LUIGI PIRANDELLO e DON CHISCIOTTE

Illustrazione di F. Clerici per il Fu Mattia Pascal
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E certo gli orientamenti ideali e di gusto di Pirandello ripugnavano profondamente da quelli dannunziani, tanto che egli nemmeno nei versi giovanili cedette in qualche modo al fascino del poeta abruzzese. Una delle ragioni si trova già nel brano citato. A questo proposito basterà aggiungere che la polemica del Pirandello contro la retorica, contro la forma come veste esteriore del pensiero e del sentimento, va ben in profondo, e le colpe che egli finisce per attribuirle sono assai gravi. Poiché l’umorismo, e cioè, per lui, la forma d’arte più avanzata, “ha soprattutto bisogno d’intimità di stile, la quale fu sempre da noi ostacolata dalla preoccupazione della forma, da tutte quelle questioni retoriche che si fecero sempre da noi intorno alla lingua. L’umorismo ha bisogno del più vivace, libero, spontaneo e immediato movimento della lingua, movimento che si può avere sol quando la forma a volta a volta si crea. Ora la retorica insegnava non a creare la forma, ma ad imitarla”.

Ma la repugnanza dal D’Annunzio non può spiegarsi solo con l’antiletterarietà del Pirandello: bisognerà pensare anche allo scarsissimo peso che hanno nella sua arte le suggestioni sessuali, e soprattutto alla caratteristica essenziale della sua poetica, di cui parleremo fra poco, alla presenza del momento critico nell’atto stesso della creazione artistica. Un’arte che tende a scomporre continuamente il dato del sentimento non è certo conciliabile con quella tutta sensi e impressioni propria del D’Annunzio.
Ma c’è di più e con questo, forse, tocchiamo il fondo dell’argomento. Le due concezioni del mondo sono antitetiche: in D’Annunzio la volontà di vivere si afferma come superamento degli ostacoli, sia pure nella solitudine del superuomo, in Pirandello ripiega sconfitta e impotente. Benissimo ha colto questa differenza il Tilgher:
“In D’Annunzio l’ebbra forza di vita è colta nel suo acme, quando ha superato i possibili ostacoli, in Pirandello invece proprio nel suo urtare contro gli ostacoli della legge, della natura, della religione”. Tuttavia l’isolamento di Pirandello non può essere spiegato soltanto con la sua opposizione netta e senza compromessi all’arte dannunziana; egli non era il solo, anche in quegli anni, a rifiutarla almeno nei suoi aspetti più pacchiani e provinciali, chiassosi e nazionalistici. Il fatto è che egli si trova all’opposizione dello stesso movimento intellettuale, che costituisce l’episodio culturale più cospicuo di quegli anni e che attraverso la liquidazione del positivismo approdava a un idealismo ottimistico, a uno spiritualismo sospiroso e dolciastro, o a uno scetticismo e pessimismo di maniera, ovattato e crepuscolare. Egli partecipa certamente alla dissoluzione del positivismo e all’affermarsi di esigenze spiritualistiche e idealistiche. Ma egli ripugna profondamente dal modo come l’idealismo e lo spiritualismo veniva affermandosi in Italia. È inutile forse anche accennare all’esangue spiritualismo del Mamiani e del Conti, che il Garin così bene definisce come “simbolo di un filosofare timorato quanto oratorio, preoccupato di assolvere una funzione edificante, privo di qualunque severità, non dirò scientifica, ma morale, eppure accetto a certi ambienti accademici e scolastici”.
E nemmeno forse insistere sul travaglio, ben altrimenti serio, dello spiritualismo cattolico, del modernismo, o sulle suggestioni mistiche che derivano dal messaggio tolstoiano o dal fascino di alcune religioni orientali.
In Pirandello – a quanto mi risulta – non v’è mai alcun riferimento esplicito a simili correnti d’idee, né la sua tematica può essere in qualche modo ricondotta ad esse. Vi è, se mai, ancora ne I vecchi e i giovani, un richiamo diretto al movimento sociale cattolico e alle posizioni del Murri, nella figura di Pompeo Agrò, il prete patriota e progressista, e nella scena in cui i giovani canonici accolgono con disgusto la pastorale del loro vescovo a proposito dei Fasci Siciliani ed è un richiamo pieno di simpatia. Ma egli ripugna profondamente anche dalla corrente di pensiero che ebbe maggiore peso nella rinascita dell’idealismo e nella sconfitta del positivismo, vale a dire dallo storicismo crociano. Non solo, evidentemente, per ragioni di polemica sulla propria arte (egli, in un’intervista, definì il Croce il più imbecille dei suoi critici), e nemmeno per il modo diverso di concepire l’arte, poiché la concezione crociana, come abbiamo visto, disconosceva il momento critico della creazione artistica.
Ma, io credo, per il gusto, che in Croce era un gusto classico, di composizione esteriore e interiore, di accordo logicamente ordinato e in Pirandello è un gusto umoristico e quindi un gusto che “per lo specialissimo contrasto essenziale in esso, inevitabilmente scompone, disordina, discorda”.
E per la concezione generale del mondo, ottimistica nel Croce, fondata sulla fiducia nel pensiero, sulla creatività dello spirito e sa una considerazione positiva e soddisfatta della società liberale e borghese, pessimistica in Pirandello, priva di ogni fiducia, sostanzialmente irrazionalistica nella sua apparente razionalità.
Comunque, per tornare alla biografia, dal momento del suo definitivo stabilirsi a Roma, la vita di Pirandello è legata alla attività letteraria. Prima in modo disinteressato, poi, dopo il disastro finanziario del padre nel quale venne coinvolta anche la dote della moglie, per guadagnarsi di che vivere. Su consiglio di Capuana, abbandonò la poesia (almeno parzialmente, perché parecchi anni dopo pubblicherà una nuova raccolta di versi, Fuori di chiave) e si dedicò alla narrativa.
Il suo primo romanzo è l’Esclusa (primo titolo Marta Ajala) scritto nel 1893, e in quel periodo ha inizio anche quella fervida attività novellistica che porterà alla monumentale raccolta delle Novelle per un anno.
Il 27 gennaio del 1894 sposò Antonietta Portulano. Fu un matrimonio combinato dal padre, ma Pirandello si legò molto alla moglie soprattutto sensualmente. E la moglie, dopo il disastro finanziario, avvenuto nel 1903 perdette la ragione e divenne il suo tormento, finché nel 1922 non si decise a farla ricoverare in una clinica. A parte questo episodio particolarmente drammatico, la vita di Pirandello, come ho già detto, è legata da ora in poi alla sua attività letteraria.
Nel corso della prima guerra mondiale dà inizio alla produzione teatrale che lo porterà nel giro di pochi anni al successo mondiale. Ma delle opere e di altri eventuali episodi biografici ad esse legate parleremo in seguito.
Per ora sarà sufficiente ricordare che nel 1934 ottenne il premio Nobel.

Morì nel dicembre 1936.

Pirandello nel periodo in cui diresse il “Teatro d’arte di Roma”
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Ecco le sue ultime volontà:

1) Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiere, non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni.
2) Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.
3 ) Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.
4 ) Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui.
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Ho detto che le esperienze fondamentali della giovinezza del Pirandello sono legate a un contrasto fra un modella di perfezione costruito dentro di sè e una realtà diversa a contatto con la quale quel modello si corrompe ed intristisce.
Ho aggiunto che l’arco di sviluppo di Pirandello come scrittore è quello che parte dal naturalismo ed approda al decadentismo. Questi due elementi, appunto, ritroviamo nella sua produzione narrativa (le Novelle per un anno e i romanzo L’Esclusa, Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, Il Turno, Giustino Roncella nato Boggiolo, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Uno nessuno e centomila) che si sviluppa soprattutto negli anni precedenti la prima guerra mondiale, e questi due elementi ritroviamo nei suoi saggi teorici in specie nel saggio su l’umorismo.
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Crisi di un uomo e di una generazione

Tuttavia il contrasto fra modello di perfezione e realtà non è soltanto una esperienza biografica del nostro scrittore, ma, come abbiamo visto all’inizio di questa nostra storia, è l’amara esperienza di una generazione che aveva assistito al crollo dei miti risorgimentali e delle grandi illusioni che li avevano nutriti e si sentiva defraudata e respingeva l’ordinaria amministrazione dell’Italia ufficiale e della realtà postrisorgimentale.
Anche Pirandello si trova all’opposizione. Tuttavia egli si differenzia dall’inquietudine e dall’insoddisfazione delle nuove generazioni. Con queste ha in comune i motivi del Risorgimento e dell’unità traditi. Ma di esse non condivide il tono fervido, l’attivismo frenetico e, nel migliore dei casi, la tensione intellettuale e lo slancio ideale. Il fallimento dei miti risorgimentali lascia in lui un vuoto senza speranza: la rappresentazione del presente è cupa e amara, senza luce ideale, senza possibilità di riscossa. Si presenta, per usare le sue parole come la “bancarotta del patriottismo”. Anche in questo caso il Risorgimento appartiene al cielo delle cose perfette che la realtà ha profanato: solo che in questo caso il contrasto fra ideale e reale e l’esperienza dello scacco, non sono più una vicenda personale e privata. Qualcuno ha potuto a tal proposito parlare di una posizione pirandelliana di tipo esistenzialista e di un’angoscia sorgente in lui dal drammatico scontro fra la tendenza all’infinito che è in noi e  i limiti della vita quotidiana. Credo che si possa escludere con sufficiente certezza una conoscenza diretta da parte di Pirandello dei testi dei padri dell’esistenzialismo: ma non si può certo escludere che egli cogliesse indirettamente, nel clima culturale degli anni a cavallo fra i due secoli, certe istanze che troveranno la loro espressione in quella corrente filosofica. Del resto lo stesso Pirandello dichiarò esplicitamente in un’intervista che “quei problemi erano unicamente suoi, erano sorti spontanei nel suo spirito, si erano naturalmente imposti al suo pensiero. Solo dopo, quando i suoi primi lavori teatrali apparvero, gli fu detto che quelli erano i problemi del tempo, che altri, come lui, in quello stesso periodo si consumavano su di essi”.
Tuttavia il suo eroe non è – come per Camus – Sisifo “simbolo dell’assurdità dell’esistenza umana sbilanceata fra la infinità delle aspirazioni e la finitezza delle possibilità”…, il suo eroe è don Chisciotte, cioè lo stesso Miguel Cervantes de Saavedra che aveva imparato a sue spese l’inanità del sogno di gloria, la vanità dei nobili ideali.
“Com’era stato egli rimeritato – scrive il Pirandello – del suo eroismo, delle due archibugiate e della perdita della mano nella battaglia di Lepanto, della schiavitù sofferta per cinque anni in Algeri, del valore dimostrato nell’assalto di Terceira, della nobiltà dell’animo, della grandezza dell’ingegno, della modestia paziente, che sorte avevano avuto i sogni generosi, che lo avevan tratto a combattere sui campi di battaglia e a scrivere pagine immortali? che sorte le illusioni luminose? S’era armato cavaliere come il suo Don Quijote, aveva combattuto affrontando nemici e rischi di ogni sorta per cause giuste e sante, s’era nutrito sempre delle più alte e nobili idealità, e qual compenso ne aveva avuto? Dopo aver miseramente stentato la vita in impieghi indegni di lui; prima scomunicato, da commissario di proviande militari in Andalusia; poi, da esattore, truffato, non va forse a finire in prigione? E dove è questa prigione? Ma lì, proprio lì nella Mancha! In un’oscura e rovinosa carcere della Mancha, nasce il Don Quijote”.
Ma in realtà era già nato prima: era nato il giorno in cui era venuto al mondo lo stesso Cervantes. Solo che non s’era ancora riconosciuto, “non s’era veduto ancor bene: aveva creduto di combattere contro i giganti e d’aver in capo l’elmo di Mambrino. Lì, nell’oscura carcere della Mancha, egli si riconosce, egli si vede finalmente; si accorge che i giganti erano molini a vento e l’elmo di Mambrino un vil piatto da barbiere. Si vede, e ride di se stesso. Ridono tutti i suoi dolori. Ah, folle! folle! folle! Via, al rogo, tutti i libri di cavalleria”.
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Don Chisciotte e Ronzinante, dipinto di Honoré Daumier
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Il modello di don Chisciotte

Il fatto è che Pirandello si riconosceva in quel personaggio e ne forzava, forse, l’interpretazione per renderlo più simile alla propria fisionomia. E certo don Chisciotte sono i modelli di perfezione che egli costruisce continuamente in se stesso e Sancio Panza è la smentita che ogni volta gli viene data dalla realtà e che egli considera come una profanazione. Tuttavia, anche se non è giusto parlare di un Pirandello esistenzialista, bisogna riconoscere che a una sensibilità nuova appartiene quell’esasperare le distanze fra il bene e il male, la purezza e l’abominio, l’ideale e il reale in modo da non poter più valutare i momenti intermedi e non saper più comprendere che esaltare gli uomini e le cose in un’atmosfera di perfezione comporta di necessità il precipitarli prima o poi in un abisso di disprezzo. Ma per Pirandello è proprio questa una delle nostre condanne, anzi la causa prima dell’inevitabile infelicità dell’uomo. Egli è infatti persuaso che l’unità della natura umana, quel flusso ininterrotto che – sia pure con mille contraddizioni – dovrebbe rappresentare la continuità della nostra persona, non può essere colto nel suo fluire dai nostri mezzi di conoscenza e che noi siamo condannati a vederci quasi pietrificati in singoli momenti staccati l’uno dall’altro. Possiamo in un certo senso assomigliarci a delle statue “a quella statua – ci dice il nostro autore – d’antico oratore, per esempio, che si vede in una nicchia, salendo per la scalinata del Quirinale. Con un rotolo di carta in mano, e l’altra mano protesa a un sobrio gesto, come pare afflitto e meravigliato quell’oratore antico d’esser rimasto lì, di pietra, per tutti i secoli, sospeso in quell’atteggiamento, dinanzi a tanta gente che è salita, che sale e salirà per quella scalinata!”.
Oppure, se vogliamo usare un’immagine più moderna, possiamo paragonare il modo in cui vediamo il fluire della nostra personalità a una serie di fotogrammi privi di ogni rapporto fra di loro: e così ci vedono gli altri fissandoci in uno dei nostri atteggiamenti e giudicandoci solo in base ad esso.
La vita insomma è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perchè noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili.
Del resto la stessa definizione di umorismo – dell’essenza stessa, cioè, della poetica pirandelliana – è legata a questo contrasto continuo fra una nostra illusione di perfezione e una volontà beffarda, che si diverte a farci vedere il rovescio della medaglia, l’altra faccia delle cose e degli uomini e quindi le deforma in una smorfia non sai se di riso o di pianto.
Nell’opera umoristica, la riflessione si mette sempre di fronte al sentimento da giudicare, lo analizza spassionatamente; ne scompone l’immagine e ne fa sorgere un altro sentimento, il sentimento del contrario. La concezione umoristica è come uno specchio d’acqua diaccia, in cui la fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza; il friggere dell’acqua è il riso che suscita l’umorista; il vapore che ne esala è la fantasia spesso un po’ fumosa dell’opera umoristica. Così ogni nostra illusione viene distrutta dall’implacabile apparire del suo contrario. Persino l’illusione di essere una sola persona e di conoscere la nostra anima.
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