5 MAGGIO – Alessandro Manzoni

5 MAGGIO

Alessandro Manzoni

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5 maggio 1821: Napoleone Bonaparte, che aveva sconvolto l’Europa con le sue guerre vittoriose, muore nella piccola isola di Sant’Elena sperduta nell’Oceano Atlantico sconfinato. Quando Manzoni ne apprende la notizia resta così commosso che compone quest’ode di getto, in soli tre giorni, dal 17 al 19 giugno, mentre la moglie, pregata dal poeta, suonava al piano musica eroica. In quei tre giorni egli rivive l’epopea napoleonica e rappresenta, in sintesi potente e serrata, il dramma angoscioso del dominatore che conobbe la fuga e la vittoria, le sconfitte e l’altare, il trono e l’esilio. Le strofe più poetiche e commosse dell’ode sono quelle che rievocano il grande Corso nella “breve sponda” di Sant’Elena, quando travolto dall’onda dei ricordi, si sente oppresso dalla disperazione; ed è allora che Dio conforta la sua lenta agonia, aprendogli il cuore alla fede e alla speranza.

Anche quest’ode è ispirata alla concezione cristiana che della storia ebbe il Manzoni: i grandi eventi e le più umili vicende, la peste e le carestie, le gioie e i dolori, il dramma di Lucia e quello di Napoleone sono il segno sulla terra della volontà di Dio, che li permette per un suo fine imperscrutabile di giustizia e di bene. Anche il superbo Imperatore f strumento della Provvidenza divina che volle, servendosi di lui, stampare sulla terra un’orma più vasta della sua potenza. E fu la stessa Provvidenza, poi, che dal solitario letto di morte lo avviò alla felicità dei cieli “dov’è silenzio e tenebre – la gloria che passò”.

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5 MAGGIO

Ei fu. Siccome immobile

dato il mortal sospiro,

stette la spoglia immemore

orba di tanto spiro,

così percossa, attonita

la terra al nunzio sta,

muta, pensando all’ultima

ora dell’uom fatale; *

* Egli è morto (“ei fu”…in tutta l’ode Napoleone non viene mai nominato; sarebbe stato inutile perché tutto il mondo non parlava che di lui). Come la salma, dopo che ebbe emesso l’ultimo respiro, rimase immobile e dimentica di tutto (“immemore”), priva (“orba”) di un’anima così grande (“di tanto spiro”), così il mondo (“la terra”) colpito da tanta notizia rimane sgomento e muto, riflettendo sull’ultima ora di un uomo cui il destino ha riservato un compito tanto importante nella storia (“uomo fatal”).
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né sa quando una simile

orma di piè mortale

la sua cruenta polvere

a calpestar verrà. *

* né sa immaginarsi, il mondo, quando un uomo così grande tornerà a calpestare (“orma di piè mortale”) la polvere sanguinosa della terra.
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Lui folgorante in solìo

vide il mio genio e tacque;

quando, con vece assidua,

cadde, risorse e giacque,

di mille voci al sonito

mista la sua non ha. *

* Il mio estro poetico lo vide, splendente di gloria, sul trono (“in solìo”) e tacque; quando, con alterna vicenda (“vede assidua”) cadde (battaglia di Lipsia, 1813), risorse (ritorno dall’isola d’Elba, nel marzo del 1815) e giacque (Waterloo, 18 giugno 1815), il mio genio non ha mescolato la sua voce al suon (“sonito”) di mille altre.
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Vergin di servizio encomio

E di codardo oltraggio, *

* (il mio genio) non macchiato da servile adulazione (quando Napoleone era nel pieno della gloria) né da un vile oltraggio (come quello di coloro che si scagliarono su di lui, dopo ch’era stato sconfitto)
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sorge or commosso al subito

sparir di tanto raggio:

e scioglie all’urna un cantico

che forse non morrà. *

* si leva ora commosso, di fronte alla scomparsa di una così vivida luce (“di tanto raggio”) e scioglie alla tomba (“urna”) un canto che forse non morirà.
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Dall’Alpi alle Piramidi,

dal Manzanarre al Reno,

di quel securo il fulmine

tenea dietro al baleno;

scoppiò da Scilla al Tanai,

dall’uno all’altro mar. *

* Dalle Alpi (allusione alle due campagne d’Italia condotte da Napoleone nel 1796 e nel 1800) alle Piramidi (campagna d’Egitto, 1798-1799), dal Manzanarre (campagna di Spagna: il Manzanarre è il fiume che bagna Madrid) al Reno (le diverse imprese in Germania. Il Reno è un fiume tedesco), l’azione fulminea (“il fulmine”) di quell’uomo sicuro di sé, seguiva immediatamente il pensiero (“baleno”) che l’aveva progettata, scoppiando (il “fulmine”, cioè l’azione) da Scilla (località all’estrema punta d’Italia, di fronte a Messina) al Tanai (il fiume Don in Russia), da un mare all’altro.
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Fu vera gloria? Ai posteri

L’ardua sentenza; nui

chiniam la fronte al Massimo

Fattor, che volle in lui

Del creator suo spirito

Più vasta orma stampar. *

* Fu vera gloria? La difficile risposta (“ardua sentenza”) la daranno le generazioni future (i “posteri”), noi (“NUI”) inchiniamo la fronte a Dio (“Massimo Fattor”) che volle imprimere in lui un più vasto segno (“più vasta orma stampar”) della sua potenza creatrice (“del creator suo spirito).
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La procellosa e trepida

Gioia d’un gran disegno;

l’ansia d’un cor che indocile

serve, pensando al regno,

e il giunge, e tiene un premio

ch’era follia sperar; *

* Egli sperimentò tutto (“tutto ei provò”): la gioia tempestosa (“procellosa”) e trepidante di chi medita grandi progetti; l’ansia di uno spirito che si adatta, insofferente, a servire, mentre sogna di dominare. E questo sogno realizza (“e il giunge” e conquista un premio che era follia sperare di ottenere;
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tutto ei provò: la gloria

maggior dopo il perielio,

la fuga e la vittoria,

la reggia e il triste esiglio:

due volte nella polvere,

due volte sull’altar. *

* (tutto sperimentò): la gloria, tanto più grande perché ottenuta col pericolo, la fuga e la vittoria, la reggia e l’esilio; due volte sconfitto (“nella polvere”), due volte al massimo della potenza (“sull’altar”: riferimento alle vicende precedenti e successive alla battaglia di Lipsia).
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Ei si nomò: due secoli,

l’un contro l’altro armato,

sommessi a lui si volsero,

come aspettando il fato;

ei fe’ silenzio, ed arbitro

s’assise in mezzo a lor. *

* Egli pronunziò il suo nome (come in atto di comando) e due secoli (il ‘700 illuminista e l’800 romantico) avversi l’uno all’altro si sottomisero a lui, attendendo, dalle sue decisioni, la propria sorte. (Napoleone è qui rappresentato arbitro di una intera fase storica).
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E sparve; e i dì nell’ozio

chiuse in sì breve sponda,

segno d’immensa invidia,

e di pietà profonda,

d’inestinguibil odio

e l’indomato amor. *

* Eppure quest’uomo è scomparso; i suoi giorni si sono conclusi nell’ozio forzato dell’esilio in una piccola isola (“sì breve sponda”) mentre egli era fatto segno di invidia immensa e di profonda pietà, di odio inestinguibile e di amore indomato.
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Come sul capo al naufrago

L’onda s’avvolve e pesa,

l’onda, su cui del misero,

alta pur dianzi e tesa,

scorrea la vista a scernere

prode remote invan; *

* Come l’onda turbina (“s’avvolve”) e si abbatte (“pesa”) sul capo del naufrago, l’onda sulla quale fino a pochi momenti prima (“pur dianzi”) si stendeva lo sguardo del misero nel vano tentativo di scorgere (“tesa…a scernere…invan”) una terra lontana (“prode remote”);
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tal su quell’alma il cumulo

delle memorie scese!

Oh quante volte ai posteri

Narrar se stesso imprese,

e sull’eterne pagine

cadde la stanca man! *

* così su quell’anima (Napoleone) scese il cumulo dei ricordi. Quante volte cominciò (“imprese”) a narrare la sua vita (“se stesso”) ai posteri, e sulle pagine che sarebbero dovute restare immortali (er la grandezza delle vicende narrate) cadde la mano stanca!
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Oh! Quante volte, al tacito

morir d’un giorno inerte,

chinati i rai fulminei,

le braccia al sen conserte,

stette, e dei dì che furono

l’assalse il sovvenir. *

* Quante volte, chinati gli occhi lampeggianti, stette immobile, le braccia conserte, dinanzi al silenzioso tramonto di un giorno inerte e lo assalì il ricordo dei giorni passati (“dei dì che furono”).
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E ripensò le mobili

tende, e i percossi valli,

e il lampo dei manipoli,

e l’onda dei cavalli,

e il concitato imperio,

e il celere ubbidir. *

* E ripensò agli accampamenti (“le mobili tende”) e alle fortificazioni nemiche battute dalle artiglierie ((“percossi valli”), al lampeggiare delle armi dei suoi reparti, alla cavalleria lanciata, come un’onda, all’assalto; ai suoi ordini imperiosi e concitati e alla pronta ubbidienza dei suoi.
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Ah! Forse a tanto strazio

cadde lo spirto anelo,

e disperò; ma valida

venne una man dal cielo,

e in più spirabil aere

pietosa il trasportò; *

* Forse l’animo angosciato (“lo spirto anelo”) si abbattè (“cadde”) a così straziati ricordi, finendo nella disperazione; ma venne una mano dal cielo a soccorrerlo e lo trasportò in una atmosfera più respirabile;
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e l’avviò per floridi

sentier della speranza,

ai campi eterni, al premio,

che i desideri avanza,

dov’è silenzio e tenebre

la gloria che passò. *

* e lo avviò, per i fioriti sentieri della speranza, al regno dei cieli (“ai campi eterni”), a quel premio che supera (“avanza”) ogni umano desiderio, dove la gloria terrena (“la gloria che passò”) altro non è che silenzio e tenebra, cioè non è più nulla.
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Bella Immortal! benefica

fede ai trionfi avvezza!

Scrivi ancor questo, allègrati:

ché più superba altezza

al disonor del Golgota

giammai non si chinò. *

* Bella, immortale fede, benefica, abituata a trionfare, aggiungi anche questo ai tuoi trionfi, rallegrati: perché nessun uomo mortale più grande (“più superba altezza”) di Napoleone si chinò alla Croce (“disonor del Golgota”: la croce rappresentava per gli ebrei un supplizio infante).
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Tu dalle stanche ceneri

Sperdi ogni ria parola:

il Dio, che attera e suscita,

che affanna e consola,

sulla deserta coltrice

accanto a lui posò. *

* Tu (o fede) allontana ora dalle ceneri di quell’animo tanto provato dalla sorte (“stanche”) ogni parola d’odio: Dio, che dà e toglie la potenza (“atterra e suscita”), che dà affanno e consolazione, stette accanto a lui morente, quando tutti gli uomini lo avevano abbandonato, solo, sul letto di morte (“sulla deserta coltrice”).

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CONCLUSIONI

L’ode si compone di diverse parti: incomincia col voler dare l’impressione di sbigottimento che si diffonde all’annuncio della morte di Napoleone. Il poeta che mai si era abbassato a adulare il trionfatore vivo, né mai si era macchiato di viltà condannandolo dopo la caduta, si sente ora tutto commosso dalla notizia della morte, e soprattutto della morte cristiana di quel grande. E da questa commozione nasce un canto che è pieno di simpatia, in parte anche per la figura dell’eroe, ma più per quella del vinto e, specialmente, dell’infelice, che attraverso la sofferenza, trova la via della salvezza eterna.

Cosciente il Manzoni del fascino che sopra di lui esercitava la singolare figura, non la giudica da storico; ma vede in essa, più che in ogni altra, un’orma della grandezza del Creatore. Dopo la descrizione delle fulminee imprese militari e dopo aver investigato l’anima di questo grande e averlo indicato all’apice della gloria, arbitro del destino di due secoli, improvvisamente il Manzoni ricorre al significativo: e sparve.

Nonostante questa gloria, di colpo, non fu più nulla; la strofa, che è tutta un contrasto con le precedenti, rivela nel poeta un profondissimo conoscitore dell’anima umana, la quale scende all’abiezione dell’invidia come si nobilita nella pietà della sventura; che odia e ama con indomabile forza.

Non è molto felice nel tono un po’ macchinoso la similitudine dell’onda: ricordo che è fatto perché si senta, attraverso il peso dell’acqua che seppellisce il naufrago, il peso delle memorie che grava sull’anima di Napoleone; un peso invincibile, superiore alle sue forze e nel “tacito morir di un giorno inerte”, avvertì la condanna dell’inerzia che è la più terribile per un uomo di azione; si avverte l’amarezza di un silenzio che è dato dall’infinita distesa di mare che circonda l’isola e crea un distacco insormontabile fra il condannato e tutto il resto del mondo. E’ logico che in tanta desolazione il ricordo assalisse l’uomo con una forza soverchiante, travolgente: è quello che il Manzoni ti fa sentire nei suoi versi che sono i più concitati di tutta l’ode e che con ritmo celerissimo accresciuto dal polisindeto (un legame di parole e frasi) rendono perfettamente l’idea di un fulmineo incalzare dei fatti. Tanta concitazione prepara la situazione seguente: la furia dei ricordi soffoca l’anima umanamente incapace di sostenerli e la getta sull’orlo di un abisso: la disperazione.

Da qui fino alla fine, l’ode è più manzoniana che mai: il concetto cristiano di una fede che purifica attraverso la sofferenza è espresso in modo perfetto; la potenza di una grazia che viene dal cielo è tutta presente in quel “valida mano” e in quel “pietosa”, che suona contrastante con l’immensa invidia degli uomini. Nell’”avviò” si sente il paziente lavoro di tanta grazia che a poco a poco distoglie l’animo dalle terrene meditazioni, sterili di consolazione, e lo incammina per i sentieri della speranza, verso serene visioni soprannaturali (i campi eterni), verso la certezza di un premio che supera l’umana attesa perché sarà infinitamente più bello di tutte le umane glorie.

A questi concetti così rispondenti alle convinzioni religiose del Manzoni, si aggiunge la pietà dell’uomo per l’infelice che soffre: da questa pietà esce la preghiera con la quale l’ode si chiude: nessuno insulti un infelice che si è purificato nella sofferenza e ha meritato così la presenza di Dio accanto a sé in un trapasso che, senza questo Dio, sarebbe stato disperato, in una disperata solitudine.

L’esplorazione dei meccanismi politici che governano il mondo, accanto alla meditazione sul destino ultraterreno dell’uomo, è l’interesse fondamentale di Manzoni. In questa ode, che egli scrisse nel luglio del 1821 dopo essere venuto a conoscenza della morte di Napoleone, domina il tema del potere visto nella sua prospettiva storica e soprattutto in quella teologica. Dapprima il poeta rappresenta la fulminea vicenda di Napoleone vittorioso e non la giudica, ma si astiene anzi da quella condanna del potere terreno, inevitabilmente iniquo, che aveva pronunciato nelle tragedie. La riflessione storico-teologica è qui ancora incentrata sulla figura dell’uomo singolo che domina gli eventi (così come nel caso di Carmagnola, Adelchi, Desiderio e Carlo Magno). Solo più avanti, con il romanzo, Manzoni individuerà, come veri soggetti della storia, le masse.
Nella seconda parte della poesia, la storia di Napoleone assume significato esemplare, dimostrando come la gloria umana sia fragile e caduca rispetto a quella divina. Il sogno di potere del grande condottiero infatti crolla e solo attraverso la fede egli recupera la speranza dell’eternità, invano attesa dalla gloria terrena. Infine può trovare la pace fra le braccia di Dio, unico arbitro dell’operare umano, il solo che può veramente consolare l’uomo delle sue cadute e delle sue sofferenze.

Anche in questo caso vi è un confronto tra realtà e ideale. La realtà è quella della storia, in cui Napoleone viene sconfitto; l’ideale è il premio divino nell’aldilà: un obiettivo difficile, ma – secondo Manzoni – raggiungibile attraverso la fede.

In questa poesia di Manzoni, il contrasto romantico tra ideale e reale viene composto in una concezione cristiana del mondo.
Nel periodo successivo alla conversione, Manzoni scrisse oltre agli “Inni sacri”, le due liriche: “Marzo 1821”, dedicata ai moti piemontesi e “5 maggio”, in morte di Napoleone Bonaparte.
Manzoni apprese solo il 17 luglio del ‘21, dalla “Gaz­zetta”, della scomparsa di Napoleone, avvenuta oltre due mesi prima nell’Isola di Sant’Elena, e ne fu profondamente emozionato. Significativo il suo commento…

“Che volete? era un uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare; il maggior tattico, il più infaticabile conquistatore, colla maggior qualità dell’uomo politico, il saper aspettare, il saper operare. La sua morte mi scosse, come al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale; fui preso da smania di parlar ne e dovetti buttar giù quest’ode, l’unica che, si può dire, improvvisassi in men di tre giorni. Ne vedevo i difetti ma sentivo tale agitazione, e tal bisogno di uscir ne, di metterla via, che la mandai al censore. Questi mi consigliò di non pubblicarla, ma dal suo stesso uffizio ne uscirono le prime copie a mano”.

Parole illuminanti circa l’ispirazione dell’ode, il suo significato. In un impianto grandioso – come grandiosa è la vicenda cui si riferisce – la lirica ha un andamento insieme solenne e stringato, meditativo e di azione, tanto da far parlare di “taglio cinematografico” dei versi, per la vigoria e la capacità di sintesi con le quali i fatti sono delineati. Alcuni critici hanno definito il “5 maggio” un esempio del “barocco” manzoniano, confortati in questo dalla osservazione di Francesco De Sanctis che, riferendosi all’ode, affermava appunto…

“Si tratta di fare con la parola quello che fa il pittore: non rompere le distanze, sopprimere i tempi, togliere la successione degli avvenimenti, fonderli, aggrupparli, e di tanti avvenimenti, diversi per tempi e per luoghi, formarne uno solo che pro duca impressione istantanea”.

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