GIORGIO DE CHIRICO – Pittura metafisica

GIORGIO DE CHIRICO

Pittura metafisica

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Pittore e scrittore italiano, nato a Volos in Grecia nel 1888 dove il padre, ingegnere costruttore delle ferrovie, si trovava per lavoro. Rimarrà segnato per tutta la vita dalla cultura classica e dall’atmosfera della Grecia.
I suoi studi, iniziati ad Atene, proseguono all’Accademia di Belle Arti di Monaco, dove De Chirico rimane influenzato dagli artisti e dagli scrittori romantici di fine secolo, che cercano di tradurre simbolicamente nelle loro opere il senso della morte e dell’aldilà (si formò sotto l’influenza di Arnold Böcklin).
Nel 1908 si trasferisce a Firenze.
Opere principali… “Ettore e Andromaca”, “Penelope”, “Le muse inquietanti”, “II filosofo ed il poeta”.
Due anni dopo è a Parigi, espose per la prima volta nel 1912 al Salone degli Indipendenti e i suoi lavori sono stati già notati da Pablo Picasso e da Apollinaire; di quest’ultimo eseguirà un ritratto in cui lo rappresenta, profeticamente, con la fronte ferita da una pallottola (come in effetti accadde in guerra dieci anni dopo).
La sua pittura è inizialmente caratterizzata dal tema dell’assenza.
I suoi paesaggi sono vuoti, le piazze deserte, immensi simulacri prospettici abitati da spettri.
In un periodo successivo la sua opera si popola di una umanità di manichini, di robot ciechi e sordi, di oggetti insoliti asserviti ad una incombente fatalità: la guerra.
Nel 1915 è a Ferrara, dove soffre di una grave depressione. Tra il 1915 e il 1925 creò il movimento della “pittura metafisica”, con le sue piazze classicheggianti e gli animali, gli uomini, le cose, presentati nelle loro parti componenti come manichini fantastici. Continuando la propria ricerca, definisce la “pittura metafisica” che cerca di strappare alle cose, al loro silenzio, alla loro inerzia qualche segreto soprannaturale.
A partire dal 1930 egli vive fra Parigi e l’Italia; nel 1944 si stabilisce definitivamente a Roma, orientandosi verso un “ritorno al mestiere”, avvicinandosi alla pittura secentesca. II vecchio pittore d’avanguardia ha infine assunto atteggiamenti totalmente negativi nei confronti dell’arte contemporanea.
Dopo aver riscoperto la pittura del Rinascimento italiano, vive un periodo neo-classico, durante il quale dipinge fiori, nature morte, cavalli al galoppo e autoritratti di eccellente fattura.
Muore a Roma nel 1978.

Le immagini del silenzio di Giorgio De Chirico

Scrivere, oggi, di Giorgio De Chirico e della sua opera senza lasciarsi fuorviare dagli aspetti più vistosi del mito nato intorno alla sua figura, non è facile. È difficile, infatti, liberarsi dai clichés stereotipati che, in tanti anni di attivissima presenza, di successi e di polemiche, si sono accumulati intorno al ‘personaggio’ De Chirico. Come non è facile, pure, disfarsi dei pregiudizi e rompere quella sorta di cristallizzazione critica che si è venuta formando nei riguardi della sua pittura, particolarmente di quella metafisica. Non è facile, cioè, dimenticare per un momento il senso ‘storico’, la funzione e il peso rilevante che la metafisica ebbe ad assumere durante i primi tre decenni del secolo, e considerare tale pittura per quello che essa è divenuta oggi, per il posto che essa occupa nella cultura dei nostri giorni. E’ fuori di dubbio che, a quell’epoca, più di una tendenza fu influenzata dalla personalità singolare dell’artista italiano, prime fra tutte le nascenti indagini surrealiste, che trovavano in questi quadri silenziosi e sconcertanti, congelati in un’intima e inquieta minaccia di terribili accadimenti latenti, un terreno di stimolo poetico, una finestra aperta sul mondo agitato e misterioso dell’inconscio. Max Ernst, Yves Tanguy e René Magritte, nei loro scritti, ricordano in modo esplicito l’incontro con la pittura di De Chirico, che fu per loro addirittura come una rivelazione, un’illuminazione improvvisa capace di aprire prospettive nuove e determinanti per il loro lavoro.
In Germania, le vicende del realismo magico e, soprattutto, della nuova oggettività di Christian Schad e Rudolf Schlichter, testimoniano dell’interesse che si nutriva per il senso di arcana sospensione, di intensità enigmatica della pittura metafisica, elementi questi che ritroviamo ben compresi e radicati nel realismo allucinato della “Neue Sachlichkeit”.

Mistero e malinconia di una strada (1914)
Giorgio de Chirico – Olio su tela cm 87 x 71,5 – Collezione privata

Nel 1914 De Chirico dipinge “Mistero e malinconia di una strada“, nel ’15 alcune delle sue più belle “Piazze d’Italia “, nel ’16 e nel ’17 “Il grande metafisico” e “Le muse inquietanti”. È il momento più intenso e alto dell’esperienza metafisica, quando ciò che poteva essere stato fino ad allora una sorta di complessa reazione al futurismo, una ricerca di ‘staticità’ da contrapporre ad un ‘dinamismo’ troppo spesso scomposto e ingiustificato, trovava invece le proprie profonde ragioni culturali nella sintesi del pessimismo esistenziale contrapposto all’ottimismo neo-positivista, in una poetica di amara ironia per il non-senso della vita. La guerra favorì questo processo di interiorizzazione, rafforzandone l’aggancio emotivo e il fascino intellettuale. Artisti come Carrà e Sironi, ma anche Morandi, Casorati, De Pisis e altri, si accostarono proprio in quegli anni all’esperienza metafisica, ritrovandovi quella dimensione di libertà e di serena introspezione che la brutalità e la drammaticità degli avvenimenti in corso negava loro.

Il grande metafisico (1917) Giorgio de Chirico
The Museum of Modern Art, New York
Olio su tela cm  104,5 x 69,8  

Nelle tele di quel periodo si incontrano elementi ricorrenti che costituiranno, poi, “l’imagerie” divenuta ormai classica di De Chirico. I manichini senza volto, le statue muliebri fissate in un gesto di stanchezza assorta e pensosa, i portici avvolgenti profondità misteriose e, poi, il tessuto irreale che regge i fondali della rappresentazione metafisica: “il silenzio”. Un silenzio che diviene quasi fisico, tangibile, denso di vibrazioni e di impercettibili echi palpitanti come se un grido, che da un momento all’altro potrebbe ripetersi, l’avesse appena squarciato. O ancora, negli ‘interni’, influenze cubiste più marcate affollano lo sfondo di squadre, di righe e compassi, e il legno dei manichini e dei cavalletti diviene materia privilegiata capace di insondabili metamorfosi, di sconcertanti allusioni.
Ma tali improbabili oggetti, accessori scenici indispensabili alla silenziosa teatralità del quadro, sono anche simboli muti, lettere di un alfabeto iconografico di cui pare ad ogni momento d’aver trovata la chiave, e che sempre rimanda, invece, al proprio mistero, al proprio esoterico potere emozionale, alle proprie profonde radici inconsce.
“De Chirico ha zittito i simboli “, … – ha scritto Wieland Schmied – … in lui possiamo vedere o questo o quello, leggere ciascuno i propri conflitti e le problematiche del nostro tempo. Può essere che la simbologia di De Chirico lo consenta, ma essa non è lì per questo. Quei simboli tacciono”.

Le muse inquietanti (1917-18) – Giorgio de Chirico
Collezione privata a Milano
Olio su tela cm 97 x 66 

Riguardando le opere di quel periodo e, per estensione, anche le più recenti nelle quali, spesso, sono ripresi temi già a lungo ‘replicati’, vien fatto di domandarsi, però, se un tale ‘silenzio’ del pittore non sia funzionale ad un modo singolare di accostare se stesso e di comprendersi, di scoprire la propria complessa umanità, le sorgenti della propria inquieta ispirazione. Non si può infatti negare validità e interesse all’interpretazione freudiana, intesa ad assumere l’opera come traslato onirico-poetico dell’inconscio, che è stata variamente tentata in questi anni da parecchi studiosi. Un’interpretazione, cioè, che ravvisa l’incombere della immagine materna, traumatizzante e oppressiva, sulla personalità dell’artista, e che vede nelle figure femminili pietrificate, nelle fontane e nei pozzi d’acqua stagnante, nelle architetture sfuggenti e nei porticati, í simboli dì un matriarcato soffocante a cui si contrappongono, come evidenti immagini di una rivalsa virile, le bocche dei cannoni, le statue equestri, i fumaioli e le torri. Mi pare chiaro, però, che i conflitti edipici e i complessi di colpa derivanti, non sono assolutamente sufficienti, da soli, a giustificare l’intensità psicologica dell’opera di De Chirico.
Max Ernst, a proposito dell’objet surréaliste, scriveva che accoppiando due realtà in apparenza non accoppiabili su di un piano che non s’addice loro, si ottiene un senso indefinibile, ‘autre’, un assoluto poetico. Il procedimento usato da De Chirico consiste in qualcosa di estremamente più inquietante e capace di suggestioni forse più vaste, in quanto utilizza ‘realtà’ già meditate e mediate da un filtro che risponde chiaramente d’una serie complessa di motivi culturali. Sono motivi che vanno dalla mitologia greca all’opera del Masaccio , di Giotto di Bondone, di Paolo Uccello, di Piero della Francesca e di Andrea Mantegna; dalle posizioni di Schopenhauer e di Nietzsche sul rifiuto dell’ottimismo neo-positivistico, all’ammirazione per le opere di Arnold Böcklin, di Max Klinger, di Stuck, ed altre ancora.
E’ già presente dunque, nella pittura metafisica, il nucleo dell’idea surrealista, da cui infatti De Chirico parte, precorrendo le indagini d’oltralpe, per esplorare il possibile nell’impossibile e il reale nell’immaginario, in una visione totalmente compromessa e pure distaccata e ironica, fredda.

Scrive De Chirico… ” Il sogno è un fenomeno stranissimo ed un mistero inspiegabile ma ancora più inspiegabile è il mistero e l’aspetto che la mente nostra conferisce a certi oggetti, a certi aspetti della vita… Guardiamo il soffitto e le pareti della camera e gli oggetti che ci circondano e gli uomini che passano giù nella via, e vediamo che non sono più quelli della logica di ieri, di oggi, di domani. Non riceviamo più impressioni, ma scopriamo continuamente nuovi aspetti e nuove spettralità… Noi metafisici abbiamo santificato la realtà”.

Egli va dunque oltre il visibile. in un viaggio che lo porta per mezzo dell’immaginazione a scoprire sensi nuovi e imprevisti nel quotidiano, nel banale, nell’ovvio.
Certo, come scrivevo più sopra, è difficile oggi misurare la portata e il valore reali di tale indagine e delle sue successive evoluzioni. Viviamo giorni di frattura, in cui l’uomo viene aggredito e alienato nella propria integrità dagli efficienti ingranaggi di una realtà che si dimostra ostile ai suoi bisogni più elementari, alle sue più intime potenzialità. Viviamo giorni di lotta per i quali la realtà, così com’è oggi, non può e non deve venire ‘santificata’ bensì contestata e modificata nei suoi termini più radicali. Ciò rimanda al dualismo immaginazione-rivoluzione di cui si occupava Breton. Se la pittura di De Chirico ci appare come una pittura del silenzio – ed è un silenzio certamente non tanto d’ordine formale, sul piano cioè di un dipingere allucinato ed ermetico, quanto relativo alla comunicazione concettuale dell’opera – dipende forse dal fatto che egli ha assolto al primo soltanto dei due termini dell’equazione bretoniana? O invece può essere che nell’urto e nella frizione quotidiana tra realtà e rivoluzione, tra le cose e l’uomo, così come queste frizioni si manifestano oggi, si perdono e si rarefanno per noi i propositi metafisici?
Non è, ad ogni modo, una questione di attualità: i problemi sollevati dalla pittura di De Chirico sono problemi eterni, relativi alla condizione umana colta nelle sue forme più elevate di espressione poetica. Ciò che invece può dare adito a qualche perplessità, è piuttosto una considerazione che coinvolge la qualità di tali problemi, in un tempo in cui si pone drammaticamente l’urgenza, a livello individuale e collettivo, di scelte precise e chiare quanto al rapporto tra libertà interiore e libertà oggettiva, tra libertà poetica e libertà civile.

Nessun pittore del fantastico, soltanto ad eccezione, forse, del doganiere Henri Rousseau, ha raggiunto mai tanta intensità di sogno, un simile grado di inquietudine. Giorgio De Chirico ama l’enigma, il tragico, il mistero: ha interpretato tutto il proprio vivere come un arcano; e per i contemporanei, amici e nemici, nella sua lunga vita mutevole rimane un enigma lui stesso.

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