SATYRICON – Petronio Arbitro

SATYRICON

Introduzione

Per il lettore moderno il SATYRICON rappresenta una occasione unica, a tanti secoli di distanza da Plauto, di spaziare al di fuori dell’atmosfera alquanto chiusa, di conventicola tra potenti e letterati, che costituisce il limite sociologico della letteratura latina.
Di fronte a questa generale impronta aulica, il romanzo, che rappresenta la vita di ambienti generalmente ignorati dagli scrittori romani, si pone come un caso isolato di realismo. Per altro, la tendenza all’élite riuscì tanto forte da ricondurre nel suo alveo, almeno per un aspetto, pure un’opera così eretica: la corte riprende i suoi diritti nell’identità tradizionale dell’autore.
Infatti il SATYRICON è generalmente attribuito a quel Petronio Arbitro, consigliere e socio di raffinate dissolutezze a Nerone, di cui una famosa pagina di Tacito narra il singolare suicidio per sottrarsi all’imperatore sobillato dall’invidia e dalle calunnie di Tigellino. Il ritratto tacitiano è di una potente evidenza psicologica; ed è sovente accaduto che su di esso si ricostruisse la fisionomia intellettuale dell’autore del SATYRICON, piuttosto che sul fondamento di quanto l’opera stessa rivela alla personalità di chi la scrisse. Nasce il sospetto che il fascino di questa attribuzione fortunata – i dati che la suffragano non consentono una certezza definitiva – abbia precluso una completa comprensione dei significati del romanzo.
Non suonerà quindi del tutto strana la proposta di sottrarsi alla suggestione di quella sorta di callido ossimoro che si produce dal contrasto tra la personalità del raffinato cortigiano Petronio e l’abbietta ambientazione del romanzo, per creare nell’opera stessa le sollecitazioni spirituali e sociali da cui essa sorse. Potrà darsi che, una volta liberato il SATYRICON dalla pesante ipoteca di non essere che il “divertissement” – quanto geniale si voglia – di un colto gaudente, anche la sua prospettiva sociale appaia in una luce diversa.

D’altronde, pure il carattere stesso del SATYRICON, la sua destinazione, il “genere” cui esso appartiene (non nel senso di un’entità astratta, ma della tradizione culturale entro cui l’autore intese operare) non si lasciano definire con sicurezza. Voleva essere un romanzo di avventure e di sesso rivolto al grosso pubblico – a prescindere se questo fosse in grado di afferrarne l’aggressiva carica stilistica – oppure una parodia del romanzo sentimentale greco, come si potrebbe indurre dall’anormale composizione della coppia di amanti e dalla grottesca esasperazione delle scene patetiche, oppure la vicenda andava tutta intesa in chiave simbolica (forse politica; ma ogni tentativo di decifrazione in questo senso è finora fallito)? O l’autore si propose di interpretare spietatamente il proprio tempo in una moderna Odissea, in cui il precursore divino fosse non più Poseidon o Helios bensì Priapo, e il protagonista venisse minacciato non nella vita fisica ma in quella sessuale? Una valutazione d’assieme del piano dell’opera ci sfugge, anche per le condizioni di grave incompletezza in cui questa è giunta a noi. Ne possediamo infatti solo estratti di due libri (forse il XV e il XVI), intercalati da ampie lacune, che consentono una lettura continua soltanto dell’episodio più famoso, la cena di Trimalchione.

Recensione


A narrare la storia è lo stesso protagonista: Encolpio, bel giovane vagheggiato dalle donne, ma inclinato verso il proprio sesso. Nulla sappiamo della sua origine; comprendiamo solo che ha ricevuto un’ottima educazione letteraria, cui si accompagna un gusto sicuro. Egli ha un interesse quasi ossessivo per l’arte figurativa – nella sua più grave crisi sentimentale si distrae visitando una pinacoteca -, e viene irresistibilmente attratto da ogni declamatore ambulante. Nella sua indole convivono in modo singolare l’esaltazione passionale e un distacco pieno di humor E’ follemente innamorato dell’adolescente Gitone, e altrettanto follemente geloso; ma esorcizza nel riso tanto la sua infatuazione, quanto l’avvilimento in cui lo piomba la perdita della sua virilità. L’attitudine alla contemplazione, l’eccesso del sentimento, il riso dissolvitore sono tutti aspetti del suo comportamento di fronte ai casi della vita, che è di completa passività. Encolpio non assume mai l’iniziativa dell’azione, bensì si lascia trascinare da essa – tutt’al più tentando di cavarsela con la fuga. Il suo atteggiamento anche quando è coinvolto nell’avventura più movimentata, è di solito quello dello spettatore; e a lui è ignoto il compiacimento per l’inganno ben escogitato, per l’astuto espediente, che è tipico delle opere che per l’ambiente in cui si svolgono e per le avventure che narrano sono state accostate al SATYRICON, dal GARGANTUA al romanzo picaresco. Suo pater è l’adolescente Gitone, dai modi di ragazzetta viziata e viziosa: spregiudicato simulatore, ora solidale con il compagno, ora pronto a passare dalla parte del più forte, sensuale e astuto, abilissimo nello sciogliere le situazioni più tese. All’inizio della parte rimasta (l’antefatto non si riesce a ricostruire dagli sporadici riferimenti) ai due si è accompagnato un terzo giovane, Ascilto, rozzo e violento, che insidia Gitone a Encolpio, riuscendo non di rado ad avere la meglio: essi si trovano a fare parte dell’entourage di Agamennone. Ma caratteristico del SATYRICON è l’alternarsi di discussioni letterarie e di avventure da suburra: Encolpio abbandona la discussione alla ricerca di Ascilto, e si lascia attrarre da una vecchia in un postribolo, donde riesce a sfuggire a stento. Assistiamo poi alle gelosie e alle risse che agitano il ménage a tre; e a una clamorosa lite nel foro, all’imbrunire, intorno ad un palio rubato e ad una sdrucita tunica, che nasconde un peculio in una cucitura; in essa intervengono anche dei famelici avvocati, che tentano di arraffare l’oggetto della controversia. In seguito il terzetto, riluttante e impaurito, viene trascinato da un trio femminile, la dissoluta Quartilla, la sua ancella Psyche e la fanciulletta Pannychis, in un’orgia sacra a Priapo, durante la quale Pannychis viene unita a Gitone in una parodia di nozze.
A quest’avventura segue l’episodio più esteso e più noto del romanzo: la cena in casa del liberto Trimalchione. Costui rappresenta il tipo sociale in continua adorazione dello Status che ha raggiunto, e convinto dell’illimitato potere che il denaro gli conferisce. La sua casa, il banchetto che imbandisce, il suo tronfio sproloquiare sono una parossistica esibizione di ricchezza. Allo sguardo scanzonato di Encolpio e dei suoi compagni l’anfitrione e i suoi commensali offrono grande materia di riso. Un’irresistibile volgarità infiora i loro discorsi con uno spettacoloso repertorio di luoghi comuni. Pettegolezzi, lodi del tempo passato, opportunismo politico, pronostici astrologici, bravure di gladiatori, racconti superstiziosi, le proprie necessità naturali – par di sentire il ciarliero di Teofrasto -, persino sballati giudizi letterari; tutto condito dal tritume di un pretenzioso sentenziare: sull’utilità della cultura, sulle mani bucate delle donne, sulla brevità della vita umana e così via. Trimalchione dà il la e recita le prime parti, intercalando freddure sempre più agghiaccianti in un contrappunto irresistibile di piatti sempre più paradossali, tra un confuso andirivieni di servi e amministratori, di acrobati e musicanti, di nuovi convitati. Poi Trimalchione ha la sbornia triste; immagina il proprio monumento funerario e piange. Infine, litiga con la moglie Fortunata, una donnetta dall’oscuro passato che si dà arie da gran signora ma non ha ancora imparato a sedersi a tavola prima di aver riposto l’argenteria; e, colossale, esplode la sua autobiografia: da servo compiacente ai valori del padrone (senza tuttavia negarsi alla padrona) al punto di restare unico erede, ad animoso trafficante, a usuraio su larga scala. In un nuovo lugubre capriccio impone ai sonatori di corno di suonargli la marcia funebre; accorrono i vigili credendo che la casa vada a fuoco, e della generale confusione approfittano Encolpio e i suoi amici per svignarsela.
   
LA SEPARAZIONE DEI DUE AMICI

Ritornati alla taverna, fra Encolpio e Ascilto scoppia una nuova lite per Gitone, ed essi decidono di separarsi: Gitone andrà con chi preferisce. Ma qual è il colpo per Encolpio, quando il fanciullo sceglie Ascilto: egli si ritira a piangere sul tradimento in una casa deserta presso la riva del mare. Dopo qualche giorno visitando una pinacoteca per consolare la sua pena, incontra un nuovo personaggio, che assumerà in seguito un ruolo di primo piano. E’ questi un vecchio fanatico di poesia e poeta lui stesso, che non perde occasione di esibire la propria arte: Eumolpo è il nome di questa sorta di Encolpio invecchiato, che vive di espedienti, sempre pronto a godersi indifferentemente ragazzi e fanciulle, e soprattutto a farsi beffe di tutto e di tutti. Egli inizia la sua conoscenza con Encolpio narrandogli un’avventura erotica con il figlioletto di un suo ospite; quindi gli recita un lungo squarcio poetico sulla caduta di troia (questi inserti di versi fanno parte delle caratteristiche strutturali del SATYRICON), attirandosi una sassaiola dai presenti I due stringono sodalizio, e a loro si unisce nuovamente Gitone, sfuggito ad Ascilto. Com’era DA ATTENDERSI, Eumolpo non resta indifferente al bel giovinetto, ed è ora lui a stimolare la gelosia di Encolpio. Si scatena una violenta baruffa; l’uno dopo l’altro i due amanti simulano di volersi dare la morte, e tutto l’albergo viene coinvolto in una furibonda rissa notturna, in cui compare anche Ascilto, venuto con una guardia a cercare Gitone, il quale tuttavia riesce a rimanergli nascosto. Placato il tumulto, Encolpio, Gitone ed Eumolpo decidono di cambiar aria, e si imbarcano. Ma sulla nave viaggiano il mercante Lica e la matrona Trifena, che i due amici avevano già incontrato nella parte perduta all’inizio del romanzo, e di cui – non sappiamo perché – temono le vendette. Essi tentano di celarsi sotto un travestimento, ma Lica e Trifena, anche avvertiti da un sogno, non tardano a scoprirli. Nuova rissa, cui partecipa anche la ciurma; tuttavia Eumolpo riesce a imporre una riconciliazione generale, seguita da un banchetto, in cui egli racconta la celebre novella della vedova di Efeso. Ma scoppia una tempesta, e solo i tre compagni si salvano, giungendo nelle vicinanze di Crotone. Qui apprendono che la popolazione è divisa in due classi: quelli che lasciano eredità, e quelli che ne vanno in caccia colmando i primi di attenzioni. Tosto Eumolpo intravede la possibilità di trarre vantaggio da questa situazione: egli si fingerà un gran signore che viaggia per dimenticare la morte del figlio, e gli altri faranno la parte dei suoi servi. I Crotoniani abboccano all’amo: Eumolpo è circondato dalle loro cure e se la spassa con una giovinetta affidatagli dalla madre, gran cacciatrice di eredità. Frattanto di Encolpio si è invaghita una bellissima donna, Circe; ma egli non può godere della conquista, perché la maledizione di Priapo si accanisce contro di lui. Per riconquistare la sua potenza virile, egli si reca nell’antro di una strega, assoggettandosi a turpi pratiche. In uno degli ultimi frammenti, infine, lo ritroviamo guarito da Mercurio. La parte mancante del romanzo si conclude con il testamento di Eumolpo, un capolavoro di macabra ironia. Tutti coloro cui toccano dei legati ne entreranno in possesso solo dopo avere mangiato del suo cadavere; ed Eumolpo conforta il loro sbigottimento con esempi storici di antropofagia e con consigli onde dissimulare sotto qualche salsa il gusto della carne umana.
La materia narrativa – per quanto desueta alla letteratura latina – non basta a condurci sulla personalità dell’autore. Essa rivela una conoscenza diretta degli ambienti che descrive; ma insigni esempi avvertono che gli stessi membri della casa imperiale si dilettavano di cercare nuove sensazioni tra prostitute e gladiatori. Per altro, non è certo il desiderio di un’emozione nuova a sbattere i protagonisti del SATYRICON da un’avventura nell’altra. La disposizione psicologica con cui queste avventure sono vissute è diversa ed è soprattutto essa che riesce istruttiva per il nostro assunto. E’ vero che una vivace curiosità intellettuale accompagna sempre i due protagonisti di maggior rilievo, Encolpio ed Eumolpo; ma non è questa a dare loro l’impulso all’azione. La loro esistenza non conosce il sapore aristocratico dell’avventura giocata per sé stessa, cui si possa porre fine quando lo si desidera: l’avventura che avrebbe potuto tentare il Petronio Arbitro tacitiano. Nel romanzo spira dovunque un senso di precarietà: la necessità di arraffare quanto si trova a portata di mano, la miseria sempre incombente, l’arte di arrangiarsi, il lasciarsi andare di momento in momento a ciò che accade. Anche se sovente è dissimulata nell’andamento scanzonato del racconto, la reazione istintiva dei protagonisti di fronte ad un evento nuovo è la paura; il tentativo di fuga diviene in loro quasi un “tic” caratterizzante. Il SATYRICON riproduce l’esperienza biografica di un “dèraciné”, di chi è solito campare alla giornata, ed è abituato ad attendersi il peggio e a schivarlo con prontezza. L’autore non ha osservato questa vita con sovrana ironia in un’occasionale incursione; l’ha vissuta lui stesso, insaporendola di un disperato umore.
Secondo una tale prospettiva credo che si riconquisti nella sua interezza la portata sociale del romanzo: che non è l’ironica rappresentazione di una pittoresca corte dei miracoli dove si agitano pezzenti, avventurieri e nuovi ricchi osservati dall’osservatorio sicuro di chi siede a tavola con i potenti della terra. Nel SATYRICON brulica la società che è rimasta al margine della gloria e della pompa della romanità, quale la esaltano i suoi letterati, storiografi e politici ufficiali. Questi esclusi, che sono la gran parte della popolazione, sono visti da chi è restato fuori come loro, ad arrangiarsi e a provare – forse per emulare le dissolutezze dei grandi, forse per reagire alla precarietà della propria esistenza – il piacere corrosivo dell’abiezione. Altri, sempre peggiori, hanno scalato i fasti del denaro e del potere: Trimalchione e i suoi amici. Ma questi fasti sono, come i piatti imbanditi dai cuochi di Trimalchione, altro da quello che appaiono: gloria di cartapesta. Così la piccola corte di Trimalchione si assimila alla gran corte romana; e al di là delle difficoltà di identificare i singoli riscontri, risulta illuminata la dimensione simbolica dell’episodio.

STILE E RAPPRESENTAZIONE

Che poi questo simbolo sia, fortunatamente, quasi sopraffatto dalla prorompente vitalità che pervade l’intero romanzo, si deve all’eccezionale facoltà stilistica e rappresentativa dell’autore. Questi – chiunque sia stato – è certo un intellettuale, che discute non da dilettante di retorica e di poesia e può permettersi ogni tipo di “pastiche” letterario – accade anche che egli rida di personaggi e situazioni in quanto si atteggiano su moduli impostati dalla letteratura, parodiando così questi topoi (luoghi comuni) attraverso la satira della realtà stessa. Egli definisce con una sorta di arguto manifesto il carattere polemico e innovatore del suo scritto; ma al tempo stesso trascende ogni pastoia programmatica grazie a una superiore capacità narrativa, per la quale la realtà viene rappresentata nell’azione e nelle parole dei personaggi stessi. I partecipanti al convito di Trimalchione sono caratterizzati attraverso i loro discorsi con una spietata e lucida obiettività, che persegue fin le particolarità lessicali e sintattiche proprie a ciascuno di loro. Il tessuto linguistico del SATYRICON è percorso tutto da una prepotente tensione stilistica ed espressiva, che trova sovente sfogo nel conio di geniali neologismi. Ma la carica rivoluzionaria di questa lingua riceve un significato più ampio e genuino, ancora una volta, su un piano sociale: in essa trovano finalmente espressione le classi che dai tempi di Plauto non erano più riuscite a levare la loro voce genuina nella letteratura di Roma. Con la sua corposa realtà l’autore del SATYRICON – che potremmo fantasticamente immaginare come una sorta di chierico vagante, a mezzo tra Encolpio ed Eumolpo – ha espresso la vita, gli umori e i sentimenti, la disperazione degli esclusi dalla grandezza dell’impero.




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