinamento intellettuale, partendo dalla considerazione della influenza durevole e determinante che su di lui esercitò il suo maestro Bertrando Spaventa. Questi era stato un autentico rinnovatore della cultura italiana e un degno esponente di quella generazione che, avendo ottenuto in sorte di collaborare e di assistere al compimento dell’unità italiana, era fermamente convinta che ad essa dovesse corrispondere un profondo rinnovamento della cultura e della vita morale e civile della nazione. Per questo occorreva innanzitutto a loro giudizio rompere le barriere del provincialismo in cui la vita intellettuale italiana era stata segregata a lungo e del quale l’eclettismo filosofico dei Gioberti e dei Mamiani allora trionfante era l’ultima espressione, e tornare invece ad inserirla nel grande circuito della cultura europea.
Il frutto più alto e il punto di approdo del pensiero moderno europeo era per Bertrando Spaventa la filosofia di Hegel, ma il suo, a differenza di quello del suo collega Augusto Vera, era un hegelismo aperto, non cristallizzato in un sistema. Da Hegel egli aveva imparato soprattutto il senso della contradditorietà del reale ed era perciò vaccinato contro la tendenza, dello stesso Hegel e, soprattutto, dei suoi epigoni, a ridurre la complessa e complicata storia dello sviluppo della società  umana a quella quintessenza e rarefazione della medesima che è la storia dello Spirito assoluto o dell’Idea.

Di qui la sua inclinazione a innestare sul tronco e sul nucleo dell’idealismo dialettico hegeliano esperienze filosofiche e intellettuali diverse e successive, quali la psicologia comparata dei popoli di Herbart e, in una certa misura, anche le teorie di Darwin, senza peraltro mai cadere nello scientismo e nella falsa concretezza della filosofia positivista.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel
(Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831)  
Analogo a quello di Bertrando Spaventa, suo maestro, è in questi anni l’iter intellettuale di Antonio Labriola: anch’egli prese le mosse dalla filosofia hegeliana (il suo primo scritto è una difesa di Hegel contro l’idea di un ritorno a Kant propugnata dallo storico della filosofia Edoardo Zeller per avvicinarsi quindi a Herbart, al quale si ispira dichiaratamente nel saggio Della Libertà morale. Ma nella sua ricerca intesa a “superare” Hegel, nel senso in cui “superare” significa innanzitutto comprendere e verificare, Antonio Labriola andò più avanti del suo maestro: dopo  Herbart, dopo Feuerbach egli approdò a Karl Marx, un Marx interpretato come il più fedele e il più infedele ma gli scolari di Hegel, il più fedele perché il più infedele.
Ma a spiegare il cammino del Labriola verso il socialismo e verso il materialismo storico non basta la considerazione delle sue esperienze e dei suoi successivi orientamenti intellettuali, non basta la storia del suo pensiero, ma occorre anche tener conto dei tempi in cui egli si trovò a vivere e a pensare.
Gli anni compresi ma il 1874 e il 1890 costituiscono infatti un periodo decisivo nella storia dell’Italia moderna.
Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour 
(Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861)
Nel 1874 la Desta storica, il partito di Cavour e degli uomini che gli erano stati vicini, veniva sbalzato, dopo 15 anni di vita unitaria, dal potere e al suo posto si insediavano gli uomini nuovi della Sinistra. Il loro avvento al potere significò certo un rinnovamento in senso democratico delle strutture politiche del paese (nel 1882 entrò in vigore una riforma elettorale in base alla quale il numero degli elettori da meno di mezzo milione venne portato a più di due milioni) e un impulso dato allo sviluppo economico del paese: è infatti in questo periodo che gli storici dell’economia situano il primo “decollo” dell’economia italiana verso I’industrializzazione.
Ma la Sinistra era d’altra parte una forza politica assai eterogenea, intessuta di risentimenti regionalistici e municipalistici, nella quale erano confluiti, accanto a uomini e a forze sociali orientate nel senso del “progresso”, anche dei nostalgici dell’Ancien régime.
Di qui la sua agitata vita parlamentare, di qui la continua manipolazione e rimanipolazione delle maggioranze (trasformismo), di qui la dilagante corruzione, tipica di un governo di uomini nuovi e di parvenus.
Gli anni ’80 furono quelli dei colossali sventramenti dei centri storici delle città italiane e delle folli speculazioni edilizie, della nascita di una siderurgia che viveva delle commesse statali e del protezionismo doganale, della finanza allegra e del denaro facile.
Il positivismo, che trionfava allora nelle riviste e nelle Università, era in qualche modo il riflesso di questa euforia e di questa euforica fiducia nel “progresso”.
Ma, come è ben noto, nessuno più dei parvenus e dei giacobini ravveduti ha paura della rivoluzione e dei movimenti rivoluzionari.

Quando per effetto della grave crisi agraria che toccò in Italia il suo apogeo appunto in quegli anni, i contadini di Mantova si sollevarono e quando dai primi nuclei operai dell’Italia settentrionale si formò il Partito Operaio italianoAgostino Depretis, il grande regista della vita parlamentare e del “trasformismo” italiano, ricorse subito alla maniera forte e decretò incriminazioni e scioglimenti.

Francesco Crispi (Ribera, 4 ottobre 1818 – Napoli, 12 agosto 1901)
Il suo successore, Francesco Crispi, nutriva poi nei confronti di tutto ciò che era (o sembrava) rivoluzionario un’autentica idiosincrasia, cui si accompagnava naturalmente una chiara propensione a forme di governo autoritarie. Si ebbe così a partire dalla sua ascesa al potere (1837) un vero e proprio rigurgito conservatore e reazionario: al nuovo corso di politica estera inaugurato con la Triplice Alleanza e con le prime avventure coloniali corrispose sul piano interno un’involuzione e una restaurazione caratterizzate da una progressiva esautorazione del Parlamento e da una sempre più accentuata intrusione della monarchia nella vita pubblica.
Né mancò, per completare il quadro, un tentativo, peraltro fallito, di conciliazione con la Chiesa, contro il quale il Labriola elevò la sua protesta. Ma questa non fu che la manifestazione più appariscente di un più profondo e più radicale senso di disagio che egli era venuto maturando negli ultimi anni di fronte all’andamento e alla piega presi dalle cose italiane.
Cresciuto alla scuola di maestri che avevano condiviso gli entusiasmi e il rigore morale della élite che eta stata protagonista del Risorgimento, il Labriola ne aveva ereditato il concetto dello Stato come strumento di una missione pedagogica e “etica” e della vita politica come servizio. Ora egli assisteva a un generale scadimento del tono della vita pubblica italiana, all’avvento dell’affarismo è del trasformismo: la sua reazione non poteva essere che quella della delusione e dell’amarezza.
“Questo paese – così troviamo scritto nel primo dei saggi del Labriola – dato che ebbe già in su la fine del Medioevo l’avviata all’epoca capitalistica, uscì per secoli dalla circolazione della storia… Rientrò in parte nella storia ai tempi della dominazione napoleonica. Risorta ad unità e diventata stato moderno, dopo l’epoca della reazione e delle cospirazioni, e nei modi e per le vicende che tutti sanno, l’Italia si è trovata ad avere di recente tutti gli inconveniente del parlamentarismo, e del militarismo, e della finanza di novello stile non avendo però in pari tempo la forma piena della produzione moderna, e la conseguente capacità della concorrenza a condizioni uguali… Una stato moderno in una società quasi esclusivamente agricola, e in gran parte di vecchia agricoltura – ciò crea un sentimento di universale disagio, ciò dà la generale coscienza dell’incongruenza di tutto e di ogni cosa! Di qui la incoerenza e la inconsistenza dei partiti, di qui le facili oscillazioni dalla demagogia alla dittatura, di qui la folla, la turba, l’infinita schiera dei parassiti della politica, e poi dei progettisti, dei fantastici e degli “inventori di idee”.
Friedrich Engels (Barmen, 28 novembre 1820 – Londra, 5 agosto 1895) 
Ma il Labriola non era uomo da appagarsi dell’atteggiamento blasé di colui che deplora la corruzione dei tempi; e nulla era più estraneo al suo spirito che la nostalgia del passatista. Egli non tardò perciò a comprendere che, come l’hegelismo ortodosso in filosofia, così la tensione e lo stile della vecchia élite risorgimentale e della Destra storica erano definitivamente tramontati.
Perché allora non guardare avanti? Perché non interessarsi di quei movimenti di operai e contadini, che incutevano terrore ai nuovi parvenus, alle loro organizzazioni, alle loro idee?
E così anche per questa strada il Labriola si trovava spinto verso il socialismo: la lezione dei libri e quella dei fatti si intrecciavano al punto di non poter distinguere l’influenza dell’una da quella dell’altra.
Ne troviamo conferma nella prima lettera che, nell’aprile 1890, egli indirizzò a Friedrich Engels e nella quale, con la timidezza di un allievo, egli sentiva il bisogno di presentare all’egregio signore e compagno che era stato il più diretto collaboratore e il più caro amico di Marx un riepilogo della sua biografia intellettuale e politica:
“Nella mia gioventù ho assistito al rifiorire napoletano dell’hegelismo. Per molto restai indeciso tra la glottologia e la filosofia. Quando venni a Roma come professore, ero un socialista incosciente e un avversario dichiarato dell’individualismo unicamente per motivi astratti. Studiai poi il diritto pubblico, il diritto amministrativo e l’economia politica e, fra il 1879 e il 1880, mi ero quasi completamente convertito alla concezione socialista, ma più per la concezione generale della storia, che per impulso interno di una fattiva convinzione. Un avvicinamento lento e continuo ai problemi reali della vita, il disgusto per la corruzione politica, le relazioni con gli operai hanno poi a poco a poco trasformato il socialista scientifico in astratto in un vero socialdemocratico”.
Vi è qualcosa di patetico nella figura di questo professore quarantenne, il quale, conservando un sussiego che non cesserà di essergli rimproverato da parte dei suoi compagni di partito, si mischia alle lotte degli operai, organizza conferenze e riunioni, va a spiegare agli operai delle acciaierie di Terni che cosa sia il socialismo. Più volte da parte dei suoi numerosissimi corrispondenti e dei suoi lettori e compagni di partito gli capiterà di essere scambiato per un giovane alle prime armi, e gli toccava allora di spiegare che no, che egli era un maturo professore, che aveva scritto di Spinoza e di Socrate e che era approdato al socialismo nell’età in cui molti se ne distaccano. Vi è certo in tutto questo del patetico, ma vi è anche un eroismo intellettuale assai raro in un paese e in un’età in cui il dilettantismo e il gusto delle facili avventure intellettuali si sprecavano.
Baruch Benedetto Spinoza 
(Amsterdam, 24 novembre 1632 – L’Aia, 21 febbraio 1677) 
Ma che cosa significava, alla data del 1890, essere “un vero socialdemocratico”?
Tali erano quei militanti della Socialdemocrazia tedesca, “questa nuova, grande e promettente guida dei popoli”, che si battevano proprio in quel torno di tempo contro le ultime resistenze ad abrogare le famigerate leggi eccezionali di Bismarck e che coglievano i loro primi significativi successi elettorali.
In Italia il movimento operaio e socialista era ben lontano dall’aver raggiunto la compattezza organizzativa e la saldezza ideologica del glorioso partito di Bebel e di Liebknecht. Occorreva perciò imparare dai tedeschi, mettersi alla scuola del socialismo tedesco e internazionale, liquidare gli ingombranti residui di anarchismo, di individualismo piccolo borghese, di dilettantismo che ancora largamente caratterizzavano il mondo socialistico italiano; la sprovincializzazione del movimento operaio della penisola, il suo adeguamento al livello e alla serietà raggiunta dal proletariato dei paesi più evoluti costituiva dunque a giudizio del Labriola il compito più urgente, ed è alla luce di questa sua ferma convinzione e di questa prospettiva che va esaminata l’intensa attività politica e militante che egli svolse negli anni tra il 1890 e il 1895.
Non per nulla uno dei suoi primi e più importanti scritti politici di questo periodo è un saluto ai socialdemocratici tedeschi riuniti nel 1890 a congresso in Halle.
La prima grossa esperienza di militante del Labriola, quella che egli fece partecipando attivamente all’organizzazione e alla direzione delle agitazioni dei disoccupati dell’edilizia romana che culminarono nei tumulti e nelle manifestazione del 1° maggio 1891, lo confermarono nell’opinione che vi era ancora molto lavoro da fare per sottrarre la classe operaia italiana alle suggestioni demagogiche e per metterla in condizioni da esprimere da se stessa una coscienza e un indirizzo autenticamente proletari. Forse un punto di appoggio poteva esser trovato in quei consistenti nuclei operai che, costretti all’emigrazione, riportavano al loro rientro in patria una coscienza sindacale e politica maturata al contatto con le organizzazioni e con le lotte dei loro compagni stranieri.
Ed ecco il Labriola avviare un sistematico lavoro in questo senso, mantenendo contatti in Austria, in Francia e in Svizzera con elementi socialisti locali e cercando di svolgere un lavoro di organizzazione tra gli emigrati italiani. Si trattava comunque di un’opera di lunga lena e il Labriola divenne ben presto noto nell’ambiente socialista italiano per i suoi inviti alla prudenza e per le sue continue sollecitazioni a mettersi alla scuola della Socialdemocrazia tedesca e del suo solido buon senso proletario, per la sua avversione ai facili entusiasmi e alle improvvisazioni.
Filippo Turati (Canzo, 26 novembre 1857 – Parigi, 29 marzo 1932) 

L’Italia era stata troppo a lungo il paese di Pulcinella e dell’intrigo politico sterile: il proletariato, con il suo cervello quadrato, poteva essere l’occasione storica e lo strumento per cui essa si avviasse finalmente a essere un paese serio. Furono considerazioni e atteggiamenti mentali di questo tipo che lo indussero a esprimere un atteggiamento sostanzialmente negativo nei confronti di quel congresso di Genova dell’agosto 1892 che è passato alla storia come la Costituente del movimento socialista italiano.

Scrivendo a Engels il 2 settembre 1892, egli esponeva i motivi per cui non aveva ritenuto di dover partecipare al congresso e elencava le ragioni che lo avevano opposto a Filippo Turati, il leader del socialismo milanese e lombardo, concludendo con l’affermazione che quello di Genova era stato “un pasticcio all’italiana, con le solite commediole e burlette, e con una buona dose di malafede”.
Il nuovo partito che si era allora fondato rimaneva a suo giudizio un amalgama di forze diverse ed eterogenee, di anarchici, di mazziniani, di operaisti, ed egli si mostrava perciò molto scettico sulle sue possibilità di sviluppo.
“L’eclettismo – scriveva in un’altra sua lettera a Engels – non sparirà così presto. Non è soltanto l’effetto di una confusione intellettuale, ma l’espansione di una situazione. Quando pochi, più o meno socialisti, si rivolgono a un proletariato ignorante, impolitico, e in buona parte reazionario, è quasi inevitabile che ragionino da utopisti e operino da demagoghi”.

Peraltro egli conveniva con Engels che il Congresso di Genova poteva considerarsi un primo chiarimento e un inizio e, da buon militante quale egli si era proposto di essere, il Labriola non risparmiò gli sforzi per aiutare i difficili primi passi del nuovo partito socialista, pur conservando sempre un certo distacco e un certo atteggiamento da mentore che gli alieneranno molte simpatie.

 Eduard Bernstein (Berlino, 6 gennaio 1850 – Berlino, 18 dicembre 1932)
Gli anni 1893 e 1894 furono per lui, dal punto di vista dell’attività strettamente politica, i più intensi. Una parte importante egli ebbe sin dagli inizi del 1893 nella campagna contro lo scandalo della Banca romana (una sorta di versione italiana dell’affaire del canale di Panama), campagna della quale egli fu anzi uno dei principali orchestratori e registi.
Nell’agosto del 1891 egli partecipò al III Congresso dell’Internazionale socialista a Zurigo ed ebbe così modo di incontrare finalmente, dopo tre anni di affettuoso e assiduo carteggio, Friedrich  Engels e di allargare la sua già estesa rete di corrispondenti e di informatori attraverso tutto il mondo socialista europeo. Oltre ch econ KautskyBernsteinSorel, e gli  mantenne contatti epistolari con gli austriaci Viktor Adler e W. Ellenbogen, con i francesi Guesde e Lafargue, con il russo Plechanov e con il polacco Jedrzjowskj.
Tornato in Italia, egli vi trovò un’opinione pubblica profondamente turbata, sino all’esasperazione, per l’eccidio di lavoratori italiani ad opera di loro compagni francesi consumato ad Aigues Mortes. Un siffatto episodio sembrava fatto apposta per smentire le recenti e sonanti affermazioni internazionalistiche del Congresso di Zurigo e il Labriola fu uno tra i pochi socialisti italiani che avvertì la necessità di una presa di posizione da parte socialista. Egli fu infatti l’estensore di un manifesto diramato dal circolo socialista di Napoli in cui si cercava di far comprendere come la più giusta risposta all’eccidio di Aigues Mortes non fosse quella dello sciovinismo antifrancese, interessatamente alimentato dal governo Crispi, ma piuttosto quella del consolidamento dei legami internazionali tra i proletari di tutti i paesi.
Poco dopo scoppiava in Sicilia il movimento dei Fasci dei lavoratori e per il Labriola ciò costituì una nuova occasione per dar prova della sua dedizione alla causa che egli aveva abbracciata.
Per la verità di fronte alle prime manifestazioni di questa agitazione la sua reazione eta stata piuttosto scettica.
“Secondo me – aveva scritto a Engels nel luglio 1893 – non accadrà nulla salvo qualche furto campestre e qualche uccisione di carabiniere. Quei Fasci sono lavori di fantasia, ci son dentro studenti, avvocati, appaltatori falliti, giovanotti allegri”.
Ma di fronte allo sviluppo travolgente e imprevisto degli eventi, con l’onestà intellettuale che gli era propria, egli non tardò a rettificare il suo giudizio sino a capovolgerlo.
“Questo dei Fasci – troviamo scritto in una lettera a Engels del 5 novembre 1894 – è il secondo gran movimento di massa dopo quello di Roma del 1888-1891 e certo con più fondamento di cause permanenti”.
Più tardi nel suo saggio In memoria del Manifesto dei Comunisti egli si spingerà fino a definire il movimento dei Fasci siciliani come “il primo segno di vita che il proletariato organizzato abbia dato di sé”.
Forte di questa convinzione egli si adoperò con ogni energia, scrivendo corrispondenze per la stampa socialista straniera (e in particolare per la Leipziger Volkszeitung) e sollecitando i suoi amici all’estero a fare altrettanto, in favore del movimento dei lavoratori e dei contadini siciliani.
Ma i fasci siciliani dovettero ben presto chinare la testa di fronte al ritorno della reazione scatenata da Francesco Crispi, da poco ritornato al governo. Il Labriola risentì duramente e profondamente il peso di questa sconfitta.
“Tutto quel che c’era di movimento proletario, popolare, democratico, socialistico – in questi termini egli si esprimeva scrivendo sempre a Engels – è stato battuto separatamente, alla spicciolata, in dettaglio”.
La sconforto che gliene derivò valse a peggiorare d’altra parte i suoi già tesi rapporti con i dirigenti del partito socialista italiano e, in particolare, con Filippo Turati e con il gruppo milanese che faceva capo all’autorevole rivista La critica sociale. Soprattutto lo amareggiava l’isolamento dal quale si sentiva circondato non soltanto da parte dei suoi compagni italiani di partito, ma anche da parte dei suoi corrispondenti tedeschi. Questi ultimi sembravano tenere scarso conto delle numerosissime lettere con cui egli letteralmente li bombardava cercando di metterli al corrente della situazione italiana e mostravano invece di dar piuttosto credito alle insistenti voci che circolavano nel milieu socialista internazionale e che lo dipingevano come una “cattiva lingua”.
Isolamento per isolamento, non gli rimaneva che di tornare a dedicarsi ai suoi studi, con la differenza però che questa volta oggetto della ricerca e della sua meditazione non sarebbero stati più Socrate e Spinoza, ma Marx ed Engels. Ed è quanto egli fece diradando prima e cessando del tutto poi le sue collaborazioni giornalistiche (la sua ultima corrispondenza sulla Leipziger Volkszeitung è del 7 maggio 1895) e ritirandosi dalla partecipazione diretta e attiva alla vita politica.

La morte di Engels, sopravvenuta nell’agosto del 1895, dovette senza dubbio contribuire a confermarlo in questa decisione. Ma già a quella data egli aveva scritto il primo dei suoi saggi, quello in memoria del Manifesto dei Comunisti e si apprestava a scrivere il secondo.

Georges Eugène Sorel 
(Cherbourg, 2 novembre 1847 – Boulogne-sur-Seine, 29 agosto 1922)
Due anni dopo, nel 1897 , sarebbe stata la volta delle lettere a Sorel pubblicate sotto il titolo Discorrendo di socialismo e di filosofia che costituiscono il terzo dei saggi da lui dedicati alla illustrazione critica e alla discussione del materialismo storico.
Nasceva così nel giro di due anni e come frutto di una meditazione intensa e concentrata quel corpus di scritti per il quale il Labriola si è a buon diritto guadagnato un posto di rilievo nella storia del pensiero socialista europeo dell’età della Seconda Internazionale.
Nell’impossibilità, per cause di spazio, di esaminare partitamente ciascuno dei tre saggi, mi limiterò qui a trattarne cumulativamente cercando di attirare l’attenzione di chi mi legge sui punti di maggiore originalità e di maggiore interesse.
Una coincidenza merita anzitutto di essere segnalata: la pubblicazione dei saggi del Labriola è contemporanea a quella dei celebri articoli del Bernstein comparsi sulla Neue Zeit che costituirono la prima esca del grande dibattito sul revisionismo di fine secolo.
Non a caso questo è passato alla storia con il nome di Bernstein-Debatte. Non si tratta però soltanto di una mera coincidenza cronologica: esistono infatti tra gli scritti di Bernstein e quelli coevi del Labriola e tra le personalità dei loro rispettivi autori delle profonde affinità e corrispondenze.

Ce ne è testimonianza del resto una lettera del Labriola al Bernstein del 12 novembre 1898, una delle più importanti e illuminanti del suo ricco epistolario. In essa egli manifestava al suo corrispondente la propria solidarietà contro gli attacchi rivoltigli sulle colonne della Neue Zeit da Plechanov e contro le critiche di cui il Bernstein stesso era stato oggetto nel corso del recente congresso di Stoccarda della Socialdemocrazia tedesca. Oltre a questo, nella lettera in questione vi era da parte del Labriola l’ammissione, fatta evidentemente in risposta a un precedente rilievo del Bernstein, che nello scrivere i suoi saggi egli era stato mosso da un intento critico e che nulla gli era stato più estraneo dal fare un’opera di semplice popolarizzazione e esposizione delle dottrine marxiste, sul tipo di quelle del Deville e del Kautsky.

Karl Kautsky (Praga, 18 ottobre 1854 – Amsterdam, 17 ottobre 1938)

Abbiamo così una prima chiave per una corretta comprensione del pensiero del Labriola: questi, come Bernstein, si collocava in una posizione critica rispetto alla vulgata marxista corrente quale era stata formulata e fissata nel programma di Erfurt.

Non a caso nella lettera testé citata troviamo anche un giudizio estremamente limitativo su quel Kautsky che del programma di Erfurt era stato l’estensore e che passava per il massimo teorico della Seconda Internazionale.
Labriola si rammaricava di non aver potuto intessere con lui un autentico colloquio e una vera discussione e lo definiva, con la sua consueta malizia, un uomo “saldo, fedele e diligente” che aveva ormai raggiunto da tempo i limiti delle sue capacità intellettuali. Che la vulgata marxista, per così dire, “ufficiale” non dovesse incontrare le simpatie del Labriola non è cosa del resto che possa sorprendere quando si rifletta al fatto che essa era in gran parte fondata su di una contaminazione tra il pensiero di Marx nella sua autentica originalità e l’interpretazione che di esso aveva dato una generazione largamente imbevuta di idee e di tendenze positivistiche.
Sappiamo già infatti che il filosofo cassinate aveva ereditato dai suoi maestri neohegeliani una profonda avversione nei confronti del positivismo, che egli considerava una manifestazione di scarso nerbo e di scarsa serietà intellettuale, una “filosofia alla moda” tra salottiera e pretenziosa. Questa avversione costituì anzi una delle costanti e dei tratti salienti della sua personalità di pensatore.

Ma il fastidio verso le volgarizzazioni positivistiche del marxismo non era la sola ragione dell’atteggiamento critico del Labriola. Esso sgorgava anche dai fatti e dalla considerazione della realtà effettuale.

Karl  Heinrich Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883) 
Come egli aveva esplicitamente affermato in una sua lettera del marzo 1897, Labriola si era venuto convincendo che il socialismo fosse entrato in un periodo di “pausa” e che la stessa gloriosa Socialdemocrazia tedesca, dopo i recenti trionfi, segnasse ormai il passo e che fosse venuto perciò il tempo di verificare e di rivedere idee e programmi.
In un certo senso l’atteggiamento critico del Labriola era ancor più radicale di quello di Bernstein. Il materialismo storico (egli preferiva questo termine – e pour cause – a quello di marxismo) gli appariva infatti per sua stessa essenza un sistema aperto, continuamente rigenerato dal contatto vivificante con la realtà. Come tale la sua dottrina si identificava con il proprio svolgimento storico e non vi era affatto da meravigliarsi se nel corso di questo svolgimento le verità di ieri potevano a volte divenire gli errori di oggi; anzi proprio in questa continua suscettibilità di verifica e di rettifica, di inveramento e di superamento stava il nucleo più profondo dell’insegnamento di Marx e di Engels.
Questi ultimi, scrivendo il Manifesto, non avevano preteso di fornire né “il codice del socialismo”, né “il catechismo del comunismo”, né “il vademecum della rivoluzione proletaria”, ma si erano limitati a compiere una prima analisi della società capitalistica e a formulare una previsione di massima circa i suoi sviluppi indicando nel proletariato industriale il “soggetto” capace di sciogliere le contraddizioni della società capitalistica stessa.
La validità di queste enunciazioni non risiedeva nella loro conseguenza formale, ma nella loro fondatezza, concretezza e verificabilità storica, della quale a sua volta erano testimonianza e prova cinquant’anni di lotte e di vittorie del movimento operaio, dalla sconfitta del ’48 al glorioso fallimento della Comune sino alla entusiasmante resistenza della Socialdemocrazia tedesca contro le leggi eccezionali di Bismarck e al rigoglio dei partiti socialisti e dei sindacati operai neli’età della Seconda Internazionale.
Ma la storia, oltre che delle conferme, poteva arrecare e arrecava di fatto anche delle smentite, e il lavoro di verifica e di esperimentazione non conosceva soste. Nulla era più alieno dunque all’essenza e allo spirito autentico e rettamente compreso del materialismo storico che
la pretesa di trasformarlo in una sorta di enciclopedia, di sistema e di attribuirgli una specie di Allweisgheit, di onniscienza.
Questo era appunto quanto si erano sforzati di fare, con la loro forma mentis approssimativa e dilettantesca, i volgarizzatori di scuola positivista nel tentativo di congiungere e di sposare la teoria marxista della lotta delle classi con quella darwiniana dell’evoluzione e della lotta per l’esistenza e di disegnare così un grande piano della storia dell’umanità, dalla scimmia sino allo Zusammenbruch del capitalismo e al trionfo del socialismo.
Ma il Labriola, come sappiamo, non poteva certo condividere siffatti punti di vista e si comprende bene come nei suoi saggi egli non perda occasione per criticare senza risparmio di colpi i vari aspetti di questa riduzione del materialismo storico a una sorta di “darwinismo politico e sociale”. Lungi dall’essere “la visione intellettuale di un gran piano o disegno”, il marxismo era soltanto un “metodo di ricerca e di concezione”, un “filo conduttore di una scienza ed una pratica che solo I’esperienza e gli anni potevano e dovevano sviluppare”.
La dottrina del “materialismo storico” non era che “agli inizi suoi” e a chi la professava toccava spesso, di fronte all’insorgere di elementi nuovi, di dover ripetere con Marx: Je ne suis pas marxiste.
Ma se il marxismo – si poteva obiettare a questo punto con fondamento – non era che un “metodo”, allora era possibile essere marxisti anche mettendo in dubbio la validità dei contenuti e delle nozioni che erano ormai ritenuti definitivamente acquisiti, e si potevano anzi sostituire ad essi almi contenuti e altre nozioni.
Non era necessario, in altri termini, per essere materialisti storici accettare la teoria del valore e quella delle crisi cicliche e, al limite, ritenere che la società moderna “tendesse” al socialismo e battersi per promuovere questa sua evoluzione.
Se si poteva essere materialisti storici senza essere socialisti, si poteva inversamente essere socialisti senza professare il materialismo storico.
Erano queste le posizioni cui pervennero rispettivamente Eduard Bernstein e Benedetto Croce; mente il primo, pur seguitando a dirsi socialista e a militare nelle file della Socialdemocrazia tedesca, veniva sempre più orientando le sue simpatie filosofiche verso il neokantismo, il secondo, pur manifestando il suo interesse per il materialismo storico, abbandonò ben presto ogni giovanile proposito di milizia socialista.
Una interpretazione meramente metodologica e formale del marxismo rischiava così di rompere quell’unità di teoria e di pratica che ne era l’essenza stessa.
Il Labriola avvertì la possibilità di questa conseguenza e, a chi ben consideri, tutta la serrata e densa argomentazione dei suoi saggi si svolge entro questa alternativa e questo dilemma. Ed è proprio nell’averlo risolto e nell’aver confermato e rielaborato il concetto dell’unità tra teoria e pratica che sta l’originalità del suo pensiero e la ragione della sua modernità e attualità.
Il materialismo storico – è questo il concetto sul quale, come si è visto, egli insiste principalmente – non è una dottrina elaborata da qualche pensatore isolato, ma la coscienza che il proletariato ha maturato di sé e della sua funzione storica nel corso della sua lotta e del suo “lavoro”.
Non è qualcosa che sta prima del movimento operaio, ma qualcosa che si sviluppa e cresce con esso. Come tale esso non è e non può essere soltanto un metodo, un punto di partenza, ma anche l’esperienza e le acquisizioni concrete che quel metodo e quel punto di partenza hanno reso possibili. Esso non è un’enciclopedia, in quanto la sua verità e la  sua certezza arrivano soltanto fin là dove arriva l’esperienza storica del proletariato, la lunga e lenta “educazione del genere umano” che la parte più avanzata della società viene operando su se stessa nella sua lotta per cambiare il mondo; ma se esso non è tutta la scienza, esso è però quel tanto di scienza che l’esperienza storica del movimento operaio e socialista è riuscita ad accumulare e a verificare.
Si arriva così – e ciò è soprattutto evidente nel Discorrendo di socialismo e di filosofia – alla identificazione del materialismo storico con la filosofia della prassi, con la “filosofia immanente alle cose di cui filosofeggia”.
Si potrebbe dire addirittura che il Labriola interpreta in senso radicale la celebre glossa marxiana: non si può conoscere iI mondo se non si collabora a cambiarlo.
Con questo non si cade peraltro nel pragmatismo: la “prassi” non è l’azione indifferenziata e indiscriminatamente attivistica, è lavoro compiuto da un determinato “soggetto” storico – il proletariato e le sue organizzazioni economiche e politiche – in determinate condizioni, su una determinata base, con determinati obiettivi; il lavoro accumulato costituisce il fondamento del lavoro vivo, il passato si lega con il presente.

Nella storia concepita come storia del lavoro o come “educazione del genere umano” non si ricomincia mai da zero, ma al lavoro di una generazione succede quello di un’altra ai problemi risolti subentrano compiti nuovi.

Georgij Valentinovič Plechanov 
(Tambov, 11 dicembre 1856 – Zelenogorsk, 30 maggio 1918) 
Ma se il marxismo è “filosofia della prassi” e se, come aveva insegnato il vecchio Vico, il vero si converte con il fatto, anzi con il fare, allora ne consegue che non si può comprendere se non si lavora, e che non si può lavorare senza aver compreso e che non è pensabile un materialismo storico senza prospettiva socialista o un socialismo senza il fondamento del materialismo storico. L’ozio del letterato e il praticismo di chi si butta a capofitto nel lavoro sono entrambi atteggiamenti estranei al materialismo storico inteso come filosofia della prassi. Ed ecco Labriola da un lato polemizzare contro l’atteggiamento di spregiudicato ricercatore che il suo amico Croce aveva assunto nei confronti del marxismo, ed eccolo d’altra parte contestare a Kautsky il diritto di opporre la propria frustra operosità quotidiana alle speculazioni teoriche delle quali egli, il Labriola, si sarebbe invece dilettato.
I passi delle due lettere e le precisazioni che esse rispettivamente contengono meritano di essere citati estesamente.
Il loro confronto può aiutare il lettore che mi segue a comprendere il difficile equilibrio della filosofia della prassi tra impegno e scienza.
Così Labriola scriveva a Croce, il 31 dicembre 1898:

“Quando tu dici che circa la politica del proletariato né convieni, né disconvieni, tu dici, insomma, che passi sopra il 95 per cento delle condizioni che occorrono per interessarsi di questa benedetta crisi del marxismo. Io in ciò sono ferocemente socialista ed ultrapositivo. Se Marx fosse soltanto un professore (ciò sarebbe l’altro 5 per cento), io mi interesserei a lui quanto mi interesso della logica di Wundt ecc., ossia per ragioni professionali. E dal momento che tu di questo solo 5 per cento ti interessi (e sei anche padrone di dire che sia il 10 per cento o il 15 per cento, se non vuoi stare ai miei calcoli), così devi avere interesse, per proseguire nella tua occupazione pacifica di spregiudicato ricercatore, di non essere confuso con quelli per i quali il marxismo e l’antimarxismo sono simboli e bandiere”.

E a Kautsky, il 19 agosto 7897:

“Mi pare che tu hai torto a distinguere quelli che secondo te si trovano alla Tretmühle della pratica (come sarebbe secondo te il caso tuo) da quelli che si trovano nel campo teoretico, come sarei io. Per noi – mi pare – teoria e pratica sono una cosa sola. Si tratta sempre di sapere quel che convenga fare. Ora la situazione del mondo si è molto cambiata negli ultimi anni e si va ogni giorno più cambiando – ed al marxista tocca sempre a farsi questa domanda: A che ne siamo e Was nun?”.

Il concetto espresso in quest’ultima lettera è il medesimo che ritroviamo nel Discorrendo di socialismo e di filosofia, là dove si afferma che “nessuno può d’ora innanzi (dirsi) socialista se non a patto di domandarsi ogni istante: In questa data situazione che cosa conviene di pensare, di dire o di fare nell’interesse del proletariato?”.

La riduzione del marxismo a ” filosofia della prassi” costituisce dunque il punto di approdo della meditazione del Labriola e rimane ancor oggi la sua più alta e più duratura prestazione. Non a caso il termine e il concetto di ” filosofia della prassi” saranno ripresi da Antonio Gramsci e costituiranno uno dei tratti più originali della tradizione marxista italiana.
Non si può peraltro esimersi dal constatare che questo apporto originale del Labriola alla discussione sul marxismo in corso negli anni della fine del secolo XIX non trovò, al momento in cui venne enunciata, orecchi pronti ad accoglierla e non venne nemmeno interamente compreso.
Kautsky e Croce seguitarono le loro strade, rispettivamente quella di un marxismo aproblematico e astorico e quella di uno storicismo sempre più sganciato dai presupposti materialistici da cui era partito.
Ma anche Bernstein e Sorel, quelli a lui più congeniali tra i suoi corrispondenti e compagni di idee, riservarono al Labriola delle sgradite sorprese. La pubblicazione delle Veraussetzungens des Sozialismus costituì infatti per lui una amara delusione: in esse – come rileverà nella lettera aperta a Lagardelle che egli pubblicò nella Petite République del 15 aprile del 1899 – egli ravvisava quello stesso atteggiamento di chi si pone au dessus de la melée che egli aveva rinfacciato al suo amico Croce, atteggiamento tanto più grave e tanto più incomprensibile da parte di un militante del movimento socialista.
Bernstein si era fitto in capo di discuter a nouveau la théorie de la valeur, la dialectique, le materialisme historique, la lutte des classes, l’hypothése catastrophique, l’avenir du monde et la société future.
In luogo di porsi il concreto problema del Che fare? e del Was nun? egli aveva scritto un libro dottrinario e enciclopedico e, così facendo, aveva non solo dimostrato di non essersi liberato da una visione astratta del marxismo, ma aveva anche manifestato un’impazienza e un massimalismo intellettuali che erano esattamente il contrario della perseveranza e del senso del tempo e della difficoltà che erano richiesti a chi era impegnato in una grande opera di emancipazione collettiva. Pretendere di rimettere tutto in discussione e di ricominciare da zero significava non avere compreso che il marxismo, in quanto filosofia della prassi, era la resultante di una collettività e di una continuità di lavoro, significava non avere saputo porre all’unisono il tempo psicologico con il tempo delle cose.”Les proletaires seuls – concludeva il Labriola – peuvent compter sur le temps indéfiniLeur nombre seul s’augmente indéfiniment. Que le monde capitaliste se complique autant qu’iI voudra; il ne pourra pas ne pas les multiplier et les eduquer“.E a coloro che, incapaci di reggere il ritmo lento e logorante della giornata di lavoro proletaria e rivoluzionaria, si lasciavano prendere dall’impazienza e dallo scoraggiamento non rimaneva che da augurare buon viaggio o somministrare un buon cordiale. Tra costoro, oltre al Bernstein, vi era anche il Sorel, che pure era stato I’interlocutore del Discorrendo di socialismo e di filosofia.
Nel Post-scriptum all’edizione francese di questa opera, il Labriola teneva a dissociarsi dalle più recenti manifestazioni di pensiero del suo corrispondente e editore francese. Anche questi infatti a suo giudizio aveva passato il segno oltre il quale la critica diveniva demolizione.
A questo punto non possiamo però non cercare di comprendere le ragioni dell’isolamento e del fraintendimento di cui il Labriola fu vittima e che ha durato a lungo anche dopo la sua morte. Sarebbe naturalmente ingenuo attribuire questa incomprensione esclusivamente alla limitatezza mentale e ai pregiudizi dei suoi interlocutori, né il Labriola stesso potrebbe certo essere soddisfatto di una siffatta e semplicistica spiegazione.
Per il Labriola, come si è visto, la verità del materialismo storico si misurava essenzialmente nella sua capacità di dare delle risposte ragionate e persuasive ai molti Was nun? e ai molti Che lare? che la storia continuamente proponeva al movimento proletario e dalla soluzione dei quali dipendevano gli sviluppi e l’avvenire del movimento socialista stesso.
Ora ci si potrebbe legittimamente attendere che chi ragionava in questo modo fosse egli stesso in grado di fornire quelle risposte, ma non è questo per l’appunto il caso del nostro Labriola. O lo è solo in una parte piuttosto irrilevante.
Nei suoi scritti troviamo infatti, come si è detto, il riconoscimento che la realtà politica e sociale degli anni in cui egli scriveva era radicalmente mutata e complicata rispetto a quella dei tempi di Marx e di Engels e, anche, delle brillanti origini della Seconda Internazionale.
Ma in che senso e in che modi essa si eta mutata e complicata? E quali erano in concreto i problemi nuovi che si ponevano al movimento operaio e che questo era chiamato a risolvere?
Il Labriola era pienamente consapevole del fatto che senza l’individuazione di questi problemi e senza un loro adeguato approfondimento critico l’appello che, in nome della filosofia della prassi, egli aveva fatto al lavoro e alla concretezza rischiava di rimanere astratto e di non essere, come di fatto avvenne, né raccolto né compreso. Ciononostante egli non riuscì a tradurre egli stesso in pratica le esigenze che aveva avvertito e avanzato e il suo rimase, malgrado tutto, un discorso a mezz’aria.
In questo consiste il suo limite e in questo consiste soprattutto il dramma della sua vicenda intellettuale. In lui vi è la percezione netta che ogni nuova situazione impone compiti nuovi, vi è la consapevolezza che questi compiti hanno la possibilità di essere risolti solo se si tiene fermo al punto fondamentale dell’unità tra teoria e pratica e, quindi, della continuità storica e organizzativa del movimento socialista, ma in che cosa consista specificamente la novità della situazione e dei compiti che essa postula egli non riesce a vedere. Ed è in questo rovello tra l’avvertimento di una esigenza e la difficoltà di soddisfarla che va ricercata la ragione più profonda della sua amarezza e della sua solitudine.

Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) 
L’ultimo suo scritto di un certo respiro – il cosiddetto Quarto saggio – giunto a noi incompleto e pubblicato postumo da Benedetto Croce con il titolo Da un secolo all’altro, costituisce la testimonianza più chiara di questa sofferta e cosciente impotenza.
Il nucleo di questo scritto, certamente assai disperso e disequilibrato, è costituito – come risulta del resto dal titolo stesso – dal tentativo di tacciare un bilancio del secolo XIX fatto naturalmente (come avrebbe potuto altrimenti essere un bilancio?) dal punto di vista del secolo nascente con i suoi problemi nuovi.
La peculiarità del secolo XX rispetto al XIX consisteva soprattutto nel sovrapporsi e nel sostituirsi ai precedenti conflitti che avevano opposto le aristocrazie della Restaurazione alla borghesia e questa al proletariato di altri e più universali contrasti: tra “popoli attivi” e “popoli passivi”, tra città e campagna, tra ragione e fede.
Ma si trattava più di un’elencazione di sintomi e di cause che di una vera e propria analisi.
La stessa impressione la si ricava da una delle ultime lettere del Labriola, quella a Kautsky del 5 novembre 1900. In essa egli ribadiva la sua antica convinzione che il socialismo fosse entrato di recente in un “periodo di lunga pausa” e individuava i sintomi di questa stagnazione nel “permanere della Russia nello status quo, nel “russificarsi della Prussia”, nell’assesto della rivoluzione in Italia, e le cause nel “campo nuovo aperto al capitale dalla politica coloniale”, nella “relativa resistenza dell’artigianato e della piccola proprietà”, nella “ignoranza delle moltitudini e la obesità del partito socialista”.
Come si vede, si trattava anche in questo caso di una collezione di impressioni e di dati, senza un tentativo di approfondimento e di collegamento. Merita di essere segnalato soltanto quell’accenno al “campo nuovo aperto al capitale dalla politica coloniale”, al fenomeno cioè che più tardi sarà definito dell’imperialismo.
Va subito aggiunto però che il Labriola non arrivò mai a rendersi pienamente conto della sua rilevanza e centralità nel mondo moderno e che, per quanto concerne l’atteggiamento del movimento socialista nei confronti del colonialismo, egli non andò mai oltre il punto di vista, corrente negli ambienti e ma gli uomini della Seconda Internazionale, secondo il quale l’espansione coloniale delle grandi potenze, in quanto allargava i confini del mondo e della produzione capitalistica e annetteva all’esercito dei becchini della borghesia le grandi masse dei lavoratori proletarizzati dei paesi coloniali, rappresentava una fase storica necessaria che doveva essere consumata fino in fondo e, magari, aiutata e stimolata.
Ciò spiega come nel 1902 in un’intervista al Giornale d’Italia, nella quale Benedetto Croce ha voluto vedere il segno di un suo ravvedimento dai precedenti errori socialisti, egli abbia potuto dichiararsi favorevole all’espansione coloniale italiana verso la Tripolitania.
Ma a quella data il Labriola era ormai un uomo stanco e gravemente malato.
Nei 1901 aveva dovuto subire un primo intervento alla gola, in seguito al quale era stato costretto a sospendere quelle lezioni universitarie in cui aveva sempre profuso tanta parte della sua personalità e della sua passione.
Nel febbraio 1904 egli fu nuovamente internato nell’ospedale tedesco di Roma per subire una seconda e disperata operazione. Di qui egli indirizzò a Luisa Kautsky una lettera in cui si rammaricava che le sue condizioni di salute non gli consentissero di continuare a discutere ancora di “politica e di scienza”.
Il giorno dopo egli moriva sotto i ferri del chirurgo.

Antonio Labriola – Disegno pubblicato su L’asino in occasione della morte