I FRATELLI KARAMAZOV – Fedor Michajlovich Dostoevskij

I FRATELLI KARAMAZOV

Fedor Michajlovich Dostoevskij
I FRATELLI KARAMAZOV, affresco ampio e profondo della società russa e delle “profondità” della psiche umana, venne scritto da Fedor Michajlovich Dostoevskij (1821-1881) negli ultimi anni della sua vita: tra il 1879 e il 1880. Il grande scrittore non arrivò a questa opera imponente e complessa senza una lunga e tormentosa preparazione interiore. L’opera, anzi, avrebbe dovuto far parte di un più ampio affresco, intitolato VITA DI UN GRANDE PECCATORE, abbozzi e frammenti del quale erano entrati in romanzi precedenti quali I DEMONI (in particolare l’episodio allucinante della “confessione di Stavrogin”, il “demonio” che rappresentava, nella trasfigurazione poetica e drammatica, il “distruttore” Bakunin) e ne L’ADOLESCENTE, il poema dell’ossessione del denaro: ossessione che ritorna anche, fra i filoni tematici dominanti, nel KARAMAZOV e, in particolare, nelle figure di due esseri “maledetti”, il vecchio e bestiale padre, Fjodor Karamazov e il malvagio Smerdjakov.
Il romanzo è, senza dubbio, il più profondo dei romanzi di Dostoevskij; questa stessa complessità può essere tra le cause di certi difetti che sono stati riscontrati: per esempio la non perfetta fusione di “sottoromanzi” o “linee tematiche organizzate” di cui I FRATELLI KARAMAZOV è “composto2: il romanzo poliziesco (l’uccisione del vecchio Karamazov, l’istruttoria, il processo, la condanna di Dmitrij Karamazov per parricidio), il romanzo ideologico (l’ateismo di Ivan Karamazov, l’influenza spirituale di Ivan su Smerdjakov, la redenzione di Grusen’ka e di Dmitrij), il romanzo utopistico-religioso, e cioè il tema di padre Zosima e Aljosa, come risposta alla sfida atea di Ivan alla problematica dell’orrore sociale: a questo “romanzo nel romanzo” è collegato il “motivo dei bambini”, che è un altro romanzo, che non può essere considerato solo una “novella” laterale (il tema di Iljusa e dei suoi compagni di scuola). Il tema dei bambini è presente nell’opera dostoevskiana in molte opere precedenti, come in UMILIATI E OFFESI. Il tema dei bambini ne I FRATELLI KARAMAZOV – benché laterale rispetto al tema fabulistico centrale, la vicenda dei Karamazov – è però di fondamentale importanza perché porta la prospettiva profetica del romanzo, è strettamente collegato ad Aljosa: non per nulla l’opera si conclude proprio con il discorso armonico di Aljosa sulla pietra di Iljusa e sulla risposta corale dei ragazzi.

Recensione

Il romanzo, nella forma pervenutaci, non è concluso, se lo si considera in base alle intenzioni dello scrittore e anche secondo le regole del cosiddetto “romanzo ben fatto”, tipica manifestazione del romanzo ottocentesco. Difatti l’opera avrebbe dovuto continuare, perché il tema di Aljosa è solo iniziato: nulla sappiamo dell’evoluzione successiva del giovane, dopo la sua uscita dal convento. E così del destino futuro di Dmitrij e di Grusen’ka abbiamo solo delle indicazioni (la notizia che si prepara la loro fuga e il loro trasferimento in America); né sappiamo dell’evoluzione di Ivan e della consorte Sara (alla fine del romanzo, Aljosa ci dice che è morente), e di Katerina. Dobbiamo però osservare che, dal punto di vista della tensione poetica, il romanzo è concluso: solo esteriormente si potrebbe chiedere lo sviluppo dei fatti, le vicende storiche, o cronachistiche, dei personaggi. In realtà I FRATELLI KARAMAZOV è, prima di tutto, un romanzo ideologico e profetico, una specie di “cattedrale”, per cui l’autore ha cercato e trovato le forme, le strutture, le espressioni più acconce. Certamente, Dostoevskij tende a superare il concetto ottocentesco del romanzo oggettivo o dell’autore onnisciente e, introducendo un personaggio-narratore (che racconta le vicende verificatesi nella cittadina dal nome assai poco “lirico” di Skotoprogonevsk = Spingilbestiame, all’incirca), si avvicina al romanzo “ben fatto” nell’accezione che l’espressione ha dato Henry James. Tuttavia anche questo concetto deve essere interpretato in modo un po’ diverso. Senza dubbio Dostoevskij è, fra gli scrittori russi dell’Ottocento, il più moderno, dal punto di vista della tecnica narrativa, delle vertiginose “discese” nel profondo della psicologia, della struttura poetica stessa che tiene insieme il romanzo. Non posso dire altrettanto dal punto di vista ideologico, e cioè se consideriamo il pensiero di Dostoevskij: in questo senso Dostoevskij idealizza una Russia arcaica e inventata, che egli contrappone all'”Occidente” razionalista, ateo o, se cristiano, cristiano in senso sbagliato, “eretico” (cattolico e protestante: due forme di negazione, dovuta al “vizio razionale”, dell’autentico cristianesimo, portato dal popolo slavo-ortodosso, interprete autentico di Cristo). È interessante far osservare che il “medievalismo” di Dostoevskij trova sostanzialmente riscontro in Tolstoj. E che i populisti russi, pur con tutti i riferimenti ideologici a varie forme di pensiero politico occidentale, erano in sostanza, e cioè nell’effettiva realtà delle cose, “restauratori” di un’antica, mitica Russia in cui sarebbe esistita una società più giusta, rappresentata dal “mir”, dalla comunità contadina, che essi populisti, con scarso senso storico, idealizzavano. Tanto Tolstoj, quanto Dostoevskij, quanto i populisti, nella comune, appassionata, sinceramente sofferta condanna dell’ingiustizia presente, miravano a realizzare un ideale remoto: di qui, proprio per il carattere pre-marxista e antiscientifico delle loro posizioni (ivi comprese quelle di Bakunin) le ragioni del fallimento politico, anzi della débâcle, di tutti i tentativi populisti; compresi, s’intende, quelli dei terroristi: l’attentato ad Alessandro II fu, fermo restando il riconoscimento della generosità e del coraggio degli attentatori, un atto di vera follia politica. Atto che, fermò il progresso del movimento di liberazione russo e lo fece anzi retrocedere: movimento che sarebbe ripreso in seguito solo in concomitanza con il formarsi di gruppi marxisti in Russia. Ed è curioso che le condanne che Dostoevskij, da posizioni di destra, rivolgeva ai populisti e agli anarchici (per esempio nel romanzo I DEMONI) coincidevano in parte con le dure critiche di Marx, fatte, ovviamente, per altre ragioni e da un contrapposto punto di vista. Per Dostoevskij la “salvezza” della Russia è solo in una rigenerazione autenticamente cristiana del paese, rigenerazione di cui lo scrittore vedeva uno degli strumenti del movimento dello starčestvo, e cioè nell’opposizione, nei monasteri russi, ai vecchi sistemi di vita monastica, fondati sulla sclerosi spirituale, sull’osservanza esterna e superstiziosa delle regole, sul dominio dei monaci fanatici, ignoranti e di fatto non cristiani, di una nuova concezione del cristianesimo e della vita monastica fondata sull’amore autentico per il Cristo. Su una concezione viva, da “terzo regno” della figura di Cristo nella storia dell’umanità: in questo senso, si capisce l’importanza di personaggi quali padre Zosima e di episodi quale quello, così celebre, del Grande Inquisitore, in cui il simbolo del falso cristianesimo, rappresentato dalle chiese storiche e, in particolare, dal cattolicesimo (ma anche dalla falsa ortodossia), un cristianesimo che, al posto del Cristo come simbolo e garanzia di libertà autentica e di autentica vita religiosa, come liberazione dell’uomo nell’amore, contrappone l’autorità, il miracolo e il mistero…
“Abbiamo corretto l’opera Tua – dice il Grande Inquisitore al Cristo che ha fatto arrestare e gettare nelle carceri di Siviglia, nella notte che precede il “grandioso autodafè”, durante il quale lo farà bruciare davanti alle folle – abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono così terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti”.
Il dono della libertà: perché “la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene e il male”. È questo il “cuore” del romanzo, la realtà interiore che brucia, autenticamente, le pagine della grandiosa opera.

Profondamente intrecciata con questa “dimensione” religiosa è la tematica realista, lo spaccato angoscioso e tormentoso della realtà russa contemporanea, nonché la polemica di Dostoevskij nei confronti di situazioni e istituti che, secondo lui, avrebbero accelerato la disgregazione del paese. Qui la condanna della realtà negativa, esasperata dalla presa di coscienza dei drammi provocati dalle trasformazioni economiche del paese, dalla rottura sempre più rovinosa dei vecchi equilibri, si intreccia con prese di posizione di Dostoevskij, di carattere pubblicistico; a questo proposito va osservato che le “condanne” di Dostoevskij sono spesso ingiuste e dettate dal nazionalismo grande-russo: ma questo concetto nazionalistico è particolare; l’autenticità “russa”, per Dostoevskij, non consiste solo o tanto in un fatto di nazionalità inteso nel senso occidentale del termine, ma in una realtà più profonda, in un qualcosa che manca, per esempio, ai “polaccuzzi” e che manca anche a quei russi, come Rakitin, che sono imbevuti di cultura (o pseudocultura) europeo-occidentale, e così tradiscono la verità ortodossa. Gli autentici russi sono, per esempio, proprio Grusen’ka e Dmitrij i quali, attraverso la dialettica della colpa, riscattano se stessi. E il loro riscatto è tanto più profondo e vero in quanto passa anche per la punizione di una colpa non commessa: il parricidio di cui è accusato Dmitrij.


La prima pagina della prima edizione di I fratelli Karamazov


IL KARAMAZOVISMO

Ma la realtà è che la cosiddetta “karamazoscina”, o “karamazovismo” o modo di concepire la vita alla Karamazov, era un fatto storico. Ed ecco che I FRATELLI KARAMAZOV è anche un quadro ampio e profondo della realtà russa della fine degli anni’70, dell’ultimo periodo del regno di Alessandro II. La “karamazoscina” come fatto storico concreto della società russa del tempo si manifesta in modo pieno e tragico nel destino di Dmitrij. È il pubblico ministero che, durante l’arringa contro l’imputato, indica lo stretto legame che esiste fra la “tragica insensatezza” della vita russa, il delitto compiuto da Mitja, e lo stesso Mitja, lo stesso Dmitrij Fiodorovich Karamazov, in quanto “espressione” dell'”essenza” della famiglia Karamazov.
Come è stato osservato, il principio fondamentale del karamazovismo può essere espresso con le parole del vecchio Karamazov…
“Bruci pure l’intero mondo, purché io stia bene”.
È, cioè, il principio dell’egoismo assoluto. Noteremo che questo principio dell’egoismo assoluto è alla base delle azioni di eroi dostoevskiani di romanzi precedenti: del protagonista di DELITTO E CASTIGO, Raskol’nikov, per esempio.

Raskol’nikov giustifica e nasconde il suo principio dell’egoismo assoluto dietro le cortine ideologiche del diritto dell’uomo “eccezionale” a realizzare se stesso anche con l’omicidio, e di altri personaggi dello stesso romanzo, quali il capitalista Luzin e il depravato Vidrigajlov. Dostoevskij è, posso dirlo, lo spietato analizzatore di questa condizione umana, di questo vizio umano, che ha assunto le forme più mostruose proprio in concomitanza con il sorgere e lo svilupparsi della società industriale (oggi è divenuto un fatto ancora più mostruoso nel suo automatismo). Se deve esistere umanesimo, l’umanesimo non può opporsi a questo principio: la scienza e al tecnica, in realtà, sono favorevoli; o almeno lo sono state finora, nella loro essenza, a questo principio.
Così si comprende l’odio dell’umanista Dostoevskij contro la scienza e la tecnica occidentali, mostruose degenerazioni razionalistiche che servono solo a truccare il bestiale karamazovismo che governa la società capitalista europea e anche la Russia, in quanto accetta la società capitalista. La critica di Dostoevskij, però, contrappone a questa civiltà e società, come ho già descritto, una società idealizzata e fantastica, russo ortodossa. Così si spiega il fatto che Mitja, durante il processo (e anche prima) prenda come simbolo della scienza europea (non cristiana e quindi, per lui, non umana) uno scienziato allora assai noto, Claude Bernard (1813-1878), eminente fisiologo, assertore dell’applicazione del metodo sperimentale alla fisiologia, di cui si parlò molto, in occasione della sua morte, proprio negli anni in cui Dostoevskij si accingeva a scrivere I FRATELLI KARAMAZOV. Bernard ebbe importanza (a parte il fatto che fu fondatore della patologia sperimentale) anche – sia pur indirettamente – perché sul suo metodo si basò Emil Zola quando elaborò la teoria del romanzo sperimentale. L’opposizione, lo scherno di Mitja sono dovuti a un elemento vistoso (e cioè al fatto che Bernard negava l’immortalità dell’anima). Tuttavia poiché dietro l’opposizione di Mitja c’è, naturalmente, l’opposizione di Dostoevskij posso dire che il simbolo di Claude Bernard nell’economia ideologico-immaginativa del romanzo non è soltanto il portatore di un momento negativo dal punto di vista mitologico-cristiano, ma lo è anche da un altro punto di vista: da quello, cioè, della scienza ostile all’umanità, della scienza fredda e indifferente al “pianto dei bambini”. E’ naturale: la posizione di Dostoevskij è unilaterale, tuttavia non è priva di ragioni. Le ragioni che gli venivano suggerite dalla realtà russa, dalla realtà che egli esprimeva di un popolo contadino violentemente scosso dall’ingresso di strutture economiche diverse che si realizzavano sulla sua pelle. Anche il processo contro Mitja venne imposto secondo i “metodi scientifici” rabbiosamente scherniti dall’autore: e, in effetti, dal punto di vista formale, il processo è perfetto, le testimonianze sono convincenti, i testimoni sono convinti. Tutto procede nel migliore e più scientifico dei modi, e il povero Mitja è, secondo tutte le regole del diritto, della ragione e della scienza, incastrato e si becca vent’anni di lavori forzati.
Però Mitja è innocente. Però Mitja non ha ucciso suo padre!
Dostoevskij, in modo tormentoso, rappresentò tutto quel groviglio di sentimenti e reazioni che era la Russia degli ani ’70, quando dominava Pobedonoscev, quando per l’affermarsi di rapporti economici capitalisti e anche in conseguenza dello sterile massimalismo astratto dei populisti, la condizione dei contadini e degli operai si trovava in una situazione ancora più arretrata, quando tentativi di confusi di riforme si scontravano con una realtà oscura e sonnolenta. La “piccola città” di provincia in cui si svolge la vicenda dei Karamazov è una “monade” della Russia: con mirabile perspicacia di artista, Dostoevskij rende la coralità delle voci: dietro i protagonisti, c’è la massa della gente, i vari strati sociali. Il contraddittorio democratismo religioso di Dostoevskij gli ispira rappresentazioni commosse e partecipi della “povera gente”, di coloro cioè che, in città, ma in una piccola città ancora vicina alla campagna, non hanno perso i legami con la terra. D’altra parte c’è tutta la “gente nuova”, gli sradicati che, per l’ossessione del denaro o per l’adesione al razionalismo (o meglio all’esasperazione del razionalismo astratto di derivazione occidentale) hanno perso i legami con la madre terra russa. E diventano criminali o impazziscono; come impazzisce Ivan, figura, in questo senso, emblematica. La condanna non tanto della ragione, quanto dell’esasperazione fanatica del razionalismo è un tema che troverà larghi sviluppi nella letteratura russa (per esempio anche nel DOTTOR ZIVAGO).



UN ROMANZO CORALE

Non è certo possibile, nell’ambito stretto di una opinione, esaminare tutti i problemi che un romanzo corale come i Karamazov può suscitare. Cercherò però di fare qualche considerazione sulla struttura compositiva del romanzo. Se guardiamo dal di fuori l’opera, essa ci appare come una multiforme successione di episodi più o meno drammatici, di convulsi colpi di scena, di tutto l’armamentario della suspense, dell’oratoria ideologica, dell’appassionato monologo, del dialogo pacato o convulso. Se però penetriamo nelle strutture che la sostengono, ci rendiamo subito conto della semplicità compositiva, dell’unità per cui tutti quegli episodi e momenti sono strettamente uniti: unità architettonica che corrisponde alla sostanziale unità ideologico-patetica dell’opera. Come un poema epico, l’opera è divisa in dodici libri, distribuiti in quattro parti; precede una “prefazione” e segue un “epilogo”.



PRIMO LIBRO

Nel primo libro, STORIA DI UNA FAMIGLIA, Dostoevskij traccia la storia dell’infanzia dei tre Karamazov figli e presenta il padre: il primo libro ha il compito di condurre il lettore al momento in cui ha inizio la storia vera e propria narrata nel romanzo.



SECONDO LIBRO

Nel secondo libro, mediante l’episodio dell’incontro nella cella del monaco Zosima, l’autore presenta tutti gli eroi principali insieme; e ciascuno, secondo il suo carattere e il suo destino, si esprime; le contraddizioni e gli odi si rivelano, l’inimicizia del vecchio Fjodor Karamazov e dei suoi figli appare qui nella sua nuda asprezza. In questo libro compare Zosima, e si preparano così gli eventi successivi, dedicati alla morte di Zosima e all’uscita di Aljosa dal monastero. Con una soluzione da maestro Dostoevskij in un colpo solo, per così dire, permette all’osservatore di afferrare i caratteri e i rapporti dei protagonisti. Tuttavia – in un certo senso – questi conflitti e la tragedia interiore si rivelano a un piano non del tutto profondo.



TERZO LIBRO

L’approfondimento procede invece nel terzo libro, rigorosamente legato al precedente: nel terzo libro si allude, proprio nell’approfondire il contenuto dei rapporti tra i figli e il padre, all’inevitabile conclusione tragica. I partecipanti alla tragedia (Fjodor Karamazov, Dmitrij Karamazov, Smerdjakov, Grusen’ka, Katerina Ivanovna ecc.) agiscono nel libro presentandosi nelle loro varie sfaccettature; il terzo libro è uno dei più analitici; le varie linee fabulistiche si annodano e si intrecciano. Il lettore (io) continua a salire lungo la curva ascendente che porterà all’acme drammatica dell’opera, o a scendere sempre più negli abissi delle coscienze. Il che è lo stesso: perché negli abissi delle coscienze si determinano le condizioni che porteranno all’orrore e poi alla catarsi.



QUARTO LIBRO

L’analisi a volte spasmodica dei personaggi e delle situazioni continua nel quarto libro, il “libro degli strazi”, in cui si definiscono altre contrapposizioni (Zosima e Ferapont) ed entrano personaggi come Iljusa e suo padre.



QUINTO e SESTO LIBRO

Importante è la funzione compositiva del quinto libro e del sesto libro, nel senso che, in ciascuno di essi, sono sviscerati due personaggi chiave dal punto di vista ideologico, Ivan Karamazov (nel quinto libro, PRO E CONTRO) e padre Zosima (nel sesto libro, IL MONACO RUSSO).
Ivan è rilevato come “ispiratore” dell’omicidio che verrà compiuto da Smerdjakov, Zosima è l’ispiratore di Aljosa, il “portatore di luce”, e attraverso Aljosa è colui cui si devono il riscatto di Grusen’ka e quindi anche di Dmitrij Karamazov, e il sorgere della speranza “dei bambini”. Inoltre Ivan e Zosima esprimono sentimenti, pensieri, intuizioni, aspirazioni, condivisi in un modo o nell’altro dagli altri personaggi. Ivan e Zosima sono uniti da un rapporto di opposizione: i loro ideali sono opposti.
La drammatica problematicità di questa contrapposizione o, meglio, della visione del mondo di Ivan è espressa nei due capitoli centrali del quinto libro, intitolati LA RIVOLTA e IL GRANDE INQUISITORE.
Ne LA RIVOLTA Ivan si dimostra sottile e abile interlocutore di Aljosa: è capace di suscitare in lui il dubbio quando gli racconta la terribile vicenda di quel generale che, per punire un bambino di otto anni che gli aveva azzoppato un cane, lo fece inseguire e sbranare dai cani. Il mite Aljosa non resiste e alla precisa domanda di Ivan, se si dovesse fucilarlo, quel generale, risponde impetuosamente di sì. Ma Ivan è impietoso e continua…
“Immaginati di essere tu a costruire questo edificio dei destini umani con lo scopo di rendere felici gli uomini, di dar loro infine il riposo e la pace; ma per questo sia necessario e inevitabile tormentare una sola minuscola creaturina, quella stessa bambina…” (Ivan si riferisce a un altro episodio, narrato prima, di una bambina seviziata dai genitori).
Aljosa non accetterebbe di essere “architetto”, ma, alla dichiarazione religiosa e appassionata del giovane novizio, Ivan risponde raccontando il suo “poema”, la leggenda del Grande Inquisitore, cui ho già accennato e che è, appunto, uno dei centri se non il vero centro ideologico del romanzo. Lo spirito “euclideo” di Ivan si manifesta nella sua profonda protesta contro la chiesa, la religione, lo Stato; si manifesta in una forma lucida di negazione anarchica, accompagnata dal più profondo disprezzo per gli umili, per la massa della gente semplice, incapace di governarsi e che ha bisogno, appunto, del miracolo e dell’autorità, come voleva il Grande Inquisitore: di qui il fallimento del Cristo, che è il Cristo di Aljosa. Ma il discorso di Ivan suscita in Dostoevskij la naturale necessità di contrapporre al discorso ateo, geometrico, “euclideo” di Ivan, la predica cristiana dell’amore e della salvezza. E il capitolo successivo è appunto dedicato a Zosima, personaggio per nulla convenzionale e appassionato nella sua viva fede. È Zosima che dovrebbe “rispondere” alle domande angosciose di Ivan; rispondere con una concezione vissuta, non ecclesiastica, della religione; per rendere più convincente il suo personaggio Dostoevskij attinse con fine senso dell’arte al ricco patrimonio della letteratura popolare religiosa russa.
Tuttavia anche Zosima non riesce a rispondere del tutto: o, per lo meno, il tono della sua “risposta” non è così forte e convincente (disperatamente convincente) come il tono delle parole di Ivan.



REALISMO E LEGGENDA

È stato giustamente osservato che il carattere dei primi sei libri del romanzo è “statico”, nel senso che non si ha uno sviluppo dell’azione; i primi sei libri sono in sostanza dedicati alla confessione diretta o indiretta dei personaggi davanti ad Aljosa che, senza essere l’eroe di questi sei libri, ne è però il centro compositivo.
La seconda parte del romanzo, formata pure da sei libri (dal settimo al dodicesimo), è diversa dalla prima nel senso che la funzione compositiva di Aljosa va diminuendo, tanto che centri compositivi, specialmente nel undicesimo e nel dodicesimo libro, sono Mitja e Ivan. Nella seconda parte prevale l’azione, che ha uno dei suoi culmini nell’assassinio di Fjodor Karamazov e nel processo (ma anche nell’indimenticabile scena dell’osteria, o nell’incubo di Ivan, che viene visitato dal diavolo-doppio): direi anche che i libri settimo ÷ dodicesimo sono un susseguirsi di scene di alta drammaticità: mentre la drammaticità nei primi sei libri è prevalentemente ideologica e mentale, e si esprime in parole, nei libri della seconda parte è prevalentemente dinamica, e si esprime in movimenti, incontri frenetici, colpi di scena, deliri, allucinazioni. Assistiamo al tormentoso processo del rinascere di un essere umano, al ritorno di Grusen’ka, cioè, alla sua dignità, che ella riconquista con l’amore e la sofferenza e la dedizione di sé.



SETTIMO LIBRO

L’inizio di questo riscatto si ha già, nel settimo libro, nell’episodio della visita di Rakitin e Aljosa alla ragazza (che aveva intenzione di sedurre il novizio). È interessante osservare che Grusen’ka ritrova un punto d’appoggio spirituale proprio in Aljosa e che Aljosa, sconvolto dalla morte di Zosima (e dallo scandalo scatenatosi poi a causa dei mancati miracoli e del puzzo di cadavere che emanò dal corpo del vecchio subito dopo la morte, nonostante tutte le leggende popolari sui santi e con gran gioia sia dei miscredenti sia dei monaci avversari, che poterono subito dire che Zosima non era stato certo un santo), Aljosa dunque ritrovò nel colloquio con Grusen’ka la fede nell’umanità e nell’amore.
Abbiamo qui tutta una serie di immagini e scene realiste intrecciate con racconti ed episodi di derivazione leggendaria popolare: c’è il matrimonio spirituale di Aljosa e Grusen’ka, premessa della salvezza della ragazza; c’è il racconto, famoso, narrato dalla ragazza, della “cipolla”: cioè di quella donna malvagia che, dopo la morte, andò all’inferno, nel lago di fuoco e il suo angelo, volendo salvarla disse a Dio che una volta, una sola volta, aveva dato una cipolla ad un mendicante; e Dio concesse alla donna di aggrapparsi a quella cipolla per uscire dal lago di fuoco; già stava per uscirne, quando gli altri dannati vollero aggrapparsi anch’essi per essere salvati; ma la donna, malvagia com’era, si mise a tirar calci per ributtarli giù: e così la cipolla si sciolse e la donna ricadde nel lago di fuoco “dove brucia tuttora”.
“Quella donna cattiva sono io” dice Grusen’ka ad Aljosa : ma da questo momento ha inizio il riscatto morale di Grusen’ka, la sua speranza.



IL DRAMMA DI MITJA


OTTAVO LIBRO

L’ottavo libro è il libro di Mitja: Dmitrij Karamazov è preso come da un delirio, egli è innamorato pazzo di Grusen’ka, e con le sue proprie mani, nelle sue forsennate azioni (colpisce anche il vecchio Grigorij e crede di averlo ucciso) si costruisce la trappola che lo porterà alla condanna. Mentre il povero Dmitrij è in preda al suo delirio amoroso, che non lo porta però ad oltrepassare il limite estremo del parricidio, un altro, Smerdjakov, con fredda premeditazione uccide il vecchio sensale Fjodor Karamazov.



NONO LIBRO

La baldoria all’osteria si chiude, nel nono libro, con l’arresto di Mitja. Mitja e Grusen’ka, che si sono ormai “trovati”, sono travolti dalla catastrofe. Ma attraverso la catastrofe che distrugge le loro illusioni, essi maturano nella loro coscienza quel rinnovamento che si realizzerà come una specie di processo sotterraneo negli ultimi libri dell’opera. Accanto al processo giudiziario difatti (processo cui è dedicato il dodicesimo libro) si svolge come un sotterraneo processo di risveglio spirituale di Dmitrij, si realizza l’incontro profondo tra Dmitrij e Grusen’ka da una parte, e Dmitrij e Aljosa dall’altra.



DECIMO LIBRO

Il Tema dei bambini, sviluppato nel decimo libro, vuol essere un’altra risposta, o, meglio, un approfondimento della risposta di Aljosa alle domande di Ivan e alla tragedia di Mitja. Il tema dei bambini prepara la visione dell’armonia, dell’amore universale, del mito della resurrezione nell’amore con cui si chiude il romanzo.
Questo tema permette all’autore, da una parte, di rivelare un’ennesima volta le sue grandi doti di scrittore realista, nel rappresentare la realtà della vita dei bambini nella città, le loro interne sofferenze in un ambiente innaturale, l’influsso della povertà sul carattere (l’orgoglioso Iljusa e il suo coraggio nel difendere il padre insultato). Inoltre, come ho già osservato, il tema dei bambini permette a Dostoevskij di dare al romanzo una dimensione epica, oltre la contemporaneità, incidendo nella prospettiva di tre generazioni (i vecchi, come Fjodor o Zosima, i contemporanei, come i fratelli Karamazov, Grusen’ka ecc., e il “futuro”, come gli amici di Iljusa, di cui è seguita la formazione psicologica, il rinnovamento, poiché, secondo l’autore, saranno proprio essi a rinnovare la Russia).



UNDICESIMO LIBRO

Al centro dell’undicesimo libro c’è la tragedia di Ivan: i suoi colloqui con Smerdjakov, che poi si impiccherà (nel raffigurare Smerdjakov, Dostoevskij ha non poco calcato la mano, facendone un personaggio assolutamente negativo, una specie di demone malvagio di ascendenza romantica); e poi il delirio di Ivan, durante il quale gli compare il diavolo sotto l’aspetto di un intellettuale di provincia meschino e vanitoso ad un tempo; questo diavolo è, naturalmente, la proiezione dell'”io” autentico e naturale di Ivan, è l’incarnazione dei lati negativi del suo carattere, il suo “io” meschino e filisteo sotto il linguaggio razionalistico. Il “colloquio” tra Ivan e il diavolo (non senza reminiscenze, appositamente ricordate da Dostoevskij nel corso della “conversazione” stessa, di Lutero che scagli il calamaio contro il demonio e di Faust che s’incontra con Mefistofele) è senza dubbio tra le scene più potenti dell’opera.



DODICESIMO LIBRO

Quest’ultima scena, nel dodicesimo capitolo, arriva alla conclusione con una lucidità di scene e una serrata concatenazione di fatti e discorsi tali da rendere perfettamente il pathos polemico di Dostoevskij nei confronti del formalismo legale in atto, accompagnato com’era da disinteresse per l’umanità dei “soggetti”.



ECCO, ANDIAMO TENENDOCI PER MANO


EPILOGO

L’epilogo, come ho detto, è dedicato, da una parte, alle voci sulla preparazione della fuga di Mitja, che non sappiamo se si effettuerà veramente, se riuscirà: ma possiamo pensare anche a un fine, escluso dal romanzo, relativamente lieto, e quindi credere nella riuscita dell’impresa, tanto più che ad essa concorreranno due forze notevoli: i soldi di Katerina Ivanovna e la facilità a farsi corrompere dei poliziotti di scorta dei convogli dei deportati.
Ma la conclusione del romanzo, nel senso ideologico, e patetico, è data dal discorso di Aljosa sulla pietra di Iljusa e, più particolarmente ancora, dalle sue ultime parole…
“Ecco, andiamo tenendoci per mano!”…, ripetute dalla voce entusiasta di Kolja…
“E così in eterno, tutta la vita per mano! Un hurrah per Karamazov”…, e dalla voce di tutti gli altri ragazzi.
Con questa promessa millenaristica di un amore fra tutti gli uomini prefigurato nell’amicizia eterna dei ragazzi, Dostoevskij ha voluto dare una risposta, non si sa se serena o disperata (disperata per il suo utopismo) alla massa ingente e angosciosa di dolori e tragedie umane che nel romanzo si è andata via via tormentosamente dipanando.



Conclusioni

VEDI ANCHE . . .

FËDOR MICHAJLOVIČ DOSTOEVSKIJ – Vita e opere


DOSTOEVSKIJ VISTO DA PUTIN

IL GIOCATORE – Fëdor Dostoevskij


DELITTO E CASTIGO – Fëdor Dostoevskij


I DEMONI – Fëdor Dostoevskij


L’IDIOTA – Fëdor Dostoevskij (Prima versione)


L’IDIOTA – Film di Giacomo Vaccari (Romanzo di Dostoevskij)


I FRATELLI KARAMAZOV – Fëdor Dostoevskij


IL SOSIA – Fëdor Dostoevskij
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