BEETHOVEN, L’UOMO NUOVO

Due secoli e mezzo della nascita di Beethoven sono una quantità enorme di tempo; sembra assurdo dover collocare Beethoven in una prospettiva così lontana, mettere la “Terza Sinfonia (Eroica)” accanto alle ultime composizioni di Haydn così amabilmente settecentesche.
In questa apparente assurdità sta il dramma di Beethoven, l’uomo nuovo nato in un’epoca di radicali trasformazioni cui il vecchio mondo cercava ancora di resistere. Oggi è difficile concepire che cosa fosse la vita di un musicista in quell’epoca e nelle piccole Corti tedesche. Per tutto il Settecento la musica è un ornamento necessario in un ambiente nobile: ogni signore di un certo rango e di una certa fortuna ha la sua orchestra o, almeno, il suo complesso cameristico, compone egli stesso e non intraprende un viaggio senza i suoi musicanti da mostrare come rarità agli altri signori.

Haydn, il grande Haydn, salvo gli ultimi anni della sua vita, rimase sempre alla corte del ricco principe Esterhazy dove pranzava coi servitori e scriveva i suoi lavori per le accademie che si susseguivano a palazzo o per occasioni assai più umili. Questa pratica dà alla musica del Settecento un carattere solido e artigianale: scritta per un mondo aristocratico, uniforme di gusto e di cultura, risente della limitazione generale; deve essere compresa da tutti, deve piacere e deve essere tecnicamente a livello dell’esecutore medio, sia il professionista dell’orchestra che il nobile dilettante.
In questo mondo bene equilibrato, le idee della Rivoluzione francese e poi la Rivoluzione stessa portano una rottura catastrofica. Dal punto di vista economico, la distruzione dei vecchi legami feudali e la eliminazione dei principi porta alla liquidazione degli impieghi di corte, a cominciare da quelli voluttuari. Si sciolgono le orchestre mantenute dai signori e i musicisti si trovano disoccupati. Nello stesso tempo comincia ad apparire un nuovo pubblico di origine borghese che ha altri gusti, altre esigenze e altre possibilità.
Il linguaggio aristocratico della musica a livello internazionale cede il posto a uno stile più sanguigno e popolaresco, più ricco di fantasia e di imprevisti: l’opera classica, questo divertimento aulico dei signori, cede il posto all’opera buffa; la musica strumentale si orienta verso il virtuosismo degli esecutori che viaggiano da teatro a teatro, da salone a salone, conquistando un pubblico che non ha più la cultura uniforme dell’antica nobiltà.
Nasce il musicista come libero professionista. Non è un passaggio facile. Mozart che arrischia per primo muore di esaurimento nel tentativo di sostenersi con la vendita dei propri lavori in un’epoca in cui non esistono i diritti d’autore. Per dare un’idea del come andavano le cose, ricordo che Mozart riceveva per un’opera lirica 500 gulden mentre per vivere un anno in dignitosa povertà a Vienna gliene occorrevano da sei a ottocento: mezzo secolo dopo suo figlio Carlo Tommaso, modesto funzionario statale a Milano, ricevette 10.000 franchi da Parigi come diritti d’autore per tre recite del “Matrimonio di Figaro” e, con quella somma, acquistò una proprietà terriera a Caversaccio in provincia di Como!
La vita di Beethoven si svolge a mezza strada tra questi due momenti. Quando egli appare nella capitale austriaca attorno ai vent’anni, Mozart sta ormai morendo, ma una nuova categoria di brillanti virtuosi del pianoforte va affermandosi. Sta cioè avvenendo quella trasformazione del gusto di cui ho detto: la musica si spoglia della bella forma settecentesca, calibrata secondo canoni universali, per diventare più libera e individuale. La rottura delle convenzioni incipriate – effettuata da Mozart nelle grandi scene drammatiche del “Don Giovanni” – va allargandosi a tutti i campi dell’arte musicale e il pubblico comincia ad orientarsi verso quello che poi sarà lo stile romantico.
In questa arena Beethoven entra con successo. Da giovane non ha né il volto leonino degli ultimi ritratti, né l’aggressiva violenza che, più tardi, lo metterà in contrasto con tutti. È un bel ragazzo sottile di figura, con occhi vivaci un po’ melanconici e una gran fronte attorno a cui i capelli cadono in onde sino alle spalle. Ed è anche elegante in calze di seta e scarpette scollate, panciotto ricamato, cravatta alla moda francese. Nei salotti compie prodigi sulla tastiera, e nelle case aristocratiche tratta i proprietari alla pari o, qualche volta, con superiore considerazione. Il che non significa che egli sia “alla pari”: tra lui e le belle signore che l’ammirano resta il distacco invalicabile della situazione sociale: le affascinanti ragazze della famiglia Brunswik si innamorano in blocco di lui, ma cercano i mariti nel proprio rango.
Anche qui, come nella sua musica, il suo rapporto colla società conserva qualcosa di sbagliato: una mescolanza di amore-odio, di fascino e di terrore. Il suo mondo ideale è quello della rivoluzione borghese, ma egli vive tra la nobiltà; amici e protettori vengono dalla Corte e, in fondo, il suo maggior trionfo sta nel farsi servire da coloro che stanno sopra di lui nella scala del potere. Ma in questo continuo braccio di ferro non sempre riesce ad avere la meglio. Nello stesso tempo lo sviluppo del suo linguaggio artistico tende a isolarlo, a spaventare il pubblico medio.
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L’illustre Carpani – autore attorno al 1810 di un fondamentale studio su Haydn – ci lascia una testimonianza perfetta dei sentimenti di un vecchio musicomane di fronte alle novità affioranti nel mondo beethoveniano. Nel giovane genio egli vede l’erede unico di Haydn e di Mozart. Ma, c’è un ma…
“Vorrà egli porre un freno alla sua fantasia?
Vorrà darle un ordine, una misura, un carattere?
Vorrà anteporre la bellezza alla singolarità?
Vorrà cessare di essere il Kant della musica?
In una parola: vorrà farsi un sistema chiaro, intelligibile, sensato, e seguirlo?
Certo è che la natura… gli ha dato dei doni che all’Haydn e ai Mozart soli sembrava aver riservati.
Ma egli, invece di farne uso moderato e saggio, dilapida e distrugge il suo patrimonio…”.
In questa serie di interrogativi e di affermazioni dolci-amare vi è, come rileva Giovanni Carli Ballola nel suo Beethoven, una intuizione straordinaria: Beethoven come Kant della musica. Immanuel Kant, nato nello stesso anno di Beethoven, è il creatore della filosofia moderna e l’ordinatore di una morale tesa alla realizzazione assoluta di un principio superiore, basata sulla libertà della ragione. Ora, non solo Beethoven è un lettore appassionato di Kant, ma coscientemente o no ne realizza i postulati e li porta assai più avanti nella ricerca della verità assoluta postulata dal filosofo.
Qui, appunto, sta il momento di rottura tra Beethoven e quella parte dei contemporanei che desiderava trovare in lui un progresso, ma entro le buone regole del passato; una novità, come dice il Carpani, ma saggia e moderata. Beethoven, invece, non è né moderato né saggio. In politica e in arte il suo mondo è quello della Rivoluzione francese. Nella realtà della vita quotidiana arriva qualche volta a compromessi: strappa la dedica della “Eroica” a Napoleone quando questi si fa incoronare imperatore, ma poi quando Napoleone entra da vincitore in Vienna gliela dirige come se fosse ancora sua, salvo scrivere una (brutta) “Vittoria di Wellington” dopo Waterloo… L’uomo non è ineccepibile, ma l’artista non ha simili sbandamenti e nella musica realizza con indomabile coerenza l’imperativo categorico di Kant, l’affermazione di una libertà sempre più ampia e il rifiuto delle convenzioni del passato.
Qui Beethoven è il contemporaneo di Goethe e di Schiller. La tematica dei due grandi poeti tedeschi, la lotta titanica dell’uomo contro la società ingiusta e contro la stessa divinità, la visione di un’umanità libera, affratellata oltre le frontiere, animano tutta la sua opera.
È facile avvertire questo slancio nelle musiche dedicate agli eroi rivoluzionari, – “Egmont” e “Coriolano” – nella schilleriana “Ode alla Gioia” che corona la “Nona Sinfonia”, nell’ardente finale del “Fidelio” ispirato a un episodio della Rivoluzione francese. Qui il testo, l’occasione, esprimono direttamente l’intenzione dell’autore. Ma l’abbattimento di ogni frontiera ideale non è meno energico in altri lavori di “musica pura”: le grandi “Sonate per pianoforte”, i monumentali “Quartetti”, i “Concerti” per piano, per violino e via via.
Ancora una volta, per comprendere l’ampiezza del fenomeno liberatorio, dobbiamo guardare indietro alla musica settecentesca in cui il fascino armonioso della geometria interna dà il senso di bella tranquillità, di raggiunta sicurezza. Talora, nelle ultime sinfonie di Haydn e soprattutto in certe partiture di Mozart, il cerchio di eleganza formale si incrina e lascia intuire un turbamento di tempi nuovi. Ma ciò che in questi pur grandissimi è soltanto uno sguardo nel futuro (anche se Mozart vede molto in là), diventa in Beethoven lo scopo primo del suo lavoro.
Spezzare le barriere che si oppongono al progresso del pensiero, così come Napoleone abbatte le frontiere in Europa, significa per lui superare la forma del passato aprendo nuove vertiginose prospettive.
Senza entrare in ardue analisi tecniche, basta ricordare quel che ognuno di noi avverte ad orecchio ponendo sul grammofono un disco o sul lettore un cd: in primo luogo la grandiosità dell’orchestra beethoveniana, l’arricchimento degli impasti, l’impiego di armonie e di strumenti sino allora inusitati. Poi le dimensioni dell’opera: le grandi sinfonie di Beethoven durano il doppio di quelle di Mozart, e questa durata ha un senso espressivo, tende ad esaurire sino all’ultima piega una materia altamente significativa. E, ancora, la violenza dei contrasti, quella tensione drammatica crescente di battuta in battuta che tanto sconcertava i conservatori dell’epoca quando le ritrovavano nelle “Sonate” come nelle “Sinfonie”.
Siamo cioè agli antipodi della musica aristocratica del Settecento: là lo scopo era il piacere, il divertimento di una nobile società arrivata a un perfetto equilibrio di vita, al di sopra di tutto il resto del mondo “volgare”. Qui lo scopo è la espressione di sentimenti, di idee, di volontà che appartengono all’umanità intera o, almeno, a quella parte dell’umanità che guida l’altra verso un impetuoso progresso.
Questo allargamento espressivo abbisogna di tecniche originali. È evidente: il “Giudizio Universale” deve essere dipinto in modo differente dal ritratto di una bella ragazza; la “Critica della Ragion Pura” richiede un linguaggio diverso da quello di un sonetto parnassiano. Di qui la ininterrotta ricerca di Beethoven di modi inediti di espressione, di melodie, di armonie capaci di sopportare il peso delle idee rivoluzionarie. Isolato dal mondo da una sordità che, alla epoca della “Terza Sinfonia” va già diventando totale, egli approfondisce in se stesso una esplorazione che di anno in anno si fa ardita oltre ogni limite tradizionale. Gli ultimi “Quartetti”, più ancora della prometeica “Nona Sinfonia” rappresentano l’estremo vertice del progresso verso mondi vergini.
Qui ben pochi lo seguirono. Gli ultimi “Quartetti” rimasero per anni un libro chiuso per i più e aveva ragione Schubert quando, additando il Maestro agli amici, diceva…
“Egli sa tutto, ma noi non possiamo ancora capire tutto, e passerà ancora molta acqua sotto i ponti del Danubio prima che tutto ciò che quell’uomo ha creato sia compreso dal mondo”.
Tuttavia, anche senza capire tutto, i contemporanei intesero la straordinaria grandezza della sua opera tanto che quand’egli morì – il 26 marzo 1827 – oltre ventimila persone l’accompagnarono alla tomba. A un forestiero che domandava per chi si facesse tanto lutto, una vecchietta rispose…
“Bisogna che lei venga ben da lontano, altrimenti saprebbe che è morto il generale dei musicanti”.
Morto, ma non silenzioso. Sulle pagine dei “Quartetti” e della “Nona Sinfonia” il giovane Wagner imparava i prodigi della musica nuova. E da lì a Mahler, a Bartok, a Schoenberg, il filo è ininterrotto. Per questo ci riesce arduo, come dicevo allo inizio, situare Beethoven a due secoli di distanza: perché abbiamo percorso soltanto una piccola parte della strada verso la libertà spirituale che la sua opera indica.
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