GIUSEPPE MAZZINI E IL SOCIALISMO

Giuseppe Mazzini 

MAZZINI E LA CLASSE OPERAIA

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Nonostante i limiti ideali (avversione al socialismo) e la fondamentale contraddizione della sua concezione (riscatto dei lavoratori senza lotta di classe), deve riconoscersi a Giuseppe Mazzini il merito d’aver visto per il primo nella classe operaia una forza rivoluzionaria da impiegare nella lotta per l’indipendenza e l’unità italiane e, quindi, da organizzare; bisogna vedere in lui l’iniziatore di un vero e proprio moderno movimento operaio, svincolato dalla mentalità paternalistica e dai metodi del vecchio Mutuo Soccorso.

Da ricordare è il suo pur breve periodo di collaborazione con Filippo Buonarroti, allorché, dopo la repressione dei moti del 1831, esule in Francia, fu attratto dalla veneranda figura del vecchio cospiratore; e questi concepì alta stima per il giovane patriota genovese, a cui, in quel periodo, e cioè nel secondo semestre del 1831 (l’accordo fra la Giovine Italia e i Veri Italiani fu stipulato nel settembre del 1832), non furono estranee ispirazioni buonarrotiane, come è stato autorevolmente ritenuto.
L’iniziale cordialità dei rapporti fra Mazzini e Buonarroti era favorita dal fatto che non solo non si era ancora profilato nessun sostanziale contrasto ideologico fra i due, ma anzi sembrava che il Mazzini avesse fatto proprie non poche delle idee sociali e politiche care al Buonarroti.
A chi legge attentamente i primi scritti e le prime lettere del Mazzini dopo il suo arrivo in Francia, apparirà chiaro che accanto a suggestioni di natura sansimoniana, agivano su di lui ispirazioni che potremmo dire buonarrotiane, o comunque tratte da quelle correnti democratiche francesi che erano allora più vicine al Buonarroti, donde la coesistenza di spunti sansimoniani e di spunti quasi babuvistici nel suo pensiero di allora.
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Pagine  dello Statuto della Giovine Italia

Unione degli operai

La Giovine Italia era stata il risultato dei pensamenti di Mazzini sull’attività carbonara e cioè di quei movimenti che, anche se inizialmente vittoriosi, si erano, poi, illanguiditi e spenti perchè le masse erano rimaste indifferenti ed incerte; e la conclusione che Mazzini ne ricavava era che nessuna rivoluzione poteva essere coronata da successo se le veniva meno l’appoggio delle masse, e che quindi i capi, per non rimanere soli nell’arena dovevano trascinarsi anche le moltitudini. Posto, dunque, che la rivoluzione aveva bisogno delle moltitudini, che essa doveva farsi con il popolo e per il popolo (intendendo per popolo, sansimonianamente , “la classe più numerosa e la più povera” ) il problema fondamentale diventava l’individuazione dei mezzi adatti a sommuovere, a suscitare le masse. I rivoluzionari, pertanto, avrebbero dovuto  “scendere nelle viscere della questione sociale”, parlare alle moltitudini “una parola di diritto, di rigenerazione, di miglioramento civile e materiale”, gettare fra di loro il grido di libertà e di eguaglianza, fare apostolato di repubblica, vale a dire del governo poggiante sulla sovranità della nazione, in cui tutti gli interessi erano rappresentati a seconda della loro “potenza numerica” e la legge rinnegava il “privilegio”, in cui non esistevano classi o individui privi del necessario e le istituzioni erano volte principalmente “al meglio della classe più numerosa e più povera” ed a promuovere “l’associazione”.
Soltanto a queste condizioni sarebbe possibile ridestare il leone popolare, fargli comprendere che il suo principale nemico era l’Austria e guidarlo nella lotta di liberazione.
Spunti di utopismo egalitaristico si troveranno, pochi anni dopo, nella costituzione della Giovine Europa (15 aprile 1834) – eguaglianza e fratellanza non solo dei singoli uomini ma ancora dei popoli – e negli scritti di Mazzini di questi anni. E’ in quelli dal 1831 al 1836 che egli enuncia il principio dell’associazione, un principio generale, ancor vago, che solo più tardi acquisterà concretezza come associazione del capitale, dell’intelletto, e del lavoro e finirà con l’identificarsi con la cooperazione, ossia con la partecipazione dell’operaio al risultato della produzione in proporzione della parte che egli avrà avuta nel risultato della stessa.
Anche se non esplicitamente sollecitata, la massa popolare non resterà estranea alla Giovine Italia: negli anni di maggior fervore corporativo essa avrà una vasta rete di adepti nell’Italia settentrionale e centrale e particolarmente a Milano, a Genova (portuali) e riviera, a Firenze, Empoli, Siena e perfino a Roma.
All’estero si sviluppò notevolmente fra gli operai la Giovine Germania, sezione della Giovine Europa.
Saranno queste esperienze, unitamente agli esempi dell’Associazionismo francese ed alla lezione inglese del Cartismo, che spingeranno Mazzini verso la seconda Giovine Italia.
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Manifesto con cui nell’aprile del 1840, da Londra, veniva annunciata la ripresa dell’attività della Giovine Italia
Sarà, infatti, con la fondazione dell’Apostolato Popolare (10 novembre 1840) e con la ricostituzione, in Londra, della Giovine Italia (30 aprile 1840) che Mazzini metterà in primo piano la posizione della classe operaia. Fu, allora costituita, come sezione della Giovine Italia, l’Unione degli Operai italiani.
Così si legge nella circolare che annunzia la costituzione:
“Profondamente convinto della importanza vitale del lavoro di educazione e di associazione che la GIOVINE ITALIA ha comunicato tra gli Operai Italiani e del dovere di promuoverlo con tutta la possibile attività.
Considerando che per la natura delle loro occupazioni e per la loro condizione intellettuale e materiale gli Operai Italiani costituiscono nel seno della grande associazione nazionale un elemento richiedente in oggi una direzione speciale omogenea, uniforme e su tutti i punti: che l’elemento popolare, come quello ch’è chiamato ad essere il nerbo dell’impresa Italiana e della nazione futura, esige cure più specialmente attive, assidue e concentrate all’interno: che la conoscenza degl’individui migliori, de’ modi più convenienti a difendere l’Associazione, de’ bisogni morali, intellettuali, materiali più urgenti tra gli Operai, spetta naturalmente a chi vive, lavora e ragiona con essi.
Chi dirige la GIOVINE ITALIA procedendo nell’ordinamento definitivo ha statuito quanto segue:
La università degli Operai Italiani affratellati nella Giovine Italia costituisce una Sezione della Giovine Italia, Associazione Nazionale, sotto il nome di UNIONE DEGLI OPERAI ITALIANI…
….Essa studia attentamente la condizione morale e materiale degli operai; n’esplora i bisogni ed i voti, e prepara a lavori che con tengano la indicazione de’ mali, suggeriscano rimedi d’organizzazione e di retribuzione del lavoro”.
Altra circolare (1° maggio 1841) si riferisce particolarmente alla istituzione dell’Unione:
“La congrega Centrate dell’Unione degli Operai Italiani eletta per suffragio il di’ 7 Marzo 1841 dagli Operai affratellati in Londra, e confermata dal potere dirigente la Giovine Italia con circolare del 25 Marzo 1841, si è costituita in attività di lavoro; e lo dichiara colla presente agli Operai Italiani, ed a tutti i suoi fratelli di patria…
…L’Unione degli Operai Italiani costituita in Londra il 1° Marzo 1841 forma una Sezione della Giovine Italia, associazione nazionale. Solo quindi i vedenti nella Giovine Italia possono formarne parte. I doveri, i diritti che spettano a tutti i membri dell’Unione… L’Unione degli Operai Italiani, oltre il compimento dei doveri generali spettanti a tutti i fratelli della Giovine Italia, assume una missione speciale di Apostolato Nazionale nelle classi più numerose, più povere e meno educate …
…Lo scopo che la Congrega Centrale dell’Unione si propone è triplo: 1° l’educazione nazionale, per quanto è possibile agli operai; 2° la diffusione della Giovine Italia tra gli Operai Italiani; 3° la ricerca e l’espressione dei bisogni e dei voti degli operai, e delle misure, sia provvisorie, sia definitive, che potranno soddisfare ai bisogni, e rimediare possibilmente ai gravi mali che pesano sovr’essi”.
Mazzini ha una chiara visione storica quando afferma:
“Gli schiavi si tramutarono in servi e i servi in lavoratori a salario, questi ultimi devono tramutarsi in produttori associati”, anche se in lui questa idea di associazione resta vaga, sfuggendogli l’essenza del sistema socialista. Ma al socialismo egli è assai più vicino di quanto egli stesso non sappia, allorché, denunziando “quelli ch’oggi si chiamano nostri padroni e ci vogliono schiavi”, denunzia nello stesso tempo, l’accumulazione capitalistica, quando afferma che il loro potere “non è figlio delle opere loro, è figlio di un’antica conquista, della violenza o dell’astuzia dei padri o degli avi loro, e del caso che li ha fatti nascere loro eredi” e, pur partendo da una posizione vagamente egalitaria, attiva a conclusioni assai prossime al socialismo:
“Non devono essere in terra padroni nè schiavi ma fratelli in una sola fede, associati secondo la loro vocazione nel lavoro che incombe a tutti, retribuiti secondo la difficoltà, l’importanza e il frutto dell’opera loro”
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Mazzini proclama il risveglio della classe operaia, che identifica nel generico nome di “popolo” e avverte i segni di quel risveglio in Europa:
“Il popolo ha patito; patito molto; patito sempre; patito senza compenso…- il popolo ha durato e dura soffrendo… oggi il popolo è svegliato: svegliato alla idea dei propri diritti e della propria potenza. Dal 1830 in poi, il movimento, concentrato prima nelle classi agiate, s’è propagato, con una rapidità quasi miracolosa, con una forza d’anno in anno crescente, alle viscere delle nazioni, ai milioni di uomini di lavoro che fino allora erano incerti spettatori dei cangiamenti politici. Vogliono e otterranno. In Francia, due insurrezioni vittoriose a Lione, dieci sommosse, associazioni d’ogni sorta, segrete e pubbliche, politiche ed economiche; in Inghilterra rivolte e incendi a Bristol, a Glasgow, e altrove organizzazioni potenti, petizioni firmate da un milione e mezzo di uomini del popolo: nella Spagna i tumulti di pochi anni addietro contro a’ conventi e i recentissimi pei salari, hanno annunziato ai meno attenti, nel breve periodo di otto o nove anni, che i bisogni del popolo sono urgenti e sentiti”.
Mazzini non si limita a considerare la condizione della classe operaia in Italia: prospetta la condizione del proletariato sul piano internazionale (oggi diremmo: nella società capitalistica):
“Sebbene infatti alcuni paesi siano oggi innanzi all’Italia in libertà, potenza, sviluppo d’industria, attività di commercio e produzione di ricchezza, la condizione materiate de’ loro operai non ha migliorato. Per cagioni che si diranno appresso, la loro libertà è libertà d’una classe; la loro potenza risiede in un piccolo numero di individui: l’accrescimento della ricchezza non vi giova che a un piccolo numero di famiglie: lo sviluppo dell’industria, l’applicazione di nuovi procedimenti, la scoperta di nuove macchine vi fruttano ai pochi che fanno lavorare, non ai moltissimi che lavorano: peggiorano anzi talvolta, non per cause intrinseche, ma per mancanza d’una buona organizzazione dei lavori, la situazione degli ultimi. Dappertutto, in Francia, in Inghilterra ed altrove, l’operaio vive, generalmente parlando, come in Italia e più che in Italia, una vita povera, stentata, precaria, per giungere a una vecchiaia inferma, squallida, senza soccorso. Dappertutto, privo di terre, di capitali e di credito, trattato siccome colpevole s’ei cercasse di supplire colla forza di associazione alla mancanza perenne e assoluta di questi elementi d’indipendenza, costretto a procacciarsi ola vita d’ogni giorno, e posto mdi fronte a uomini ricchi d’oro, di possessioni e di credito, l’operaio non è libero contrattante, ma schiavo: la sua scelta sta fra la fame e la mercede, qualunque siasi, offertagli da chi l’impiega. E questa mercede è un salario: un salario spesso insufficiente ai bisogni della giornata, quasi sempre inferiore all’importanza dell’opera: un salario suscettibile di diminuzione ogni qual volta la ignoranza di chi comanda i lavori, la concorrenza, o avvenimenti non calcolati fanno si ch’egli ottenga meno del guadagno sperato, non mai d’aumento progressivo proporzionato ai frutti dell’impresa; le braccia dell’operaio possono triplicare, quadruplicare il capitale del proprietario, non triplicare o quadruplicare la propria mercede. Quindi l’impossibilità de’ risparmi; quindi la miseria assoluta, irreparabile, delle migliaia di operai in ognuna di quelle crisi che affliggono quasi periodicamente il commercio, e che, per l’introduzione di nuove macchine, per l’accumulamento dei prodotti in una certa direzione, per la chiusura d’un mercato estero allo smercio delle derrate, determinano una diminuzione d’attività o una sospensione a tempo dei lavori. E a siffatte crisi di miseria, niun altro rimedio per l’operaio che l’avvilimento dell’elemosina, con qualunque nome si chiami, dove la pietà de’ privati o la prudenza de’ governi provvede, il tumulto e il delitto dove non provvede; e allora le leggi, le punizioni, cieche, ingiuste, crudeli perché statuite da uomini che non hanno provato mai gli orrori della miseria, e perchè guardano solamente al fatto, non mai ai motivi del fatto. Ma s’anche siffatte crisi non assalissero mai l’operaio ne’ suoi anni di vigore, e non gli avvelenassero la vita d’un senso d’incertezza e di continuo terrore – s’anche ogni giorno gli arrecasse sicuro tanto lavoro da sostentar sè e la famiglia – gli anni della vecchiaia, d’una vecchiaia precoce per le continue, gravi e spesso insalubri fatiche, lo aspettano minacciosi, implacabili. La società, organizzata com’è tanto ne’ paesi così detti liberi quanto negli assolutamente schiavi come l’Italia, non gli concede la possibilità d’economia per quei giorni ne’ quali l’uomo ha più bisogno di conforti, e ne’ quali egli si troverà inetto al lavoro, la società, regolata esclusivamente dai proprietari de’ fondi e de’ capitali, senza intervento legale o rappresentanza delle classi operose, senza ricerche ordinate sulla loro situazione e su’ loro bisogni, pesa quasi esclusivamente, con un sistema d’imposte indirette ingiusto, enorme, funesto al consumo e quindi alla produzione, su quelle classi appunto alle quali la costituzione attuale del lavoro e della mercede impedisce d’accrescere indefinitamente il proprio guadagno”.
Da queste premesse egli fa discendere la conseguenza che gli operai italiani devono, ormai, intendersi fra loro:
“E intendersi vuol dire associarsi.
Associarsi in un solo corpo, e sotto una sola bandiera, perchè la verità è una sola perchè a preparare un solo paese è necessaria una sola Associazione – perchè la vera forza sta nell’Unione”.
La necessità di questa associazione è improrogabile e pregiudiziale ad ogni altra: è, perfino, “conditio sine qua non” della lotta risorgimentale:

“Il momento in che noi ci troviamo è solenne. La classe, in nome della quale parliamo, è in fermento su mezza Europa. Un cangiamento radicale nell’organizzazione della società è presentito, profetizzato da tutte le parti. Associazioni vastissime d’operai occupano l’Inghilterra e la Francia, e si diramano in Germania e altrove. Le questioni concernenti il lavoro e le moltitudini dominano ogni giorno di più tutte l’altre. Gli ingegni più potenti in ogni paese hanno rivolta quasi esclusivamente la loro attenzione all’attività e all’avvenire dell’elemento popolare. E voi soli rifiutereste d’associarvi al moto Comune? Noi sappiamo che molti tra voi, buoni d’intenzioni e vogliosi dell’emancipazione italiana, dicono non esser tempo, e doversi in oggi prefiggere ad ogni sforzo un solo pensiero, quello dell’Indipendenza, e della guerra all’Austriaco che l’impedisce. Ma questa Indipendenza può fondarsi con mani di schiavi? o non dobbiamo, per esser certi d’ottenerla, lavorare a educarci, a fare indipendenti noi primi?

  
La meccanizzazione nelle fabbriche fu una spinta decisiva per la lotta di classe.
Nell’illustrazione: telai meccanici inglesi verso il 1830
 

La “questione sociale” è vista da Mazzini con chiarezza, anche se dalla divisione della società “in due campi” egli non trae la conseguenza della necessità della lotta fra gli stessi:

 
“La società, si è divisa in due campi. Immobilità e privilegio sono le parole d’ordine in uno dei due. Progresso e Democrazia sono quelle dell’altro. Nell’uno si combatte l’educazione e l’innalzamento del popolo sulla scala sociale: nell’altro s’aiuta; tutti e due riconoscono che un nuovo elemento, l’elemento popolare, è comparso sull’arena e chiede il suo diritto di cittadinanza alle classi che stanno più innanzi”.
Alla borghesia Mazzini prospetta, peraltro, la forza del proletariato e l’ineluttabilità della conquista violenta “del suo diritto” qualora questo continui ad essergli negato:
“Lo chiede alle classi che stanno più innanzi; ma lo chiederà, non bisogna dimenticarlo, a se stesso, alle proprie forze quand’esso si trovi ancor lungamente respinto o deluso: un elemento che e rappresenta in ogni paese i diciotto ventesimi della, popolazione può starsi inerte: ma posto in moto una volta, e ottenuta la coscienza della propria potenza, conquista irresistibilmente e colla violenza ciò ch’è negato alla richiesta pacifica”.
Senonché Mazzini, che, pure, ha una già così netta visione della realtà proletaria, riposa, d’altro canto, in una posizione nettamente utopistica, e cioè crede ad una possibilità di “rigenerazione fondata sulla concordia e sull’armonia dei lavori fra tutti gli elementi che formano la nazione”. Egli – ed è qui il suo limite – ha utopistica fiducia nell’accoglimento della richiesta pacifica da parte dei “buoni e attivi”, appartenenti “alle classi che stanno più innanzi” e si rivolge ai tiepidi, “a quelli che a fronte di questo fermento si mantengono indifferenti e aspettano, così essi dicono, gli avvenimenti”.
Mazzini Ii diffida… “Badate! Gli avvenimenti avverranno; ma tali che vi dovrà non avere cercato di moderarli”.
E qui, con l’esempio della Francia e dell’Inghilterra, agita lo spauracchio di quel comunismo che per lui è sinonimo di suprema iattura:
“In Inghilterra, egli dice, la separazione assoluta tra le classi medie e quelle che formano la moltitudine chiamata ancora oggi col nome di popolo, prepara, ove duri, scene di violenza e di distruzione inaudita. In Francia la divisione funestissima tra gli uomini di braccia e e gli uomini di pensiero, ha dato, € darà più sempre vita e forza agli errori del comunismo”.
Prevede immancabile, perchè “l’ora del popolo è suonata”, una rivoluzione intesa a “preparare la via alla conquista di una Eguaglianza non di parole ma di fatto” e “la prima rivoluzione sommuoverà nei due terzi d’Europa le classi più numerose e più povere”. E Mazzini domanda:
“Volete che le moltitudini seguano, nell’ora del movimento, in Italia, l’influenza, trista o buona dello straniero? Volete che, abbandonate ai loro istinti, cerchino il loro diritto colla violenza e lo cerchino nell’applicazione di sistemi assurdi, rovinosi, di comunione dei beni, d’abolizione della proprietà, di reparto uguale dei frutti dell’ attività collettiva?”…
Su questo concetto Mazzini insiste:
Gli operai Italiani non possono rimanere lungamente addietro nel moto generale de’ loro fratelli Europei; ma, se voci e pensieri italiani non li dirigono, senza capi e senza consiglio, seguiranno ciecamente l’impulso delle associazioni straniere ; lo seguono sin d’ora, ma molti di quei che viaggiano o soggiornano all’estero; lo seguiranno generalmente in Italia, se i casi d’Europa porteranno mai un esercito straniero con una bandiera di rivoluzione oltre l’Alpi: vergogna e rovina  al nostro paese; vergogna, perchè l’Indipendenza che voi vorrete allora fondare, diventerà dipendenza dallo straniero liberatore – rovina, perchè tra molti operai de’ gli altri paesi prevalgono troppo, per errore o passione dei capi, sistemi di comunione dei beni, d’Owenismo, di leggi agrarie, d’abolizione di proprietà, funesti, assurdi, contrari al progresso, o alle virtù della specie umana. Pensate a questo, o voi che amate il vostro paese e avreste il bene della gente che lo abita, senza crisi inutili, pericolose, disonorevoli. I nostri rimedi saranno di natura pacifica. Noi predicheremo nell’amore di tutte le classi, nell’aborrimento d’ogni reazione e d’ogni ingiustizia”.
Eppure a questo socialismo che depreca e combatte Mazzini, senza saperlo, si accosta, con nette affermazioni e lampeggianti sprazzi di verità, sempre più, Quanto mai indicativi in tale senso sono i suoi scritti di questo periodo. Si ponga mente particolarmente a quello che s’intitola  “Necessità dall’ordinamento speciale degli operai italiani, in cui arriva ad affermare l’avvenire fondato su una socialità di lavoratori (“un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra”). Ecco quanto egli afferma….
 
“La parola operaio non ha per noi alcuna indicazione di classe nel significato comunemente annesso al vocabolo: non rappresenta inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo d’occupazione speciale, un genere di lavoro, un’applicazione determinata della attività umana, una certa funzione nella società: non altro. Diciamo operaio come diciamo avvocato, mercante, chirurgo, ingegnere. Tra codeste occupazioni non corre divario alcuno quanto ai diritti e ai doveri dei cittadini. Ognuna d’esse dà soddisfacimento a un bisogno, tutte sono, più o meno, essenziali allo sviluppo comune. Le sole differenze che noi ammettiamo tra i membri d’uno Stato sono le differenze d’educazione morale. Un giorno, l’educazione generale uniforme ci darà una comune morale. Un giorno saremo tutti operai, che vivremo tutti dell’opera nostra in qualunque direzione s’eserciti. L’esistenza rappresenterà un lavoro compìto”.
E così ribadisce nettamente la divisione fra le classi:
“Il presente è diverso. Esistono in Italia, come dappertutto, due classi d’uomini: gli uni possessori esclusivamente degli elementi d’ogni lavoro, terre, credito e capitali; gli altri, privi di tutto fuorché delle loro braccia.
Gli uomini della prima classe combattono per assicurare ed accrescere gli agi e le superfluità della vita; gli uomini della seconda combattono per assicurarsi la vita…
… Le insurrezioni fino ad oggi tentate ebbero carattere esclusivamente politico; il lavoro attuale tende a far sì che la prima insurrezione porti carattere politico e sociale ad un tempo… E l’unica via da seguire per ottenersi queste due cose è l’ordinamento in associazione degli uomini che invocano il mutamento sociale…
…Braccia d’operai conquistarono la Bastiglia; che cosa ottennero dalla rivoluzione francese? Braccia d’operai rovesciarono il trono di Carlo X: cosa ottennero le moltitudini dall’insurrezione del 1830? Le associazioni che prepararono in Italia il terreno ai movimenti del 1831 erano popolate d’operai: quali provvedimenti furono non dirò presi, ma indicati da lungi alla speranza delle classi operose, perchè i padri si confortassero nell’idea che sorriderebbe ai figli un migliore avvenire?”.
Mazzini ricorda che la classe operaia ha sempre partecipato alle rivoluzioni borghesi “della classe media”, senza mai ricavarne vantaggio.
“L’operaio scese in piazza a combattere com’uomo, come cittadino, non come operaio. Venne in aiuto come cifra numerica aggiunta alla lotta, non come elemento dello Stato, a classi che erano col patto ordinate da secoli e considerate da secoli come elementi della società.
Accettò, giurando, il loro programma, non diede il suo…
Avete combattuto finora nel programma dell’altre classi: date oggi il vostro e annunziate collettivamente che non combatterete se non per quello”.
Mazzini aveva dunque visto con tanta chiarezza, che più forse non si sarebbe potuto, i veri termini in cui si poneva il problema della partecipazione della classe operaia al Risorgimento nazionale italiano, eppure egli non seppe dare agli operai quel ‘loro’ programma, di cui vedeva tutta l’urgenza e la necessità. Lo tratteneva l’avversione dottrinata contro ogni esplicita forma di socialismo… ma soprattutto lo tratteneva l’invincibile ripugnanza contro la lotta di classe.
In verità, non direi che egli non seppe dare agli operai quel loro programma di cui vedeva tutta l’urgenza e la necessità, direi piuttosto che egli non seppe, o, più esattamente, non volle, indicare la via che conduce al socialismo; ma tutto un programma riformistico egli, come risulta dal brano che segue, appartenente alla stesso scritto, seppe ben indicarlo: riduzione della giornata lavorativa; equo salario; libertà di coalizione e, quindi, di sciopero; assicurazione contro la disoccupazione; previdenza sociale; diminuzione delle imposte indirette.
Egli dice:
“Gli operai – giova ripetere codeste cose – lavorano troppe ore della giornata, perchè non ne patisca la loro salute e perchè non vi sia per essi impossibilità assoluta d’educare, come conviensi ad ogni umana creatura, l’intelletto e l’anima loro. Gli operai sono generalmente troppo mal retribuiti perch’essi possano schermirsi, coi risparmi, dalla miseria per sè e per le loro famiglie ne’ tempi di crisi, e dall’ospedale o dalla workhouse nella vecchiaia. Gli operai sono lasciati senza riparo, dacchè le coalizioni, anche negli Stati mezzo-liberi, sono punite, all’arbitrio di chi li impiega e alle diminuzioni dei salari provocate dagli effetti della concorrenza crescente.
Gli operai sono continuamente esposti alla mancanza assoluta di lavoro, cioè alla fame, per le frequenti crisi commerciali che l’assenza di direzione generale all’attività industriale fa inevitabili. Gli operai, sono dalla natura della loro mercede incapace d’aumento progressivo comunque il guadagno de’ padroni proceda, ridotti alla condizione di macchine, condannati ad una ineguaglianza perpetua, avviliti in faccia a se stessi e ai loro fratelli di patria. Gli operai sono, per tutte queste cagioni, sottoposti a tutti gli obblighi della società dove vivono, dal tributo che le imposte indirette prelevano sui sudori delle loro fronti fino al sacrificio della vita che le guerre della patria esigono, senza giovarsi d’un solo de’ suoi benefizi”.
Non la stessa lucidezza con cui egli vide la condizione operai a gli fu propizia perchè vedesse anche la questione contadina; ed è questo un altro limite, assai grave, del pensiero sociale mazziniano, prima e dopo della ricostituzione della Giovine Italia (solo negli ultimi anni della sua vita egli si accorse, in qualche modo, di un problema contadino).
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Il movimento mazziniano

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Com’è noto, il primo germe dell’organizzazione operaia moderna è nella società laica di Mutuo Soccorso, o che essa sia creata ex novo o che consista nella trasformazione di una vecchia confraternita di ispirazione ecclesiastica (una, cioè di quelle pie fratellanze in cui gli operai, sotto l’egida ecclesiastica, sentivano il bisogno di soccorrersi vicendevolmente per i casi di malattia e di vecchiaia e per le spese funerarie, onde numerosi padroni filantropi, o sagaci, animati comunque da spirito paternalistico, incoraggiarono e sovvenzionarono queste società).
Questa società di Mutuo Soccorso laica, di tipo moderno era nata e si era sviluppata negli anni cinquanta in Piemonte, dove concorrevano alcune condizioni favorevoli: un certo grado di sviluppo dell’industria e, quindi, di concentramento operaio; il clima costituzionale che consentiva il diritto di associazione; la mentalità paternalistica della vecchia aristocrazia terriera e qualche filone illuminato della borghesia.
In una prima aggregazione di poche società a Pinerolo nel 1850, fu fondata l’Associazione Generale degli Operai dello Stato che nell’anno seguente passò a Torino con una riunione di trentatré società. Essa accentuò, paternalisticamente, tutte le cariche direttive in mani borghesi e, a partire dal 1853, tenne congressi annuali.
Col 1860, la libertà di associazione, estesa ora a tutto il regno, determina un risveglio della classe operaia che tende a liberarsi dal paternalismo padronale e a concretate nuove forme associative; se all’indomani dell’Unità le società di Mutuo Soccorso aumentano notevolmente il loro numero, gli iscritti non tardano a portare in esse gli interessi della loro condizione ai lavoratori (soprattutto aumenti di salario e diminuzione della giornata lavorativa). La classe operaia inizia, così, la trasformazione delle società di Mutuo in Leghe di resistenza e tutto un nuovo indirizzo rivendicativo pervade il movimento operaio.
In questo clima si sviluppa il movimento mazziniano e l’opera del Mazzini appare, a questo punto, particolarmente importante: egli vede nettamente i presupposti per uno sviluppo reale del movimento operaio e cioè la esclusione da esso delle infiltrazioni paternalistico-borghesi, la conseguente composizione autenticamente operaia, la sua organizzazione nazionale e la sua continuità d’azione.
L’8° Congresso delle Società Operaie ebbe luogo a Milano dal 26 al 28 ottobre 1860, con la presenza di 109 delegati di 64 società dell’Italia settentrionale e centrale.
Il Congresso di Milano rappresentò un primo improvviso successo mazziniano: certo è, comunque, che Mazzini, incrollabilmente fedele alla sua politica di unità nazionale, or teso nello sforzo di veder completata l’unità stessa con Roma e Venezia, vide la possibilità di inserirsi nel movimento delineatosi nel Congresso di Milano e di allargarne le basi, sicuro di trovare in quella società le condizioni favorevoli per la sua  battaglia.
Ormai gli annui Congressi manovrati dai borghesi paternalisti rappresentano una fase superata che invano i fondatori e patrocinatori delle società operaie piemontesi tenteranno di tenere in vita. Mazzini vede giunto il momento per la realizzazione di quella Unione degli Operai italiani auspicata dalla ricostituzione, nel 1840, come abbiamo visto, della Giovine Italia.
In una sua lettera del 14 agosto 1861, da Londra, alla Società Operaia di Bologna, egli affermò il diritto delle Società Operaie di impegnarsi sul terreno della politica e reclamò il suffragio universale.
La lotta s’imposta, dunque, in seno alle Società Operaie per la loro politicità o apoliticità.
La tesi mazziniana consegue la vittoria al Congresso di Firenze del 1861: e le stesse posizioni di Mazzini (tendenti ad una sospensiva che desse la precedenza alla questione di Venezia e Roma) vengono superate. Non solo emersero o riemersero rivendicazioni varie, come quella dei limiti al lavoro dei fanciulli e fu emesso un voto per l’abolizione della vecchia legge di origine napoleonica (anche se ormai in disuso) sul divieto delle coalizioni ma per la prima volta un congresso operaio faceva proprie due rivendicazioni operaie fondamentali, insieme congiunte: aumento dei salari e riduzione delle ore di lavoro.
Garibaldi, intanto, è frequentemente acclamato Presidente di Società Operaie e la tesi sulla politicizzazione delle società trova, naturalmente, Garibaldi solidale con Mazzini; al Congresso di Parma (18 ottobre 1863) egli, facendo esplicita adesione alla tesi mazziniana della politicità, scrisse:
“Lasciate le vane questioni di parole ma pensate che l’uomo non si dimezza, e che tutti, senza eccezione, abbiamo gli stessi doveri verso di noi, verso la patria e verso l’umanità”.
A Parma fu deliberato finalmente ciò che Mazzini sollecitava: l’unificazione delle Società Operaie. Vi si aggiunse, anzi, la fondazione del Giornale delle Associazioni Operaie Italiane.
L’XI Congresso a Napoli (25-27 ottobre 1864) approvò il mazziniano Atto di fratellanza delle Società Operaie.
Veniva così ufficialmente rinsaldata nelle Società Operaie la vittoria di Mazzini e posta la prima pietra dell’edificio da lui progettato per l’organizzazione del movimento operaio italiano.
Ma il Congresso era stato numericamente limitato e scialbo; le Società Operaie mazziniane, segnavano il passo, non meno di quelle moderate o che, comunque, erano fuori dal movimento mazziniano: la loro attività non coincideva col reale nascente movimento operaio. Agitazioni e scioperi a cui, per lo più, le Società Operaie erano estranee e che scoppiarono dalla spontaneità delle masse, dimostravano, invece, una vitalità nuova della classe. Questa realtà, come già detto, trasformava le società di Mutuo Soccorso in leghe di resistenza, e ne creava ex novo: e la possibilità della resistenza, appunto, costituiva la nuova forza della classe operaia.
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Mazzini e l’Internazionale

 
Karl Marx

Nasce l’8 settembre 1864, a Londra, l’Associazione Internazionale degli Operai. Anni dopo (nel 1871) Mazzini scriverà nella Roma del Popolo di aver ricusato alla stessa, fin da principio, la sua cooperazione. La verità, invero, fu diversa, e cioè che alla fondazione dell’Associazione fu presente e tentò di farsi strada la corrente mazziniana. Questa era rappresentata dal maggiore Luigi Wolff, che intervenne per la London ltalian Workingmen’s Society (in seguito risultò essere una spia bonapartista) e al genovese Giovanni Fontana. L’uno e l’altro erano stati delegati da Mazzini il quale, invitato, non aveva creduto di intervenire ma aveva subito compreso quanto fosse importante poter penetrare nel movimento.

Le cose andarono molto lisce per i delegati di Mazzini nelle prime due sedute a cui Marx, infermo, non aveva potuto intervenire.
Il Wolff era riuscito, attraverso il francese Le Lubez, a far passare una dichiarazione “dove Mazzini – scrisse Marx ad Engels –  faceva capolino ad ogni pié sospinto, mascherato coi più vaghi cenci del socialismo francese”. Inoltre, nel documento Le Lubez era accettato per sommi-capi il regolamento della società operaia mazziniana.
L’intervento di Marx alla terza seduta capovolse la situazione: e in una successiva seduta del 27 ottobre egli riuscì a far approvare l’Indirizzo inaugurale e gli Statuti provvisori.
Il 15 marzo il Wolff dette battaglia; chiese che dallo Indirizzo e dagli Statuti fossero soppressi dei passi i quali mettevano in singolare risalto il principio della lotta di classe; e perchè, evidentemente, Marx non poteva cedere su questo punto e la maggioranza seguì Marx, Wolff si dimise e, poco più tardi, lo seguirono nelle dimissioni, tutti gli almi italiani. Tutt’altro quindi, che conciliazione.
Tessera della Prima Internazionale, con la firma, tra le altre, di Marx quale rappresentante della Germania
Nel 1871 Mazzini unì nel suo attacco a fondo l’Internazionale e la Comune di Parigi. L’ingeneroso attacco alla Comune costituì, com’è noto, l’errore supremo di Mazzini.
Dei comunisti scrisse sulla Roma del Popolo:

“Pugnarono da forti, chi il nega? Ma il combatter da forti non merita il nome di eroismo: lo merita il combattere santamente per una santa bandiera; dove no, l’Italia conta difese di masnadieri che dovrebbero ottenere quel nome. Oggi purtroppo le tendenze istallate dai sistemi materialisti travolgono molti dei nostri giovani in una cieca adorazione del coraggio fisico nel fatto esterno senza nesso coll’origine e col fine cercato”.

  
Associazione delle donne per la difesa di Parigi
Gruppo rivoluzionario durante la Comune di Parigi
Garibaldi sfidò subito e decisamente l’opinione pubblica della borghesia italiana e straniera, solidarizzando con la Comune e proclamando l’Internazionale il Sole dell’avvenire (sono famose le sue lettere a Giuseppe Petroni e quella a Celso Ceretti).
Mazzini, invece, prigioniero del suo credo antimaterialistico, viene a trovarsi fatalmente sull’altra sponda: quella della reazione. E poichè ha urgenza di porre un freno allo sbandamento nelle sue fila, di assicurarsi gli indecisi e recuperare i deviati, dà battaglia, subito, e a fondo, nella Roma del Popolo.
Nè basta; Mazzini ricorse a un atto che potrebbe dirsi disperato; quello di convocare in Roma, a sette anni di distanza da quello di Napoli, un congresso delle Società Operaie. Auspicando, da quel Congresso un Patto Nazionale che definisse, diceva, “la nostra vita avvenire” egli  chiaramente indicava quella che avrebbe dovuto essere la funzione del Patto stesso, e cioè di fronteggiare e combattere l’Internazionale, associazione che falsava “nel fine, nei mezzi e nello spirito” quelle che erano state, fino ad allora, sotto la sua egemonia, le caratteristiche del movimento operaio italiano.
Attaccava, quindi i dirigenti e definiva Marx “uomo d’ingegno” ma “dissolvente” e “di tempra dominatrice”.

Michail Bakunin
Non poteva offrirsi a Bakunin occasione migliore per prendere posizione nella lotta politica in Italia e far largo al suo movimento per la conquista dell’Internazionale.
Il 25 luglio 1871 il Gazzettino rosa, quotidiano radicale milanese diretto da Achille Bizzoni, e già schieratosi in difesa della Comune, pubblicava uno scritto di Bakunin Risposta di un internazionale a Giuseppe Mazzini che, pur con premesse di riverenza all’uomo, è, col tono brillante e drastico particolare dell’anarchico russo, un’analisi scarnificante del mazzinianesimo, una sferzante requisitoria politica dello “ultimo gran prete di quell’idealismo religioso metafisico, politico che se ne va”.

Il pamphlet bakuniniano, naturalmente, fece chiasso negli ambienti democratici e socialisti e dette la stura a un seguito di adesioni e di difese dell’Internazionale anche da parte di uomini che, fino al giorno innanzi avevano giurato nel verbo mazziniano.

Rispose Mazzini con Gemiti, tremiti e ricapitolazione€, stampato alla fine di agosto in quattro articoli dalla Roma del Popolo.

Ma, intanto, il vuoto si faceva intorno a lui. Avvenne, allora, un episodio significativo della crisi sentimentale di molti ex mazziniani che, mentre si spingevano verso il socialismo, si illudevano di poter arrivare almeno ad una distensione fra Mazzini e Garibaldi, da valere, sostanzialmente, come un compromesso che permettesse di non dover considerare Mazzini come appartenente ad campo nemico.
E’ Celso Ceretti, mazziniano devotissimo a Garibaldi, e poi socialista, fondatore in Mirandola (Modena) di un’Associazione Repubblicana ed Anticattolica, del tipo delle molte che germogliavano in quel tempo un po’ dappertutto, che propugna la convocazione di un Congresso Democratico a cui dovrebbero partecipare, per il tentativo di un accordo, tutte le fazioni della democrazia, Garibaldi accetta subito e con entusiasmo di presiedere il Congresso; ma questo non ha luogo perchè Mazzini intuisce che in esso il mazzinianesimo avrebbe tutto da perdere. Mazzini rifiuta di intervenirvi e di far intervenire le Società Operaie ancora a lui fedeli: si dedica tutto, invece , alla preparazione del suo Congresso, con impostazione nettamente polemica nei riguardi del socialismo e dell‘Internazionale.

Siamo, ora, a nuovi ed incalzanti attacchi di Bakunin (Circolare ai miei amici d’Italia in occasione del Congresso Operaio convocato a Roma per il 1° novembre dal Partito Mazziniano stampata, poi, col titolo Il socialismo e Mazzini) che esorta la gioventù italiana a liberarsi dal “soporifero”e nefasto influsso mazziniano (seguirà a fine d’anno, dopo il Congresso mazziniano, La théologie politique de Mazzini et L‘Internationale).

La sconfitta, in partenza, del Congresso di Roma dell’1-5 novembre 1871 fu nell’astensione di sinistra e di destra: e cioè di società con prevalenza internazionalista: società democratiche non socialiste ma avverse, ormai, a Mazzini: società moderate.
Un paio di società internazionaliste fecero da cavalli di Troia per permettere a Vincenzo Tucci e Carlo Cafiero di portar nel Congresso la voce dell’Internazionale.
Problemi vitali della classe operaia, anche se proposti da alcune società furono esclusi. Le conclusioni furono tratte dallo stesso Mazzini:

“Il Congresso è andato male: imprudenze di amici che hanno cacciato innanzi il mio nome: reazioncelle di amici ricchi di amor proprio… incertezza della Commissione centrale”. Unico risultato del Congresso fu la votazione di un Patto di fratellanza che ripeteva, salvo brevi modifiche, quello stesso approvato sette anni prima al Congresso di Napoli. Esso rappresentò solo il documento di una organizzazione che, nel tempo stesso, entrava nell’ombra della storia del movimento operaio italiano.

A questo, peraltro, il grande patriota aveva dato, sia pure attraverso i suoi limiti ideologici, un potente contributo, che deve restar vivo nella memoria e nella gratitudine degli italiani.