GIUSEPPE MAZZINI – La Giovine Italia

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 MAZZINI E L’UNITÀ D’ITALIA

Alessandro Herzen, esule politico russo, che, viaggiando attraverso l’Europa, ebbe occasione di conoscere e acutamente giudicate quasi tutti i capi rivoluzionari della prima metà del secolo XIX, nel fare un paragone fra Garibaldi e Mazzini, così scrisse di quest’ultimo:
* Al pari di un monaco medioevale, Mazzini conosceva a fondo un solo lato della vita, gli altri se li inventava; aveva vissuto molto col pensiero e con la passione, ma non alla luce del giorno; dalla giovinezza fino ai capelli bianchi era vissuto in mezzo alle giunte dei Carbonari, in una cerchia di repubblicani perseguitati, di scrittori liberali… ma egli non aveva mai avuto contatti col popolo, con questo “solo interprete della legge divina”, con questa densa massa che arriva fino al suolo, cioè fino ai campi e all’aratro, fino ai selvaggi pastori calabresi, ai facchini, ai barcaioli.

Quasi nel medesimo periodo di tempo, Karl Marx, scrivendo ad un amico, diceva:
* Il signor Mazzini conosce solo le città, con la loro nobiltà liberale e con i loro borghesi illuminati.
Il giudizio dei due grandi rivoluzionari sul Mazzini, pur avendo il torto di aver considerato solo un aspetto della sua personalità, fu, senza dubbio, complessivamente giusto . L’azione mazziniana ebbe dei limiti e non poteva non averne. Giuseppe Mazzini, infatti, appartenne alla borghesia intellettuale italiana di quel tempo e più d’ogni altro la rappresentò e la guidò nella sua lotta politica, esaltandone con la sua opera gli ideali, ma senza riuscire a superare i confini con le classi popolari.
Dal crollo dell’impero napoleonico alla insurrezione emiliana del 1831, le protagoniste del Risorgimento furono le società segrete, dirette dai superstiti della Rivoluzione francese. Quando, però, questa fase del Risorgimento si esaurì fu la giovane borghesia intellettuale italiana che si pose decisamente all’avanguardia del movimento nazionale; Mazzini divenne I’esponente più importante e il portaparola della causa italiana. Ma troppo legato ai concetti della sua classe, pur parlando sempre di popolo, in realtà ignorò il vero popolo e, rivoluzionario sul piano politico, fu conservatore sul piano sociale.
Cosicchè Marx, nel 1853, potè scrivere di lui:
* Tutti sanno che Mazzini, con tutte le sue cospirazioni ed insurrezioni, è un sostenitore dell’ordine sociale costituito.
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La gioventù di Mazzini

Giuseppe Mazzini all’età di sette anni
Dipinto nella casa Mazzini a Genova 
Mazzini nacque a Genova il 22 giugno 1805. Il padre, medico e insegnante universitario, e più ancora la madre, Maria Drago, donna di alti sentimenti, gli ispirarono fin dall’infanzia idee di libertà e di democrazia, accresciute dai racconti che udiva in casa sulla Rivoluzione francese e dalla lettura dei classici greci e latini.
Il giovanetto aveva 9 anni quando, nel 1814, l’impero napoleonico crollò e Genova, alla quale era stato solennemente promesso il ritorno all’indipendenza, fu invece aggregata al Regno di Sardegna, perchè, come dissero i capi della Santa Alleanza, le repubbliche non erano più di moda.

Questo mercato della loro libertà imitò fortemente i Genovesi, a qualsiasi classe sociale appartenessero e favorì l’estendersi di una opinione repubblicana, avversa ai Savoia.

Maria Mazzini Drago, madre di Giuseppe Mazzini 
Si può essere certi che il giovane Mazzini fu molto influenzato da questa opinione anti-monarchica, particolarmente viva nel ceto studentesco. Egli fu poi molto impressionato, qualche anno dopo, dallo spettacolo degli esuli del 1821. Molti di costoro, infatti, affluirono a Genova in attesa d’imbarco ed uno di essi si avvicinò proprio alla madre del Mazzini, domandando un soccorso per i proscritti d’Italia.
Quel giorno, raccontò più tardi il Mazzini, fu il primo nel quale entrò nella sua mente la piena convinzione che si doveva e si poteva tutto tentare per la libertà della patria.
Cominciò da quel momento il suo noviziato politico.
Dopo una prima poco felice esperienza alla facoltà di medicina, Mazzini si iscrisse a quella di legge. Il governo dei Savoia attuava, in quel tempo, una politica scolastica non diversa da quella dei governi borbonico e pontificio. I giovani non ottenevano l’iscrizione se non dimostravano, con un certificato, di essersi confessati e comunicati; era necessario appartenere a famiglie benestanti e vigeva una lunga lista di proibizioni: quella, ad esempio, di avere i baffi; chi se li lasciava crescere era accompagnato dal barbiere fra due carabinieri. Risultato inevitabile: irritazione e disprezzo verso il sistema ampiamente diffusi nella gioventù intellettuale.
Prima pagina di un numero dell’Indicatore Genovese
il giornale sul quale apparvero i primi scritti di Mazzini
Il Mazzini non la pensava diversamente dagli altri suoi condiscepoli , anzi, ben presto, si trovò a capo di un gruppo di giovani, tutti pervasi dallo spirito di ribellione e fra i quali facevano spicco Jacopo, Giovanni e Agostino Rufini.
Nel 1827 egli si laureò, ma più che alla giurisprudenza, per la quale aveva scarsa passione, si dedicò alla letteratura, seguito in questo dai suoi amici, con i quali formò una vera e propria società letteraria.
I suoi primi articoli apparvero sull’Indicatore Genovese, ma l’indirizzo politico del giornale non piacque alle autorità sabaude, che lo soppressero.
Nel frattempo il Mazzini era entrato in relazione col livornese F.D. Guerrazzi, che gli offrì di collaborare ad un suo giornale, l’Indicatore Livornese. Naturalmente, sebbene la censura toscana fosse assai più tollerante di quella piemontese, anche il periodico del Guerrazzi ebbe corta vita.
Porto di Genova (1830) Disegno di Willebeld Ruther

Quando, nel febbraio del 1830, la pubblicazione ne fu proibita, Mazzini, era già da qualche tempo impegnato in una attività più pericolosa e impegnativa. Egli aveva aderito alla Carboneria e lavorava alacremente per cercare nuovi proseliti.

Nel luglio scoppiò la rivoluzione a Parigi e i Carbonari genovesi si prepararono ad un prossimo moto italiano. Le riunioni divennero più frequenti ed in una di esse fu proposto  un attentato alla vita del Metternich.
Fra i presenti, oltre al Mazzini, vi era anche una spia, il cui vero nome non è ancora conosciuto e che allora si faceva chiamate, pur non avendone alcun diritto, marchese Raimondo Doria di San Colombano. Si trattava di un astuto imbroglione che aveva saputo ingannare persino i veri Doria, i quali gli passavano un sussidio come se fosse un autentico membro della famiglia.
Il Mazzini era stato iniziato alla Carboneria proprio dal Doria e non l’aveva mai avuto in simpatia. Non aveva torto, perchè un bel giorno il furfante si recò dal governatore e gli spiattellò quanto sapeva. Di conseguenza, il 13 novembre 1830, la polizia dei Savoia arrestò un folto gruppo di Carbonari e fra essi il Mazzini. Il giovane avvocato, però, riuscì a distruggere tutti i documenti che lo compromettevano.
Dopo alcuni interrogatori, durante i quali egli respinse ogni accusa , Mazzini fu condotto a Savona , e chiuso in quella fortezza. Nell’isolamento della sua cella ebbe il tempo di meditare e di elaborare nel suo pensiero le linee fondamentali di una iniziativa politica di nuovo tipo.
Intanto gli inquirenti avevano concluso che non vi erano elementi per procedere contro di lui. Ma, sospettosi, non vollero lasciarlo del tutto libero e gli diedero la scelta fra il confino in una piccola città del Piemonte o l’esilio.
Convinto di poter meglio servire la causa italiana all’estero, Mazzini preferì l’esilio e nel febbraio 1831 partì per Ginevra.
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La fondazione della Giovine Italia

Ritratto di Mazzini a 25 anni
Dopo una breve permanenza a Ginevra, il giovane ligure, avido d’azione , si recò a Lione, dove si era costituita un a Giunta liberatrice italiana, alla cui testa erano due grandi figure del patriottismo rivoluzionario italiano: Francesco Salfi e Filippo Buonarroti.
La Giunta stava organizzando un corpo di volontari per correre in aiuto agli insorti delle province emiliane.
Mazzini si unì ai volontari che affluivano dall’Italia e da altre nazioni d’Europa, ma, ad un tratto, il governo francese di Luigi Filippo, messosi sulla strada dell’aperta reazione , diede ordine che l’organizzazione italiana fosse sciolta. Ciononostante i volontari tentarono due volte di forzare il confine piemontese, ma furono respinti. Molti di essi furono poi arrestati dalla polizia francese, ma un gruppo, del quale faceva parte il Mazzini, riuscì a raggiungere Marsiglia e ad imbarcarsi per la Corsica.
Non fu difficile trovare nell’isola un buon numero di audaci pronti a combattere in Italia, ma non fu possibile trovare il denaro per organizzare la spedizione.
Quando, fortemente deluso, il Mazzini ritornò a Marsiglia, vi trovò raccolti alcuni esuli italiani, non pochi dei quali reduci dalla rivoluzione dell’Italia centrale. Vi erano Nicola Fabrizi, Celeste Menotti, Angelo Usiglio, Giuseppe Lamberti, Luigi Amedeo Melegari, Gustavo Modena, grande attore di prosa, e Giuditta Sidoli, con la quale, poi, Mazzini, ebbe rapporti di affetto.
Insieme a loro e ad altri Mazzini cominciò a realizzare il progetto, del quale aveva avuto l’idea nel carcere di Savona: rinnovare l’attività clandestina dei democratici italiani creando una nuova associazione, la Giovine Italia, con nuove idee e nuovi metodi.
Non vi era nulla di personale nelle idee del Mazzini. Il giovane patriota genovese non fece altro che esprimere le idee che già esistevano nella maggior parte dei patrioti democratici di quegli anni. Non vi fu, infatti, un sistema filosofico mazziniano, ma una serie di principi, quasi tutti originati dall’ideologia rivoluzionaria borghese, ed espressi in una moltitudine di scritti, via via che se ne presentava la necessità. Spesso tra loro in contraddizione: individualismo e associazionismo; parlamentarismo e dittatura; umanitarismo universale e nazionalismo; riformismo e violenza rivoluzionaria; libero pensiero e teocrazia. Sempre, però, tendenti a uno scopo preciso, immutabile, la rivoluzione italiana e presentati come parola d’ordine, come imperativi che dovevano imporsi alle coscienze.
Egli non sentì mai il bisogno di giustificarli con lunghi ragionamenti.
“La mia politica, affermò, non ha nulla di complesso, di misterioso, di sapiente. Non poggia che su tre o quattro principi, ma questi non mi succede mai di abbandonarli”.
I giovani intellettuali, che formarono i primi quadri della Giovine Italia, furono trascinati non tanto dal convincimento, che in loro era già formato, ma dalla spinta dei sentimenti suscitati dall’ardore poetico, mistico, quasi religioso, impresso in loro dal Mazzini, che apparve più come un profeta e un apostolo, che come il capo di un partito politico. E questa sua caratteristica non mutò mai, anche quando passarono gli anni e si trasformò la realtà.
Mazzini fu sempre l’esponente di una minoranza, sia pure eroica e pronta al sacrificio, ma non rappresentò mai, nel suo complesso, la classe rivoluzionaria italiana, Ecco perchè il mazzinianesimo, mentre seppe suscitare degli eroi, cosicché quasi sempre dalle sue file emersero i capi militari e civili del Risorgimento, fu impotente, invece, a dar vita a una vera rivoluzione. Incapace di mettersi alla testa delle masse e di guidarle, il suo compito fu solamente quello di infondere negli strati più avanzati della borghesia italiana, il senso quasi religioso della patria.
Ciò che i patrioti non perdonavano ai dirigenti del movimento carbonaro era l’opportunismo del quale avevano dato prova ricercando l’alleanza di principi e sovrani traditori e l’egoismo locale che li aveva spinti a disinteressarsi del movimento rivoluzionario che si svolgeva all’infuori dei propri confini.
Mazzini, il quale, nel novembre 1831, aveva dato inizio alla propria attività politica scrivendo una lettera a Carlo Alberto, appena assurto al trono, si rese conto che un accordo fra i rivoluzionari e i sovrani, tutti reazionari e legati all’Austria, era impossibile. Perciò decise di assumere un atteggiamento di radicale opposizione. Questo egli fece nella Istruzione generale per gli affratellati della Giovine Italia, e nei manifesti di presentazione e negli articoli della rivista Giovine Italia, che cominciò ad uscire nel marzo 1832.
 Prima pagina dello Statuto della Giovine Italia

Mazzini era convinto che l’Europa fosse alla vigilia di un grande movimento rivoluzionario e che il popolo italiano fosse maturo per parteciparvi. Alla rivoluzione gli uomini erano spinti dall’idea del progresso, idea matrice della storia, ispirata da Dio.

“La Provvidenza”, egli scriveva, “ha stabilito una legge generale di progresso e di miglioramento per le razze umane. Ha di più stabilito che ogni uomo debba giovare allo sviluppo di siffatta legge e questa costituisce la missione di ogni uomo. Alla fine di questa missione ai sarà per noi pace e felicità: più tardi o più presto secondo che noi avremo fatto più bene o meno”.
Questa era la verità che l’uomo aveva il dovere di diffondere e attuare.

“Noi siamo quaggiù per trasformare, non per contemplare il creato. Il mondo non è uno spettacolo; è un’arena di battaglia, nella quale quanti hanno a cuore il giusto, il santo, il bello devono compiere, soldati o capi, vincenti o martiri, la loro parte”.
Per portare a termine la sua missione I’uomo avrebbe sofferto.
“Ma”, proclamava Mazzini, “il sacrificio solo è santo”.
Dio e popolo, progresso, umanità, dovere e sacrificio, questi i punti fissi della morale mazziniana, che l’agitatore genovese introdusse nel programma per l’azione italiana.
Ma in qual modo era costituita l’umanità? Essa era  l’associazione delle nazioni, organismi attraverso i quali esplicava la sua attività.
La parola nazione indicava, a sua volta, l’associazione di quegli uomini, “che per lingua, per condizioni geografiche, per patrimonio di cultura e di civiltà, formano un solo gruppo, riconoscono uno stesso principio e si avviano, sotto la scorta di un diritto comune, al conseguimento di un medesimo fine. Nazionalità è la parte che Dio ha prescritto a ogni gente nel lavoro umanitario, la missione, il compito che ogni popolo deve compiere sulla terra, perchè l’idea divina possa attuarsi nel mondo”.
La rivoluzione europea, secondo le idee del Mazzini, aveva un nome, nazionalità.

Necessario, per il progresso dell’umanità, era il costituirsi dell’Italia a nazione.

“Oggi l’Italia è disunita ed oppressa. Noi non abbiamo bandiera nostra, non nome politico, non voce tra le nazioni d’Europa; non abbiamo centro comune€, nè patto comune, nè comune mercato. Siamo smembrati in 8 stati, indipendenti l’uno dall’altro, senza alleanza, senza unità d’intento, senza contatto reciproco regolare. Otto linee doganali, senza numerare gli impedimenti che spettano alla trista amministrazione interna di ogni Stato, dividono i nostri interessi materiali, inceppano il nostro progresso, ci vietano ogni incremento di manifatture, ogni vasta attività commerciale… E tutti questi Stati, fra i quali noi siamo divisi, sono governati dispoticamente, senza intervento alcuno del paese.Uno, contenente il quarto, quasi, della popolazione italiana, appartiene allo straniero, all’Austria; gli altri, per vincoli di famiglia o per coscienza di debolezza, piegano ad ogni sua volontà”.

Eppure è indubitabile che una nazione italiana esista.

“Non vi sono cinque Italie, quattro Italie, tre ltalie. Non vi è che un’Italia. Dio, che creandola sorrise sovr’essa, le assegnò per confine le due più sublimi cose ch’ei ponesse in Europa, simboli dell’eterna forza e dell’eterno moto: le Alpi e il mare. Sia tre volte maledetto da voi, e da quanti verranno dopo qui, qualunque presumesse di segnarle confini diversi”.

Compito della Giovine Italia era operare affinchè ciò che era stato destinato da Dio, e cioè la formazione della nazione italiana, si avverasse.

Perciò la Giovine Italia era unitaria, perchè senza unità non vi è veramente nazione.

“Senza unità di credenza e di patto sociale, senza unità di legislazione politica, civile, penale, senza unità di educazione e di rappresentanza non c’è nazione.

L’unità doveva essere lo scopo fondamentale del Risorgimento e doveva coronare un processo storico secolare. “L’unità fu ed è nei fati d’Italia”. Ma per costituirsi ad unità l’Italia doveva abbattere due ostacoli: il papato e la Austria. Roma non era solamente la capitale d’Italia, era anche la sede dell’istituzione papale, “sorgente d’ogni autorità arbitraria usurpata in Europa, dell’istituzione che dichiarava serva l’anima umana. La libertà di Roma era la libertà del mondo”.

Così pure la sconfitta dell’Austria avrebbe significato non solamente la libertà per l’Italia, ma anche la libertà per tutti i popoli soggetti agli Asburgo e la loro costituzione in nazioni.

La Giovine Italia era repubblicana perchè, teoricamente, “tutti gli uomini di una nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell’umanità a essere liberi, uguali e fratelli e l’istituzione repubblicana è la sola che assicuri questo avvenire, perchè la sovranità risiede essenzialmente nella nazione, sola interprete progressiva e continua della legge morale suprema”.

D’altra parte la tradizione italiana era tutta repubblicana, non monarchica.

“Repubblicane le grandi memorie, repubblicano il progresso della nazione, e la monarchia s’introdusse quando cominciava la nostra rovina e la consumò: fu serva continuamente dello straniero, nemica al popolo e all’unità nazionale”.

Ma come chiamare il popolo alla lotta? In due modi: con l’insurrezione e l’educazione.
L’insurrezione doveva essere popolare, partire da una iniziativa italiana, essere diretta da un dittatore, sia pur ‘provvisorio. Mazzini, però, come ho già detto, non aveva un concetto chiaro della parola popolo. Con essa intendeva talvolta tutti i cittadini, ricchi e poveri, e talvolta solo i poveri. A suo parere bisognava promettere a questi ultimi migliori condizioni di vita, non solamente per portarli alla lotta, ma anche per impedire che la lotta nazionale diventasse lotta di classe.
Queste furono le idee principali, direttrici, che il Mazzini e i suoi amici posero alla base della  Federazione della Giovine Italia. A capo della società fu nominata una congrega centrale, della quale Mazzini fu presidente. A sua volta la congrega centrale creò delle congreghe provinciali e queste, città per città, un ordinatore. Gli iscritti, che avrebbero dovuto essere giovani, presero il nome di federati e furono divisi in federati propagatori e in federati semplici. Ognuno, per ragioni di cautela cospirativa, prese un nome di battaglia. Mazzini, ad esempio, si fece chiamare Filippo Strozzi.
La diffusione della nuova associazione fu rapida,e ben presto si formarono congreghe in Liguria e Toscana.
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Le cospirazioni mazziniane contro i Savoia

 
Mazzini sulla via dell’esilio (illustrazione di Edoardo Matania) 

Il 27 aprile 1831 Carlo Alberto era finalmente riuscito a salire su quel trono, per avere il quale si era ignobilmente umiliato davanti al suo predecessore Carlo Felice e davanti agli onnipotenti capi dell’Austria, l’imperatore Francesco I e il ministro Metternich, scongiurandoli che lo perdonassero del breve fallo liberale del 1821. Il suo primo gesto, non appena ebbe in mano il potere, fu la stipulazione di un trattato segreto di alleanza militare con l’Austria. Per Carlo Alberto i patrioti esuli in Francia erano la canaglia italiana; quelli rimasti in patria i pidocchi. Questi ultimi li chiamava così, perchè era convinto che si annidassero dappertutto, in ogni branca dell’amministrazione pubblica. Egli stesso dirigeva le operazioni di polizia e fu egli e scoprire, fin dai primi giorni del suo regno, una innocua cospirazione , detta dei Cavalieri della libertà, ordita dall’avvocato Angelo Brofferio, che divenne poi uno dei più importanti uomini politici del Piemonte e dai fratelli Giacomo e Giovanni Durando, futuri generali.

Anche nelle mani di Carlo Alberto giunsero i primi segni del diffondersi del mazzinianesimo in Piemonte e in Liguria.  Nel luglio 1832 gli furono infatti consegnati alcuni numeri del primo fascicolo della rivista La Giovine Italia, le Istruzioni segrete, a firma di Filippo Strozzi, e una copia dei Dialoghi popolari di Gustavo Modena, scritti per divulgare nel popolo le idee del Mazzini. Queste pubblicazioni, con lettere ed altri opuscoli erano stati scoperti dalla polizia in un baule diretto alla madre di Mazzini. Sul principio il re non diede loro grande importanza, ma poi venne a sapere che congreghe mazziniane si erano formate in Liguria e in Piemonte, e che si stavano diffondendo nell’esercito. Allora si spaventò e fece spingere a fondo le indagini.
Ebbero inizio gli arresti, cominciarono le delazioni e i patrioti incriminati, condotti davanti ai tribunali militari, furono condannati a morte. Dodici di essi furono fucilati, due si uccisero.
Alla fine del giugno 1833 la cospirazione mazziniana in Liguria e Piemonte era stata scoperta e repressa. Essa sollevò allarme anche fuori del Regno di Sardegna. A Milano la polizia austriaca pubblicò una Notificazione contro la Giovine ltalia; in Toscana vennero operati molti arresti. In Francia, dove già il Mazzini fin dall’agosto 1832, colpito da decreto d’espulsione, era stato obbligato a vivere nascosto in casa del noto uomo politico Demostene Ollivier, futuro primo ministro, le misure repressive contro i mazziniani furono accentuate e nel luglio 1833 l’agitatore ligure e i suoi compagni credettero meglio abbandonare il paese e rifugiarsi a Ginevra. Quivi al Mazzini si presentò il parmense Antonio Gallenga, che gli si offrì di andare a Torino ed uccidere Carlo Alberto.
Mazzini, pieno di odio per la brutale crudeltà del sovrano sabaudo nei confronti dei patrioti repubblicani, accettò e diede al Gallenga, per eseguire la sua impresa, 1000 franchi e un pugnale. Il Gallenga si tenne i soldi, non eseguì l’attentato e propalò l’accordo col Mazzini. Fornì così un ottimo motivo di propaganda alle correnti politiche reazionarie e moderate, che accusarono il Mazzini, durante e dopo la sua vita, di essere un mandante di assassini.
Il 26 ottobre il Consiglio di guerra di Alessandria condannò a morte in contumacia il Mazzini, come “nemico della Patria e bandito di primo catalogo”.
A Ginevra Mazzini si trovò davanti a un dilemma: abbandonare il piano insurrezionale del quale la cospirazione fallita doveva essere il prologo, oppure condurre a fondo l’azione, nonostante il primo insuccesso.
Mazzini si decise per questa seconda via.
“Se noi agiamo risolutamente”, egli disse, “se cacciamo una scintilla di vivo fuoco, l’Italia è un vulcano”.
Ma alla prima delusione se ne aggiunsero altre. Il piano prevedeva una sollevazione generale a Napoli, che avrebbe dovuto estendersi alle limitrofe province dello Stato Pontificio. Gruppi di volontari provenienti dalla Corsica e da Marsiglia, avrebbero dovuto sbarcare a Livorno, mentre altre colonne, calando dalla Savoia, avevano il compito di piombare su Torino. Contemporaneamente i mazziniani sarebbero insorti a Genova, con l’aiuto dei marinai ammutinati della flotta militare.
Senonché nè a Napoli, nè in alcun altro luogo qualcuno si mosse. Per qualche tempo Mazzini fu dominato dallo scoraggiamento, poi si riprese e pensò di invertire l’ordine delle operazioni.
Decise di iniziare con la invasione della Savoia, certo che un successo avrebbe incoraggiato i patrioti di tutta Italia ad agire.
Per ammutinare la marina militare egli contava sull’opera del giovane Garibaldi; per la spedizione in Savoia egli si rivolse al generale Gerolamo Ramorino, che si era fatto una fama combattendo a fianco dei Polacchi. Ramorino si fece dare 40.000 franchi, andò in Francia per acquistare armi, li sperperò al gioco e quando tornò in Svizzera non aveva nè un soldo nè un fucile. Tuttavia intorno a Mazzini si erano raccolti molti volontari, italiani, polacchi, francesi e tedeschi. Perciò un consiglio di guerra decise di iniziare egualmente l’impresa, pur sapendo che le molte spie avevano informato i governi di quanto si stava preparando.
Al 1° di febbraio 1834 le varie bande si posero in moto. Ma una, prima ancora di entrare nel territorio dei Savoia, fu fatta prigioniera e disarmata dai gendarmi svizzeri.
La principale, col Ramorino e il Mazzini; penetrò in Savoia, occupò il paesetto di Annemasse, poi indugiò e alla fine si sbandò, quando i volontari si accorsero che il Ramorino non aveva alcuna intenzione di proseguire sul serio fino in fondo. Mazzini, in preda alla disperazione e  alla febbre fu ricondotto in territorio svizzero.
Una terza colonna ebbe uno scontro a Les Echelles coi carabinieri e ne uccise uno, G. B. Scapaccino, al quale fu assegnata la prima medaglia d’oro dell’esercito italiano. Sopraggiunto
un reparto piemontese i volontari furono dispersi e due di essi, Angelo Volonteri e Giuseppe Borel furono fucilati.
Anche a Genova la progettata rivolta fallì prima ancora di essere iniziata.
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Il pensiero mazziniano domina il movimento insurrezionale italiano

 
Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna dal 27 aprile 1831
L’Austria e il Regno di Sardegna, strettamente alleati, domandarono alla Svizzera l’immediata espulsione dei mazziniani; il governo federale si rivolse a quello del Cantone di Berna, dove Mazzini e i suoi amici avevano preso dimora, Ma il Gran Consiglio del Cantone di Berna, con 108 voti contro 16 decretò che nessuna potenza estera aveva il diritto d’immischiarsi nel modo come il Cantone di Berna applicasse il diritto d’asilo.
Mazzini poté quindi rimanere ancora a Berna e quivi, proseguendo con grande forza d’animo la sua opera, costituire il Comitato della Giovine Europa, allo scopo di coordinare le forze rivoluzionarie delle nazioni europee.
L’atto di fratellanza fu firmato il 15 aprile 1834 da 17 profughi italiani, polacchi e tedeschi. L’organizzazione della Giovine Europa proseguì con fervore e il 31 maggio 1835 vi fu un’assemblea generale dei suoi aderenti.
Ma nel frattempo anche il Cantone di Berna dovette cedere alle pressioni degli elementi conservatori e un anno dopo, Mazzini, i fratelli Ruffini e altri mazziniani furono arrestati e, dopo alcune traversie, allontanati dalla Svizzera.
Traversarono la Francia scortati dalla polizia e nel gennaio 1837 trovarono definitiva residenza a Londra.
I primi tempi nell’immensa metropoli inglese, nebbiosa e inospitale, furono per gli esuli estremamente duri. Poveri sino al punto di soffrire la fame, indebitati, in disaccordo fra loro, essi disperavano ormai dell’avvenire. I Ruffini, poi, si allontanarono e Mazzini rimase solo.
“Miserie materiali e noie d’ogni genere e privazioni sono un sorriso per me€, appetto alla morale. Sento ogni dì più l’arido, il deserto, la solitudine. Dall’esterno non mi viene sensazione alcuna; perch’io non ho vissuto mai che d’interno e i colori della natura io li traeva da me.

Qui guardo il cielo, la luna, la terra come cose morte; libro chiuso. Soli non si può vivere ed io non ho persona che voglia udire do sensazioni mie. Quando torno a casa dalla biblioteca, mi par di entrare in casa non mia, in camera non mia. Mi par desolata, vuota, come se fosse sepolcro. Il mio vivere è una continua lotta, un’alternativa continua tra una decisione che s’impadronisce di me e che, a certi momenti, senza cagione immediata alcuna, mi mette voglia di piangere e di far ragazzate e una tensione d’animo che cerco con ogni mia possa, dalle mie credenze di dovere, di vita, di missione, di rinnegamento dell’io. In questa lotta che subisco muto e immobile, io ho potuto almeno, convincermi che la mia fede è forte in me, radicata nell’anima e che morrò in quella”.

Questo scriveva il Mazzini all’amico Amedeo Melegari nell’ottobre 1837. Nonostante tutto la sua fede era ancora salda. A poco a poco egli usciva dallo scoraggiamento e dalla inerzia. Si abituò all’ambiente inglese e si fece degli amici nella società intellettuale e liberale.
Aiutato da essi potè dedicarsi all’attività letteraria, pubblicando molti saggi ed articoli che Io rimisero in sesto finanziariamente.
Tornò ad occuparsi di politica. La Giovine Italia non esisteva quasi più; i membri ne erano sbandati, molti patrioti l’avversavano apertamente.
Il 30 aprile 1840 Mazzini diffuse una circolare per annunciare che la Giovine Italia aveva ricominciato il suo lavoro di associazione. Rapidamente la ripresa di attività diede i suoi frutti e ovunque si riformarono, in Italia e fra gli esuli fuori d’Italia gruppi mazziniani. Mazzini cercò inoltre di allargare la base sociale del movimento facendo appello agli operai.

La crisi di scoraggiamento, la “tempesta del dubbio”, che aveva travagliato Mazzini nell’ultimo periodo degli anni trenta, era nata dalla convinzione che non esistesse nel popolo italiano spirito rivoluzionario. Non era così. In realtà, nonostante le ripetute sconfitte, esisteva in tutta la penisola, ma soprattutto nella borghesia meridionale e in quella dello Stato pontificio, un forte sentimento di malcontento e di ribellione, che ogni tanto dava luogo ad esplosioni.

L’8 settembre 1841 in Aquila, i componenti di una società clandestina, intitolata Riforma della Giovine Italia, insorsero, uccisero il comandante militare della piazza ed ebbero un violento conflitto con la guarnigione della città. Sconfitti, si dispersero. Tre di essi furono fucilati.
 Attilio  e Emilio, i fratelli  Bandiera
Anche di ispirazione mazziniana fu l’opera del modenese Nicola Fabrizi, compagno di Ciro Menotti nel 1831 ed amico del Mazzini. Il Fabrizi si fece promotore di una nuova associazione, La legione italica, che doveva essere il braccio armato della Giovine Italia e il cui scopo era quello di fomentare l’azione di bande armate, specialmente in Emilia e nella Romagna.
Nell’agosto del 1843 ebbe luogo il moto di Savigno, in Emilia, e il tentativo di colpo di mano su Imola, ambedue falliti. Per questi episodi furono fucilati sette patrioti. Altri furono condannati a morte per singoli attentati a militari pontifici. Ma la spietata repressione non mise fine al fermento rivoluzionario.
Il 23 settembre 1845 gli insorti si impadronirono di Rimini. Uno dei cospiratori, Luigi Carlo Farini, scrisse un Manifesto delle popolazioni dello Stato romano ai principi e ai popoli d’Europa.
Anche gli insorti di Rimini dovettero, poi, sbandarsi e rifugiarsi nel territorio toscano.
Frattanto l’organizzazione mazziniana, spinta dall’attività intensa dell’apostolo ligure, che dedicava tutta la sua vita a quest’opera, cresceva di giorno in giorno. A Parigi, a New York, a Montevideo e altrove sorgevano congreghe mazziniane e Mazzini appariva ormai come il capo spirituale del movimento nazionale italiano.
La sua fama era anche accresciuta dalla ricerca affannosa che ne facevano le polizie. A lui si rivolse, nel novembre 1843, l’ufficiale di marina austriaco Attilio Bandiera, il quale, col fratello Emilio, aveva fondato una nuova società segreta intitolata Esperia. I due inviarono al Mazzini il collega ed amico Domenico Moro, il quale aveva l’incarico di illustrare al capo della Giovine Italia i progetti rivoluzionari dell’Esperia. Fu deciso che quest’ultima sarebbe stata una sezione della prima e che Mazzini ne sarebbe stato il dittatore.
Purtroppo fu proprio Mazzini, senza volerlo, una delle cause del doloroso insuccesso della spedizione dei fratelli Bandiera. Il ministro inglese degli interni, infatti, diede ordine che fossero aperte le lettere dell’esule ligure e del contenuto dava informazioni al governo austriaco. Il Mazzini poi, indirizzò ad Attilio un certo Tito Vespasiano Micciarelli, presentandolo come un patriota, mentre invece era una spia del papa.
Alta e nobile figura di combattente per la libertà, al contrario, quella di Nicola Ricciotti, dal Mazzini incaricato di mettersi alla testa dei più giovani e meno esperti cospiratori.
Ma era un animo generoso e si lasciò trascinare dall’ardore dei Bandiera. Cadde con essi e con sei altri giovani eroi nel vallone di Rovito.
“Sono pieno di dolore per la morte dei Bandiera e dei loro compagni”, scriveva il Mazzini alla madre. “Dolore non per la causa, che la perdita di pochi individui non può far retrocedere; ma per gli individui stessi che erano delle migliori anime che io abbia incontrato negli ultimi dieci anni”.
Incontrati spiritualmente, perchè personalmente i Bandiera e Mazzini non si incontrarono mai. “In poche pagine che io consacrerò alla loro memoria dirò fin dove io li conosceva; ma certo è che erano giovani rari. Bensì, l’ardore in essi era soverchio; e la spedizione in venti fu fatta da loro a dispetto, non solamente di me, ma dei nostri amici in Malta e Corfù”.

Maturava, intanto, in tutta Europa, quel grande moto rivoluzionario che il Mazzini preannunciava dall’inizio della sua carriera politica, ma delle cui profonde cause sociali e classiste non si rendeva perfettamente conto. Probabilmente anch’egli fu sorpreso dell’immenso entusiasmo che suscitò in tutta Italia la convinzione, che si rivelò poi errata, che fosse salito al trono pontificio un papa patriota e liberale. In realtà egli non credeva che Pio IX potesse risolvere la questione italiana, anzi temeva che alle sue spalle si facesse forte il moderatismo ed avanzasse il federalismo.
Il Mazzini pensava sempre che la soluzione del problema nazionale dovesse essere unitaria e repubblicana e dovesse nascere da una iniziativa di quello che egli chiamava popolo, cioè da una iniziativa della borghesia rivoluzionaria. Ma ci voleva un capo militare e per questo aveva messo gli occhi su Giuseppe Garibaldi, divenuto celebre dopo le sue campagne nell’America meridionale.
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Mazzini e Pio IX

 

Giovanni Maria Mastai Ferretti – Pio IX
L’8 settembre 1847, il Mazzini così come aveva fatto con Carlo Alberto, scrisse da Londra una lettera a Pio IX, forse allo scopo di far decantare il generale entusiasmo per il pontefice e di inserirsi nelle vicende politiche italiane di quegli anni.
Il Mazzini cominciò con l’affermare come egli non fosse quel pericoloso estremista quale la voce pubblica lo faceva apparire…”Io son sono sovvertitore, nè comunista, nè uomo di sangue, nè odiatore, nè intollerante, nè adoratore di un sistema o d’una torma immaginata dalla mente mia. Adoro Dio e un’idea che mi par di Dio: l’Italia una, angiolo di unità morale e di civiltà progressiva alle nazioni d’Europa. Qui e dappertutto ho scritto, come meglio ho saputo, contro i vizi di materialismo, d’egoismo e di reazione e contro le tendenze distruggitrici che contaminano molti del nostro partito”.
Dopo aver manifestato i principi fondamentali della sua fede, il Mazzini ripeteva che Roma per due volte aveva diretto il mondo: con gli imperatori e coi pontefici. Ogni manifestazione di vita italiana era stata manifestazione europea e sempre, quando cadde l’Italia, I’unità morale europea si era smembrata. Egli credeva che un altro mondo europeo dovesse nascere dalla città eterna, che aveva avuto il Campidoglio e aveva il Vaticano.
Questa era la sua convinzione ed egli si rivolgeva al papa, “come a Dio, al di là del sepolcro”. L’Europa era in una crisi tremenda di dubbi e di desideri; la fede era morta, il cattolicesimo perduto nel dispotismo, il protestantesimo nell’anarchia.
Ma l’umanità non poteva vivere senza la religione; essa l’avrebbe avuta, ma non più nei re e nelle classi privilegiate, ma nel popolo.
Pio IX  poteva affrettare quel momento mettendosi a capo del futuro sviluppo religioso. Egli, Mazzini, lo chiamava a questa missione , ma per compierla lo avvertiva che erano necessarie due cose: “essere credente e unificare l’Italia”.
La lettera esortava Pio IX a essere credente, ad aborrire di essere re, uomo di Stato, e ad operare per l’unificazione italiana.
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Il Quarantotto e il Quarantanove

 

Cinque Giornate di Milano – Cacciata degli Austriaci 22 Marzo 1848
Naturalmente nessuno rispose alla bizzarra lettera del Mazzini, della quale il meno che si possa dire è che era completamente al di fuori della realtà.
Frattanto era venuto il 1848 e la rivoluzione europea divampò. Cominciò la ribellione di Palermo, la quale, mettendo in moto tutto il partito liberale dell’Italia meridionale, obbligò il re Ferdinando II a concedere la costituzione. Seguirono, sulla strada delle riforme e della costituzione, premuti dal movimento ormai inarrestabile della borghesia liberale e dei gruppi più avanzati del proletariato, il granducato di Toscana, il re di Sardegna e lo stesso pontefice Pio IX.
Frattanto, nel febbraio la rivoluzione era scoppiata a Parigi , la monarchia era stata abbattuta e la seconda repubblica proclamata. Rapidamente la fiamma rivoluzionaria si diffuse in Europa; insorsero i Tedeschi, gli Ungheresi e gli Austriaci. Da Vienna venne la notizia della fuga del Metternich. Fu allora la volta dell’Italia, il cui moto culminò nelle Cinque Giornate di Milano e nella sconfitta dell’esercito del Radetzki.
Subito dopo ebbe inizio la prima guerra d’indipendenza.
Fin dal 5 marzo Mazzini, lasciata Londra e portatosi a Parigi, aveva fondato l’Associazione nazionale italiana, con lo scopo di raggruppare i fuorusciti italiani intorno a un programma di indipendenza e di unità. Di repubblica non si parlava. Da Parigi il Mazzini andò a Genova e quindi ricevette l’offerta di collaborare con la monarchia sabauda. Non rifiutò, dimostrando che in quel momento la sua intransigenza repubblicana non era assoluta, ma richiese una dichiarazione unitaria, che non fu data.
L’8 aprile, accolto da manifestazioni popolari, giunse a Milano e si accinse alla pubblicazione del giornale L’Italia del popolo.
Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari e gli altri repubblicani, che avevano guidato la rivoluzione popolare delle Cinque Giornate, gli denunciarono le manovre compiute da Carlo Alberto, con la complicità del Governo provvisorio lombardo, onde ottenere, nonostante i patti convenuti, l’immediata annessione della Lombardia al regno di Sardegna. Mazzini rifiutò la proposta del Cattaneo di operare un colpo di stato contro il Governo provvisorio, invocando l’intervento francese.
Egli non voleva, infatti, che scoppiasse la guerra civile alle spalle dell’esercito combattente.
Protestò, però, dalle colonne del suo giornale, quando l’annessione avvenne, giudicandola un gesto che avrebbe infranto quel poco di concordia nazionale che ancora rimaneva.
Scontro di Rivoli.jpg
Battaglia di Custoza 
Quando, dopo la sconfitta di Custoza e il tradimento di Carlo Alberto a Milano, gli Austriaci si presentarono minacciosi davanti alla capitale lombarda, Mazzini lasciò la città per tornare in Svizzera. A Monza si incontrò con la colonna di Garibaldi, che intendeva fare la guerra partigiana contro l’Austria e per un po’ la seguì come portabandiera. Ma, debole e malato, non era in condizioni da poter sopportare le dure fatiche di una simile impresa. Perciò, appena potè farlo, attraversò il confine svizzero. Purtroppo il suo esempio servì di pretesto a molti volontari, meno tenaci e meno coraggiosi, per disertare e ciò diminuì l’efficienza già ridotta delle forze garibaldine.
In Svizzera Mazzini riprese instancabilmente la trama del suo lavoro cospirativo. Seguì con attenzione le vicende italiane, mantenendo il collegamento coi repubblicani francesi, ai quali dichiarò che in Italia la guerra dei re era finita e cominciava la guerra dei popoli. Cercò anche di suscitare un moto nell’Alta Lombardia, che fallì. Anche le speranze nella Francia fallirono, quando il potere cadde nelle mani di Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III.
Mazzini scrisse una lettera a Gerolamo Buonaparte, affinchè convincesse il cugino presidente a rimaner repubblicano.

Ogni tanto subiva delle crisi di sfiducia e gli veniva da pensare che il popolo italiano, corrotto dal gesuitismo e dal machiavellismo, fosse inferiore alla sua missione…

“Io non credo che la provvidenza abbia mai detto così chiaramente ad una nazione: tu non avrai altro Dio che Dio, nè altro interprete della sua legge che il popolo. E non credo che sia al mondo gente più ostinata della nostra a non vedere nè intendere. La provvidenza ha fatto dei nostri principi una razza di inetti e di traditori e noi vogliamo andare innanzi a rigenerarci con essi. La provvidenza, quasi a insegnarci guerra di popolo, ha fatto sconfiggere un re in una impresa già quasi vinta e noi non vogliamo far guerra se non con quel re. La provvidenza ha fatto del Borbone di Napoli un commento vivo dei ricordi di Samuele agli Israeliti che chiedevano un re e la Sicilia, liberata di quello, bussa alle porte delle sale regie in cerca di un altro. La provvidenza fa di un papa un fuggiasco spontaneo, vi toglie, come una madre al bambino ogni ostacolo e voi, ingrati, rimanete in forse…”.

La lettera, del 5 dicembre 1848 , era diretta al patriota romano Michelangelo Accursi e incitava i Romani ad agire, a dar vita alla repubblica.
In un’altra lettera dichiarava di meditare la fondazione di un grande partito nazionale, di un partito dell’azione.
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La Repubblica Romana

 
Giuseppe Montanelli
Senza dubbio la continua, persistente, appassionata propaganda mazziniana costituiva uno dei più importanti elementi di spinta del movimento nazionale. Nell’ottobre presero il potere in Toscana Francesco Domenico Guerrazzi, che aveva avviato Mazzini alla carriera politica, e Giuseppe Montanelli. Essi lanciarono l’idea di una Assemblea costituente nazionale, da riunirsi in Roma. Il granduca Leopoldo credette bene di andarsene e venne sostituito dal triumvirato Guerrazzi, Montanelli e Giuseppe Mazzoni.
Subito il Mazzini si recò in Toscana e propose l’immediata unione di questa regione con Roma e la proclamazione della repubblica. Non fu ascoltato.
Nel frattempo, dopo la fuga di Pio IX da Roma, era stata eletta e si era radunata nella città eterna la Costituente dello Stato romano. Essa, il 9 febbraio 1849, approvò un decreto che sanzionava la decadenza del potere temporale e la costituzione della Repubblica romana. Fu anche approvata all’unanimità la proposta di conferire a Mazzini la cittadinanza romana e di invitarlo a Roma.
Francesco Domenico Guerrazzi (vedi qui file originale)
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Mazzini giunse a Roma il 5 marzo e il giorno dopo si presentò all’Assemblea, a far parte della quale era stato eletto con voto suppletivo.
Calorosamente e affettuosamente salutato dagli applausi dei deputati, il Mazzini denunciò i pericoli che correva la libertà italiana e incitò l’assemblea a nominare una Commissione di guerra, che fu infatti costituita il 18 marzo e della quale faceva parte Carlo Pisacane.
Quando giunse notizia che le ostilità fra il Piemonte e l’Austria stavano per ricominciare, il comitato esecutivo, spinto dal Mazzini decise di mandare un corpo di spedizione sul Po. Ma la fulminea sconfitta di Novara, mandò all’aria il progetto.
L’Assemblea, in previsione di un assalto reazionario alla Repubblica, decise di rafforzare il potere esecutivo e nominò un triumvirato, composto da Mazzini, Saffi e Armellini, con poteri illimitati per la guerra dell’indipendenza e la salvezza della Repubblica.

Arbitro del potere in Roma, Mazzini svolse un’opera assidua ed efficace per dare una prima organizzazione al nuovo Stato e per superare le gravissime difficoltà economiche, finanziarie ed amministrative che ne minacciavano l’esistenza.

Giuseppe Mazzoni

Per migliorare le condizioni del popolo, il Triumvirato decise, il 15 aprile, che una grande quantità dei beni rustici, provenienti dalle corporazioni religiose e dalle manimorte, dovevano essere assegnati alle famiglie del popolo sfornite di mezzi, affinchè li coltivassero.
Il 27 questo decreto fu completato da una serie di norme precise per Ia divisione della terra secondo il numero dei componenti delle varie famiglie. Provvedimenti di questo genere, i più avanzati ai quali potesse giungere la borghesia italiana e che riportavano alla memoria le famose leggi dei robespierristi, guadagnarono alla Repubblica la simpatia delle masse rurali, che non fornirono uomini alla reazione. Misero, invece, in sospetto i ceti abbienti.
Un giornale liberale La speranza dell’epoca, scrisse: “Ciò potrebbe dar pretesto all’irruzione del comunismo e del socialismo tra noi”.
Ai liberali moderati fece eco l’inferocito Pio IX da Gaeta. Egli affermò che Roma, “fatta una selva di belve furenti, riboccava di uomini di ogni nazione, i quali, o apostoli o eretici o maestri di comunismo e di socialismo e animati da tutto l’odio contro la cattolica verità, si sforzano d’insegnare e diffondere ogni sorta di pestiferi errori”.
Per sterminarli il papa invocava l’aiuto delle potenze cattoliche, dell’Austria, della Francia, delle Due Sicilie e della Spagna.

 Nicolas Charles Victor Oudinot
Per farsi amico il potente partito clericale francese e per impedire che la restaurazione del papato fosse merito esclusivo dell’Austria, il presidente Luigi Napoleone mandò contro la Repubblica romana un corpo di spedizione comandato dal generale Nicolas Charles Victor Oudinot.
Il piccolo esercito romano, del quale il Mazzini aveva avuto il torto di dare il comando al poco efficiente generale Pietro Roselli, il 30 aprile affrontò le agguerrite truppe francesi e le ricacciò. Garibaldi, principale artefice della vittoria, avrebbe voluto inseguire i Francesi e obbligarli a riprendere il mare. Mazzini non volle, perchè sperava in una riscossa delle correnti politiche di sinistra in Francia, riscossa che fu tentata e soffocata con la forza.

Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi – Il Triumvirato romano

Così pure il Mazzini si lasciò invischiare in una lunga serie di trattative con Ferdinando di Lesseps, rappresentante in buona fede della Francia, mentre nel frattempo Luigi Napoleone triplicava le forze del corpo di spedizione. Ciò permise all’Oudinot di assalire all’improvviso con grande superiorità di uomini e di mezzi, i difensori di Roma e di averne ragione dopo una serie di epici combattimenti, durati per tutto il mese di giugno 1849.
Mazzini, Pisacane e Garibaldi avrebbero voluto uscire da Roma con l’esercito e continuare la guerra nelle campagne€, ma l’assemblea preferì cessare una resistenza divenuta impossibile. Garibaldi iniziò la sua leggendaria ritirata. Mazzini rimase indisturbato a Roma fin verso la metà di luglio poi fece ritorno in Svizzera.

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Dalla caduta di Roma alla II Guerra d’indipendenza

 
 Giuditta Sidoli, donna di alti sentimenti patriottici, amata da Mazzini
Prima di lasciare definitivamente Roma , Mazzini affidò ad alcuni giovani l’incarico di costituire l’Associazione nazionale italiana, nuovo organismo cospirativo, destinato a continuare la lotta nella penisola. L’anno dopo, a Londra, creò il Comitato nazionale italiano, col compito di coordinare e dirigere tre iniziative rivoluzionarie in Italia e, poco dopo, il Comité central démocratique européen, per legare fra loro le democrazie rivoluzionarie europee.
In questo comitato Mazzini rappresentava l’Italia, Ledru-Rollin la Francia e Luigi Kossuth l’Ungheria.

I membri più notevoli del comitato italiano erano Aurelio Saffi, Aurelio Saliceti, Mattia Montecchi e Giuseppe Sirtori.

Per finanziare nuove imprese rivoluzionarie il Comitato nazionale italiano lanciò un Prestito nazionale per la causa italiana, che avrebbe dovuto fruttare 10 milioni.
Comitati d’ispirazione mazziniana si formarono in tutta Italia, e specialmente nel Lombardo-Veneto, nonostante la spietata repressione austriaca. Bastava essere trovato con una cartella del prestito mazziniano o con un manifestino, per essere condotto a morte. E purtroppo l’opera della bene organizzata polizia austriaca, aiutata dalle spie e dagli agenti provocatori, diede ben presto i suoi tristi frutti.
Caddero nelle sue mani e pagarono con la vita Luigi Dottesio, Amatore Sciesa, i martiri di Belfiore.

Belfiore, Mantova – Monumento ai martiri

Nel 1853 avvenne l’insurrezione operaia di Milano, non promossa dal Mazzini, ma alla quale egli collaborò. Esito infelice ebbero pure tutti i tentativi che più o meno esattamente furono attribuiti all’iniziativa mazziniana, da quello di Pier Fortunato Calvi a quello di Carlo Pisacane.

Questi insuccessi generarono la convinzione in molti protagonisti del Risorgimento, che la linea politica e i metodi mazziniani avessero fatto il loro tempo. Essi pensavano che la base sociale sulla quale si appoggiava l’azione mazziniana fosse troppo limitata e le sue concezioni non basate sulla realtà.
Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Filippo De Boni e altri giunsero alla conclusione che la rivoluzione sociale doveva precedere in Italia la guerra per l’indipendenza, perchè il vero nemico non era l’Austriaco, ma i ceti ricchi del nostro paese. Bisognava perciò introdurre nel programma nazionale italiano i principi socialisti.
Il contrasto col Mazzini, che accusava gli avversari di materialismo diventò più acuto di giorno in giorno, fino alla rottura.
In realtà i propugnatori del socialismo erravano come e più del Mazzini. Essi precorrevano i tempi considerando il proletariato come classe rivoluzionaria.
Nonostante i suoi egoismi, i suoi ripiegamenti, la sua servilità verso le potenze straniere, la classe rivoluzionaria in Italia in quel periodo era la borghesia abbiente e tutto ciò che era contro gli interessi della borghesia , era, in ultima analisi, controrivoluzionario.
Altri mazziniani, invece, come Daniele Manin e Giorgio Pallavicino si convinsero che per il trionfo della causa nazionale era necessario che le correnti rivoluzionarie, sfornite di un’ampia base sociale e di una organizzazione efficiente, si radunassero intorno ad un solido nucleo statale e militare in maniera da potere, insieme, far forza contro lo straniero. Essi pensavano che questo nucleo fosse il regno di Sardegna, che aveva mantenuto la costituzione ed era dominato dalla borghesia liberale d’ogni regione d’Italia. Crearono, perciò, la Società nazionale italiana, che si pose come scopo l’alleanza fra la dinastia dei Savoia e le forze popolari, ponendo alla prima l’esigenza di agire per l’indipendenza e l’unità del paese.
Alla Società nazionale aderì anche Garibaldi. Mazzini cercò di parare il colpo proponendo la bandiera neutra, cioè che si liberasse l’Italia, senza imporre preventivamente alle popolazioni la monarchia o la repubblica.
Ma evidentemente i Savoia non avrebbero accettato una simile condizione.
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Gli ultimi anni

Giuseppe Garibaldi

Quando scoppiò la guerra del 1859, Mazzini, accentuando la propria intransigenza, fu nettamente contrario all’alleanza con Napoleone III e all’iniziativa regia. Fu invece merito suo la preparazione dell’ambiente siciliano alla spedizione dei Mille, pur disapprovando la parola d’ordine: Italia e Vittorio Emanuele.
Quando si delineò la vittoria garibaldina, si recò a Napoli, e cercò di influenzare Garibaldi in senso repubblicano. Ma i suoi consigli si urtavano con la realtà e il dittatore non potè seguirli. Fondò a Napoli l’Associazione nazionale unitaria e pubblicò molti articoli sui giornali L’Unità italiana,  L’Iride  e  Pensiero e azione.
L’anno dopo, a Genova, fondò una Società democratica unitaria, col programma di sottrarre l’Italia alla egemonia napoleonica e sospingerla alla liberazione di Roma e Venezia. Le associazioni unitarie mazziniane e i comitati di provvedimento garibaldini si unirono poi in un grande organismo, che prese il nome di Società emancipatrice italiana.
Per la liberazione di Roma e di Venezia Mazzini intervenne in molte trame cospirative e non esitò neppure ad entrare in rapporti col re d’Italia, che voleva creare moti insurrezionali nelle province orientali dell’Austria.
Con Garibaldi ebbe periodi di accordo, come nel 1864, quando lo incontrò a Londra, e periodi di acerbi contrasti.
Agì con energia per la liberazione di Roma, ma Garibaldi lo accusò di essere uno dei responsabili della sconfitta di Mentana.
Nel 1866 fondò l’Alleanza repubblicana universale e tre anni dopo, con l’aiuto di elementi garibaldini, suscitò in Italia un moto repubblicano che fallì.
Per qualche tempo fu prigioniero nella fortezza di Gaeta. Quando uscì, cercò di riprendere l’attività politica, ma ormai inguaribilmente malato, cercò ristoro a Pisa, sotto falso nome, e quivi morì il 10 marzo 1872.

Monumento a Mazzini – Central Park di New York (Giovanni Turini)