Ignora il numero grande di società segrete d’ogni tipo, prima, e di circoli mazziniani, poi, che pullularono in tutta Italia nella prima metà dell’Ottocento. Dimentica l’intervento totalitario del popolo nelle grandi rivolte del 1848 e del 1849. Conosce la spedizione dei Mille e non sa che questa spedizione si trasformò ‘in un esercito di oltre 30.000 uomini per l’azione continua e tenace di centinaia di comitati sorti in tutta la penisola, ai quali davano la propria attività e il proprio denaro decine di migliaia di persone. Non ricorda che nelle terre meridionali numerose bande d’insorti affiancarono l’esercito garibaldino e che l’intero popolo di Napoli accolse in trionfo il dittatore, paralizzando le truppe borboniche ancora accasermate nella città.
All’inizio, senza dubbio, la loro adesione non fu completa e gli strati più arretrati reagirono in senso negativo. L’avvio al Risorgimento, infatti, fu dato dall’intervento militare della Francia, i cui capi sia durante l’epoca repubblicana che durante l’epoca napoleonica, accompagnarono la propria azione politica rinnovatrice con la rapina economica, sollevando lo sdegno dei colpiti.
Dal canto loro anche i borghesi italiani, quando ebbero il potere, identificarono negli interessi del paese e considerarono naturale, anzi necessaria, la subordinazione e l’asservimento delle classi inferiori.”La destinazione naturale della plebe fu e sarà sempre il lavoro materiale e la clientela verso le classi alte, la condanna all’inerzia dell’intelletto e all’ignoranza. Essa è il braccio dello Stato e nulla più; se verrà chiamata alle opere dell’intelligenza e dell’agiatezza, si avrà il disordine e la morte della libertà”, …. così scriveva il 1° luglio 1848 il giornale borghese e liberale di Modena dal titolo Il Vessillo italiano.
Fu quindi facile ai gruppi reazionari, che pur costituivano una minoranza sollevare, con l’aiuto di una parte del clero, in alcuni momenti e in alcune regioni bande di contadini arretrati o di sottoproletariato, incitandole alla controrivoluzione in nome della fede minacciata e della sospensione delle elemosine.
Col procedere del tempo e degli avvenimenti le masse popolari acquistarono, in misura e in numero sempre più grandi, la convinzione che la lotta per fare uscire l’Italia dallo stato di soggezione e di scadimento nel quale si trovava da secoli, riportandola al livello delle nazioni europee più moderne, tornasse anche a loro vantaggio.
Anch’esse fecero coincidere i loro interessi con quelli della causa nazionale. Questo avvenne anche perchè gli strati più avanzati della borghesia italiana compresero che la vittoria sulle forze conservatrici non poteva essere conseguita senza la partecipazione delle masse popolari. Gli uomini che li rappresentavano inclusero nei loro programmi il miglioramento delle condizioni delle classi subalterne e si rivolsero al popolo.
L’ultima superstite forma di resistenza reazionaria popolare, il brigantaggio, esistente in alcune regioni meridionali, si trasformò ben presto da rivolta politica in rivolta sociale. Anche il movimento popolare, quindi, diventò una componente del Risorgimento italiano, non meno del movimento della borghesia moderata e del movimento della borghesia avanzata.
E come questi ultimi ebbero i loro uomini rappresentativi in Camillo di Cavour e in Giuseppe Mazzini, il movimento popolare trovò l’uomo che ne incarnò gli ideali e ne divenne l’eroe in Giuseppe Garibaldi.
Garibaldi con la camicia rossa a Montevideo (dìsegno dal vero dell’Ammmiraglio inglese Winnington-Ingram) |
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La gioventù di Giuseppe Garibaldi
Non a caso alcuni gruppi politici dalle idee più avanzate che esistettero in Italia nella prima fase del Risorgimento, si formarono nell’ambiente delle città marinare e, particolarmente, a Genova e a Livorno.
Prima di Giuseppe i Garibaldi avevano avuto un figlio; altri due maschi nacquero negli anni seguenti; ultima, una bambina che morì ancora nella prima infanzia. La famiglia Garibaldi era originaria di Chiavari; la famiglia Raimondi di Loano. Quando, poi, il nome di Garibaldi acquistò fama nel mondo, furono inventate per lui ascendenze illustri, quali Teodoro von Neuhof, effimero re di Corsica, il duca Garibaldo di Baviera e il longobardo duca Garibaldo di Torino. Naturalmente si trattava di pure fantasie.
A otto anni salvò una donna in procinto di annegare e a tredici ricondusse a salvamento una barca in pericolo per un’improvvisa tempesta.
Si era negli anni di trapasso fra il periodo napoleonico, dominato dalle idee della Rivoluzione francese, e il periodo della Restaurazione sabauda, dominato dalle idee dell’oscurantismo clericale. I maestri di Garibaldi erano uomini del periodo napoleonico e i concetti che essi insegnarono al loro allievo furono quelli di patria, di libertà e di indipendenza.
La navigazione, in quei tempi, anche quando si svolgeva in mari di non grande estensione, non era un’impresa facile e tranquilla. Anche Garibaldi subì traversie d’ogni genere, si trovò in un naufragio; la sua nave fu assalita più volte dai pirati; si ammalò a Costantinopoli e fu abbandonato nella città, dalla quale non si potè allontanare per parecchi mesi.
Nel 1832 fu regolarmente iscritto fra i capitani di mare del dipartimento di Nizza. Durante questi viaggi ebbe l’occasione di recarsi a Roma e di soffermarci a contemplare con profonda commozione le imponenti rovine. Cercava intanto di migliorare la sua cultura studiando con gli scarsi mezzi che aveva a disposizione, leggendo i pochi libri che gli capitavano in mano ed ascoltando coloro che ne sapevano più di lui.
Il primo ebbe luogo nel marzo 1833. In quel mese si imbarcò a Marsiglia, sul brigantino Clorinda, del quale Garibaldi era secondo ufficiale, un gruppo di esuli sansimonisti, che lasciava la Francia per recarsi nel Medio Oriente. Il loro maestro, Enrico di Saint Simon, morto otto anni prima, era stato uno dei numerosi uomini che in Francia dopo l’esaurimento della Rivoluzione e il ritorno, più apparente che reale, delle classi privilegiate al potere, cercarono di rimettere in moto le correnti rinnovatrici, facendo un passo avanti sul piano sociale.
Il Saint Simon sosteneva che il potere dovesse essere affidato ai produttori di ricchezza, cioè agli industriali, a banchieri e ai mercanti. Costoro, però, dovevano agite a favore dell’interesse pubblico e, particolarmente, promuovere il miglioramento delle condizioni di vita degli operai, elemento fondamentale e necessario della produzione. Nei loro rapporti, imprenditori e lavoratori dovevano essere guidati da un superiore spirito di solidarietà umana, dai concetti di un nuovo cristianesimo. Il Saint Simon, per diffondere le sue idee, scrisse appunto un’opera con questo titolo. Dopo la sua morte, fra i discepoli nacquero aspre controversie; vi fu chi accentuò la parte scientifica e industriale della dottrina; chi invece fece del sansimonismo una specie di socialismo utopistico, con sfumature mistiche.
Garibaldi si avvicinò al loro capo, Emilio Barrault, e si presentò come un patriota italiano. Durante le lunghe notti fresche e stellate del Mediterraneo meridionale, i due uomini discussero a lungo.”Sulle prime l’apostolo mi provò, narrò Garibaldi al Dumas, che l’uomo, il quale difende la sua patria o che attacca l’altrui paese, non è che un soldato pietoso nella prima ipotesi, ingiusto nella seconda, ma che l’uomo, il quale facendosi cosmopolita, adotta l’umanità per patria e va a offrire la spada ed il sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannia, è più di un soldato: è un eroe”.Parole che penetrarono a fondo nell’animo di Garibaldi e vi rimasero. Esse contribuirono a formare la base morale della sua partecipazione a guerre in favore di popoli stranieri, lontano dal territorio della patria.
Più ampiamente ne scrisse, invece, il suo amico Giambattista Cuneo, che fu per tutta la vita un fervente mazziniano.”NeI 1811 – raccontò – trovandosi Garibaldi in Taganrog, capitò in una locanda dove eransi riuniti molti marinai di molte parti d’Italia, i quali delle umilianti condizioni di questa avevano fatto doloroso argomento ai loro discorsi. Era tra costoro un giovane, il Credente… il quale affannavasi a far concepire ai poco creduli compagni speranze di lieto e glorioso avvenire alla patria comune. Garibaldi, dal fondo della sala, porge€va attento orecchio a quel ragionare e alla fine, non potendo più trattenersi, correva verso lo sconosciuto giovane e, col trasporto che ben manifestava I’ardore dell’animo, stringevalo al suo seno. Da quel giorno ei divenne l’amico del cuore di quel credente che lo iniziò alle dottrine della Giovine Italia”.Chi era il credente? Probabilmente lo stesso Cuneo, che racconta la scena come se ne fosse stato il protagonista. Alcuni storici, invece, lo negano.
Il cospiratore della Giovine Italia
Queste convinzioni non se le era fatte con lo studio di un uomo politico o di un filosofo, ma raccogliendole un po’ ovunque e un po’ da tutti, nella sua città, nei porti del Mediterraneo e del Mar Nero e sul mare. Erano, in realtà, le idee che una gran parte degli Italiani nutriva, anche se inespresse e che fremevano nell’atmosfera della penisola. Inoltre, dalla sua professione di marinaio, Garibaldi aveva imparato che non bisognava limitarsi a pensare, ma bisognava anche agire ed agire subito.
Proprio in quell’anno era avvenuta ed era stata scoperta la cospirazione militare promossa da Mazzini in Piemonte e in Liguria. Nel momento nel quale Garibaldi e Mazzini si incontravano, in Piemonte si stavano svolgendo i processi contro i cospiratori; quattordici martiri avrebbero consacrato con la loro vita l’eroico tentativo e coperto d’infamia il nuovo re Carlo Alberto. L’insuccesso non aveva però scoraggiato il Mazzini, che stava progettando una seconda impresa insurrezionale. Una colonna di volontari, adunata in Francia e in Svizzera, avrebbe dovuto penetrare in Savoia, giungere in Piemonte e sollevare gli elementi democratici dell’esercito e della popolazione.
La spedizione di Savoia doveva essere accompagnata da una sommossa in Genova e da un ammutinamento nella marina militare. Garibaldi fu incaricato di far proseliti fra i marinai delle navi da guerra in rada a Genova.
Garibaldi e Mazzini |
L’impresa di Savoia fallì. A Genova, Garibaldi fu avvertito che il 4 febbraio i cospiratori avrebbero assalito una caserma. Sceso a terra con il pretesto di una malattia, vi si recò, ma invano attese per qualche tempo. Tutto rimaneva nella più grande tranquillità. Fu invece avvertito che già la polizia stava procedendo agli arresti e che, anzi, uno dei primi a cadere nelle sue mani era stato il suo amico e compagno di cospirazione Edoardo Mutru. Garibaldi non pose tempo in mezzo; travestitosi, riuscì a raggiungere il confine con la Francia, lo varcò e si mise in salvo. In contumacia il tribunale militare lo condannò a morte.
Tornato a Marsiglia nel 1835, mentre vi infieriva una epidemia di colera, diede assistenza ai malati, sfidando il contagio. In ultimo, essendogli stato offerto un ingaggio sul brigantino Nautonier, lo accettò e salpò verso il Brasile.
La guerra da corsa e la guerriglia per la repubblica del Rio Grande del Sud
Pochi anni prima, nel 1831, il vecchio imperatore brasiliano, don Pedro I era stato costretto ad abdicare in favore del figlio, don Pedro II, ancora bambino. Il nuovo regime, per venite incontro ai malcontenti, aveva fatto molte concessioni in senso liberale, ma alcune regioni del Brasile non si erano accontentate e volevano una forma istituzionale più avanzata.
Nel 1835 una delle più ricche regioni del Brasile, il Rio Grande del Sud, la cui capitale era Porto Alegre, si era separata dal resto del paese e aveva proclamato la repubblica. Il governo centrale aveva mandato un esercito per domare la ribellione ed era scoppiata la guerra.
Uno dei dirigenti del nuovo piccolo Stato era un italiano il conte Livio Zambeccai, il quale, però, fatto prigioniero, era stato rinchiuso nel forte di Santa Cruz, nella baia di Rio de Janeiro.
Il Rossetti e il Garibaldi ebbero il permesso di far visita al Zambeccari, il quale, pur dentro la sua prigione, continuava ad operare per la repubblica riograndese. Egli si assicurò la partecipazione dei suoi due compatrioti alla lotta che stava conducendo e dopo pochi giorni fece aver loro una lettera di corsa, cioè una autorizzazione ufficiale a fare la guerra da corsa contro le navi dell’impero brasiliano, da guerra e mercantili, assalendole con le armi. Questo tipo di guerra, allora, era considerato legittimo e vi erano stati corsari inglesi, francesi e olandesi, il cui nome era salito a grande fama.
Combattendo per il Rio Grande, Garibaldi, Rossetti e i loro compagni erano convinti di combattere anche per l’Italia, perchè, a loro modo di vedere, la causa era comune.
All’inizio del Risorgimento, alla testa delle formazioni militari del periodo carbonato vi furono gli ufficiali che avevano fatto carriera negli eserciti napoleonici, cominciando dai gradi più bassi e arrivando ai più alti.
I nomi più noti di questi veterani napoleonici, che furono tra i protagonisti delle vicende italiane dal 1820 al 1831, furono quelli dei generali Gabriele, Guglielmo e Florestano Pepe e Pietro Colletta, napoletani; Carlo Zucchi e Giuseppe Sercognani, emiliani; Giuseppe e Teodoro Lechi, lombardi; e dei colonnelli Michele Regis e Guglielmo Ansaldi piemontesi.
Nel 1848-49 tutti questi esuli accorsero in Italia ed entrarono nell’esercito piemontese, nel pontificio, oppure, come il valoroso Antonini, assunsero il comando dei volontari in Lombardia e nel Veneto.
La prima sconfitta di Custoza, che pose termine alla guerra del 1848, fu dovuta alla inerzia del comando piemontese e particolarmente alle deficienze del re Carlo Alberto e del capo di S.M. Eusebio Bava.
La seconda sconfitta di Custoza, che determinò il fallimento della guerra italiana nel 1866, fu dovuta alla incredibile incapacità del massimo esponente militare piemontese, il generale Alfonso La Marmora. Anche gli elementi provenienti dalle file liberali e i generali passati dall’esercito borbonico all’italiano dopo il 1860, e persino quelli, infine, che si erano battuti agli ordini di Garibaldi nel 1848, nel 1859 e nel 1860 (Medici, Cosenz, Sirtori e Bixio), divenuti generali dell’esercito italiano, furono soffocati dall’immobilismo e dal conformismo dell’ambiente, perdendo gran parte del loro valore.
Per quanto riguarda i generali questo modo dl pensare era diffuso anche in Italia, dove era considerato un motto di spirito dire che l’esercito italiano aveva il corpo di un leone, ma la testa era di un asino. Ecco perchè, quando apparve un capo militare dotato di qualità che i generali dell’esercito regolare non possedevano, prontezza, rapidità di concezione e di esecuzione, capacità di porre in atto stratagemmi e di eseguire manovre tali da ingannare il nemico, questo capo conquistò subito l’ammirazione del popolo. Il quale, quasi per reagire al malcelato disprezzo dell’alta società italiana, degli uomini di governo e dei gerarchi della casta militare, considerava Garibaldi come il più abile fra i generali e lo esaltava come invincibile. Se, contrariamente a questa lusinghiera opinione, egli subiva un insuccesso) non per questo la fiducia diminuiva. La colpa era attribuita a tutti, meno che a lui.
Garibaldi si abituò a non smarrirsi e a non titubare mai, a rendersi immediato conto della realtà e ad adattarvi le sue forze, a sapersi imporre non con la forza, ma con il prestigio ai suoi soldati, domandando loro la vita, se necessario, ma non sprecandola.
Garibaldi in Uruguay, dove, alla testa della Legione Italiana, combattè contro l’esercito del generale Urquiza |
Eccoli nuovamente in mare, inseguiti da navi nemiche, in preda alla tempesta, incagliati sulla costa, minacciati di distruzione dai frangenti.
L’eccezionale abilità marinara di Garibaldi riuscì a salvare la nave. Raggiunti, dopo qualche tempo, da imbarcazioni, armate dell’Uruguay, dovettero sostenere un furioso combattimento, dal quale uscirono vittoriosi. Garibaldi, però, fu ferito e non potè ,essere curato finchè, risalendo il fiume Paranà, non raggiunsero il porto di Gualeguay, nella provincia argentina di Entre Rios. Quivi la popolazione li accolse bene, ma le autorità, pur non procedendo ad arresti, imposero a Garibaldi, dopo che fu guarito, di non allontanarsi dal paese. Inoltre sequestrarono la nave. Garibaldi tentò la fuga, ma, tradito dalla guida, fu preso, legato e condotto dal governatore Leonardo Millan, che lo fece sottoporre alla tortura. Si rifiutò di svelare chi lo aveva aiutato e sputò in faccia al suo aguzzino. Finalmente, dopo venti giorni, trasferito in un’alma città fu liberato da un più umano governatore.
Il primo incontro tra Garibaldi e Anita (ricostruzione di Edoardo Manara) |
Indomato, dopo un breve periodo di riposo a Montevideo, Garibaldi si recò a Piratiny, piccolo villaggio dove risiedeva, in quel momento, il governo della repubblica del Rio Grande, la capitale essendo in mano al nemico. Ebbe il comando di due lancioni, piccole imbarcazioni con due cannoni a testa, che costituivano tutta la flotta della repubblica. Con queste doveva opporsi a|la squadra brasiliana, forte di 30 navi, che occupava la Lagôa de los patos (la Laguna delle anatre), il mare interno del Rio Grande.
La gioia di questo successo fu rattristata da un naufragio avvenuto poco dopo sulle coste dell’Atlantico.
Conquistate alcune navi nemiche, si trovò a capo di una piccola flotta e con essa, giunse nelle acque della provincia di Santa Caterina,la quale si ribellò e si proclamò repubblica.
Quivi, mentre era all’ancora davanti alla piccola città di Laguna, Garibaldi vide una fanciulla, Anita Ribeiro. Probabilmente (non lo si sa con certezza) essa era sposata, ma il marito era assente, perchè malato. Garibaldi se ne innamorò; essa lo corrispose e lo seguì. Più tardi divenne libera e il matrimonio potè essere regolarmente effettuato il 26 marzo 1842.
Combattente per la libertà dell’Uruguay
Dal 1835 al 1838 l’Uruguay (una volta chiamato Banda oriental e, perciò, i suoi abitanti orientali) era stato dominato da un generale Oribe, detto il corta cabezas, perchè faceva tagliare la testa ai suoi nemici. Costui, rovesciato, fuggì in Argentina e trovò un alleato in un altro despota sanguinario, il dittatore argentino Manuel Rosas.
Quando Garibaldi giunse a Montevideo, Oribe, alla testa di truppe e navi argentine, tentava di occupare il paese, del quale, in caso di successo, il vero padrone sarebbe diventato il Rosas. Contro l’invasore era in armi il governo democratico di Montevideo, alleato alle province di Entre Rios (cosiddetta perchè situata entro i fiumi Paranà e Uruguay) e di Corrientes, che si erano ribellate al giogo argentino.
Il marinaio nizzardo, infatti, aveva ormai conquistato una solida fama di condottiero abile e coraggioso. Egli, naturalmente, accettò, e lasciando Anita a Montevideo, salpò il 23 giugno 1842. Doveva risalire per 600 miglia il Paranà, dove stazionava una forte squadra argentina di sette navi, comandata da un ammiraglio inglese.
La battaglia infuriò per due giorni. Due unità nemiche colarono a picco e gravi furono le perdite d’ambo le parti.
Alla fine, terminate le munizioni, Garibaldi dovette far sbarcate i superstiti e far saltare due navi ormai in pezzi. Il piccolo gruppo, giunto a terra, ebbe l’ordine di portarsi a piedi dal fiume Paranà al fiume Uruguay, traversando il territorio di Entre Rios. Quivi giunti, dopo mesi di marcia, ebbero la notizia che le truppe di Oribe avevano disfatto l’esercito uruguaiano e marciavano sulla capitale. Montevideo era in pericolo e bisognava correre alla sua difesa.
La Legione si fece subito onore in duri combattimenti, nella località Tre Croci, al forte del Cerro, e sulla collina del Cerrito, tutte posizioni della difesa di Montevideo. Alle battaglie di terra Garibaldi alternava le battaglie in mare e nell’ottobre 1844 assalì con alcune navi la fotta argentina che incrociava nella baia di Montevideo e la costrinse alla ritirata.
Entusiasta il presidente della Repubblica offrì alla Legione il possedimento di vaste zone coltivabili. Garibaldi, a nome suo e dei compagni, le rifiutò.
Francesco Anzani |
Il governo di Montevideo, incoraggiato dagli anglo-francesi, pensò di attuare qualche puntata offensiva contro gli avversari anche all’interno del territorio. Fu formato un piccolo corpo di spedizione, composto dalla Legione Italiana e da trecento soldati dell’Uruguay. Ne fu affidata la direzione a Garibaldi, il quale, imbarcata la sua gente su 15 navi, salpò le ancore nell’agosto 1845. Espugnò l’isola di Martin Garcia, baluardo fortificato argentino, collocato là dove i fiumi Paranà e Uruguay confluiscono per formare il Rio de la Plata.
Risalendo l’Uruguay conquistò la città di Gualeguaychu, dove trovò armi, cavalli, munizioni e viveri in abbondanza.
Attaccò il 6 dicembre, appoggiando con un nutrito fuoco d’artiglieria l’avanzata della fanteria. I cannoni che Garibaldi aveva fatto sbarcare dalle navi risposero al bombardamento nemico, i volontari contrattaccarono e Urquiza fu ricacciato sulle posizioni di partenza. Allora il generale argentino diede inizio ad una guerra d’assedio, senza alcun risultato.
Intanto il generale uruguaiano Medina, con ciò che gli rimaneva dell’esercito uruguaiano, procedeva lungo l’Uruguay, per cercare di congiungersi con Garibaldi. Questi, I’8 febbraio 1846, si mosse per andargli incontro con 100 cavalieri uruguaiani e 186 legionari italiani. Ma nella località detta di Sant’Antonio i garibaldini furono improvvisamente affrontati da una colonna argentina di 300 fanti e 1000 cavalieri.
La cavalleria uruguaiana prese la fuga e i legionari rimasero soli.
Sopraggiunse, dopo un’intera giornata di lotta, la notte. Quasi tutti i volontari erano feriti e ardevano dalla sete. Nella notte, guidati da Garibaldi, poterono ripiegare fino alle loro posizioni. Gli argentini, che avevano subito gravi perdite, si allontanarono e il generale Medina potè arrivare a destinazione senza ostacoli.
La Legione fu richiamata a Montevideo, dove giunse nel settembre. Quivi Garibaldi e i suoi trovarono un’atmosfera di entusiasmo ,e di ammirazione, anche perchè la loro impresa, anche se di non grande mole dal punto di vista militare, era stata I’unica vittoriosa in una serie di sconfitte della repubblica. I garibaldini furono dichiarati benemeriti della repubblica ed onorati con molti segni di distinzione. Garibaldi fu persino nominato comandante dell’esercito, carica che egli declinò per non essere coinvolto nella lotta politica.
Anche i capi militari francese ed inglese segnalarono il suo valore, le sue gesta furono raccontate nei giornali e furono conosciute in Europa e in Italia.
Coi volontari del 1848 in Lombardia
Bisognava ricreare nel popolo l’orgoglio nazionale, persuaderlo che anche in Italia vi fossero uomini capaci non solamente di eguagliare, ma di superare gli stranieri nel valore militare, dar vita al mito dell’eroe popolare e repubblicano, simile a quelli dell’antica Roma. Per raggiungere questo scopo Mazzini aveva messo gli occhi su Garibaldi e sulla sua Legione:
“O voi pubblicate qualche cosa sulla Legione, scrisse il 20 ottobre 1846 al Cuneo, editore di un giornale a Montevideo, o lo farò io se non mi inviate materiali. Giova, oltre la lode da darsi al merito, che la Legione e il nome di Garibaldi diventino una influenza morale in Italia: e farò che sia”.
L’opera di far conoscere ed esaltare le gesta garibaldine dal Mazzini, dal Cuneo, da molti Italiani esuli in America ed anche da stranieri, come il ministro britannico a Montevideo, che scrisse una lettera al Times, fece sì che il nome di Garibaldi divenne rapidamente popolare; nell’ottobre 1846 una sottoscrizione per offrirgli una spada d’onore si coprì in poco tempo di firme.
In quei tempi l’America prendeva ancora, nella fantasia della gente, l’apparenza di un paese favoloso € tutto ciò che vi accadeva sembrava avventura. Gli ardimenti dell’eroe biondo e dell’amazzone creola che gli si era accompagnata in quel lontano e misterioso paese, gli epici combattimenti nei matos e nelle pampas e gli abbordaggi fra legni corsari; le fughe a cavallo; l’atmosfera di pericolo continuo e d’amore colpirono tutte le immaginazioni ed il sentimentalismo romantico se ne impadronì e le trasfigurò. Tanto più che non era solamente un eroe, ma, finalmente, un eroe italiano, che vinceva e dava gloria alla patria.
Avevano scritto al nunzio apostolico in Brasile, monsignor Bedini, offrendo i servizi propri e della Legione a Pio IX. Il nunzio aveva trasmesso la lettera al Vaticano, ma da Roma non era giunta nessuna risposta. Poi, via via, giunsero altre notizie sempre più incoraggianti e gli Italiani dell’Uruguay diedero inizio ad una sottoscrizione per dare ai legionari che lo volessero il mezzo per tornare in Italia. Garibaldi, intanto, alla fine del 1847, fece partire per Nizza la moglie e i figli.
Incontro di Garibaldi con Carlo Alberto a Roverbella (illustrazione di Edoardo Matania) |
Queste sue dichiarazioni provocarono lo sdegno del Medici, allora ardente repubblicano. Ma nelle sue vicende americane, Garibaldi aveva imparato a tener conto della realtà e ad adattarvi i principi.
Allora capì con chi aveva a che fare.
Inetta, boriosa, intimamente reazionaria, la classe dirigente piemontese, re, ministri, generali, era stata trascinata in guerra dall’avidità di far sua l’agognata Lombardia, approfittando della rivolta popolare contro l’Austria, ma odiava tutto ciò che aveva colore di libertà e di democrazia.
Schizzo del teatro di guerra di Garibaldi nel 1848 |
Ma intanto si era giunti alla fine di luglio e cattive notizie arrivavano dal campo di battaglia. L’esercito piemontese, comandato nella maniera peggiore possibile, era stato battuto a Custoza e retrocedeva. La Lombardia e Milano erano in pericolo. Fu costituito un Comitato di pubblica difesa e Garibaldi, con 1500 uomini, fu inviato a Bergamo per contrastare I’avanzata dell’ala destra nemica.
A Bergamo, con la collaborazione di patrioti locali, il piccolo esercito garibaldino salì a 3700 uomini; la città fu posta in stato di difesa e non vi è dubbio che avrebbe costituito, in mano a Garibaldi, una efficace base di partenza per una offensiva sul fianco delle forze nemiche. Ma, alla sera del 3 agosto, gli fu comunicato l’ordine di portarsi a Milano, per prendere parte alla grande battaglia che avrebbe dovuto essere combattuta all’indomani.
Garibaldi, invece, deciso a continuare la lotta, ripiegò fino a Como. Quivi Mazzini, che era il portabandiera del battaglione, si allontanò per recarsi in Svizzera a raccogliere armi e denari. Ciò servì di pretesto a molti altri per disertare. Garibaldi rimase con poco più di 1000 uomini e con essi, dopo aver lanciato un proclama al popolo, iniziò nella regione del Lago Maggiore, una serie di manovre atte ad insidiare gli avversari senza farsi agganciare. Sperava, mantenendo viva la guerra, in una nuova sollevazione popolare.
A Luino un corpo austriaco, che era venuto all’attacco, fu respinto e volto in fuga. Il comando austriaco mandò contro i garibaldini un intero corpo d’armata.
Il 26 agosto vi fu un nuovo scontro a Morazzone ed anche questa volta gli Austriaci furono ributtati. Ma ormai i volontari erano rimasti in pochi e, dopo una difficile ritirata, dovettero sconfinare in Svizzera.
Itinerario della ritirata di Garibaldi da Roma a Magnavacca e qui potè imbarcarsi per la Liguria |
Dopo un breve periodo di riposo a Nizza, malvisto dal governo piemontese, Garibaldi si recò a Genova, invitato dai patrioti del Circolo italiano. Avrebbe dovuto prender parte a un tentativo mazziniano in Lombardia, ma, chiamato dai Siciliani, non mise tempo in mezzo e partì per l’isola con 72 compagni. Il piroscafo sul quale erano imbarcati fece scalo nel porto di Livorno, una delle città più democratiche d’Italia. Quivi il popolo non volle che Garibaldi continuasse il viaggio e fece dimostrazioni affinchè gli fosse affidato il comando dell’esercito.
Il popolo di Bologna insorse contro questa decisione e Garibaldi potè entrare in trionfo nella capitale dell’Emilia. Da Bologna, poi, i legionari marciarono sino a Ravenna, dove furono raggiunti da altri gruppi di volontari.
Corse a Roma per accordarsi, ma si accorse che nella capitale non lo volevano. Gli fu ordinato, invece, di sostare con il suo corpo, che aveva preso il nome di Legione Italiana, a Rieti, per sorvegliare il confine con lo Stato napoletano. La Legione era male equipaggiata ed armata solo in parte, anche per I’ostilità della Commissione di guerra, della quale faceva parte Carlo Pisacane, che non stimava le qualità militari del guerrigliero.
Frattanto si erano svolte le elezioni per l’Assemblea nazionale.
Il 24 aprile 1849 le navi della spedizione francese apparvero davanti al porto di Civitavecchia e lo occuparono. La Legione Italiana, che ormai contava piri di 1200 uomini, ebbe l’ordine dal ministro della guerra Avezzana di portarsi subito a Roma, per concorrere alla difesa della città.Garibaldi obbedì e nella notte sul 27 aprile partì per Roma. Il suo arrivo portò l’esercito romano a circa 8700 uomini, che furono divisi in quattro brigate, comandate da Garibaldi, Masi, Savini e Galletti, tutti col grado di colonnello.
Garibaldi, che aveva le sue forze a sud del colle Vaticano, ed, uscendo da Porta San Pancrazio, si era portato alla Villa Pamphili, antistante alle mura di Roma, prese una rapida decisione e lanciò le sue truppe, prima il Battaglione Studenti ed Artisti, poi la Legione contro i Francesi.
L’assedio di Roma: assalto al Casino dei Quattro Venti (illustrazione di Edoardo Matania) |
Divampò una lotta feroce sul terreno dove sorgevano le ville Pamphili e Corsini.
Alla fine, dopo una irruenta carica guidata personalmente da Garibaldi, i Francesi furono messi in rotta con la perdita di 300 morti, 165 feriti e 365 prigionieri, percentuale assai forte per quei tempi. Garibaldi avrebbe voluto inseguire il nemico fino a Civitavecchia e ricacciarli in mare, ma il Triumvirato che governava Roma, composto da Mazzini, Saffi e Armellini si oppose. Mazzini, infatti, sperava che a Parigi le sinistre si sarebbero impadronite del potere.
Il Lesseps, che agiva in buona fede, appena giunto a Roma, dove nel frattempo era stato stipulato un armistizio, presentò delle proposte, sulle quali si iniziò la discussione.
La battaglia di Palestrina (9 maggio 1849) nella quale i garibaldini misero in fuga l’esercito borbonico |
Garibaldi, che era all’avanguardia, giunto a Velletri il 19 maggio, si accorse del movimento di ritirata dei borbonici e li attaccò senza aspettare ordini, facendoli fuggire. Egli li avrebbe inseguiti anche nel loro territorio, ma il Roselli si oppose.
Garibaldi a Roma nel 1849 (schizzo di Gerolamo Induno) |
Gli ingenui Roselli e Mazzini caddero nell’inganno del francese, che, nella notte del 3 giugno, assalì gli avamposti romani addormentati e conquistò di slancio le posizioni antistanti Porta San Pancrazio. Bisognava riprenderle o la sorte della Repubblica era decisa.
Garibaldi, sebbene tormentato da una ferita, contrattaccò immediatamente l’invasore, e cercò di ributtarlo sulle posizioni di partenza. La disperata lotta alla villa Corsini, alla villa Pamphili e al Vascello durò furiosa per tutto il mese.
Vi si distinsero per il valore gli uomini migliori del patriottismo italiano e molti di essi caddero.
Il 30 giugno I’Assemblea deliberò che la difesa era divenuta impossibile.
II 3 luglio i Francesi entrarono nella città contesa.
Garibaldi e il maggiore Leggero trasportano Anita morente attraverso le paludi di Comacchio (dipinto di P. Bouvier) |
Anche questa volta la meta di Garibaldi era Venezia, che ancora resisteva.
Attraverso il Lazio, la Toscana e la Romagna, giunse a San Marino. Ma ormai i volontari erano stremati e ridotti di numero. Perciò egli Ii lasciò liberi di allontanarsi alla spicciolata. Con pochi seguaci e con Anita ammalata, passando attraverso le scolte austriache, arrivò fino a Cesenatico, si imbarcò, ma, inseguito da una squadra austriaca, dovette tornare a terra.
Alcuni patrioti del luogo lo condussero a una fattoria nei pressi di Ravenna, dove Anita morì. Altri patrioti, fra i quali il sacerdote don Giovanni Verità, lo scortarono, sfidando gravi pericoli, fino alla riva del Tirreno. Quivi s’imbarcò, giunse in Liguria, fu arrestato, e, dopo varie peregrinazioni, lasciato libero, purchè fuori dal territorio del regno di Sardegna.
Sostò a Tangeri per qualche tempo.
Comandante dei Cacciatori delle Alpi nel 1859
Durante il secondo esilio Garibaldi percorse una buona parte del mondo. Fu negli Stati Uniti e quivi lavorò come operaio nella fabbrica di candele di Antonio Meucci, uno degli inventori del telefono. Dopo qualche tempo e altri viaggi, gli fu nuovamente affidato un bastimento mercantile. Navigò nei mari dell’America, dell’Oceania e dell’Asia; nel 1854 calò le ancore nel porto di Londra. Qualche giorno dopo incontrò, in casa di amici, Giuseppe Mazzini e non approvò la campagna che il patriota ligure conduceva contro i Savoia. Era convinto che convenisse a coloro che volevano sul serio il riscatto della patria, appoggiare e non ostacolare la monarchia piemontese, finchè questa seguisse una politica di ostilità all’Austria. Per lui il problema indipendenza precedeva il problema repubblica. Ecco perchè aderì alla Società nazionale italiana, fondata da due repubblicani, il Manin e il Pallavicino, con la parola d’ordine rivolta ai Savoia: Fate l’Italia e siamo con voi. Se no, no.
I punti base erano quelli del movimento democratico: principio di nazionalità; supremazia del sistema repubblicano; giustizia sociale; pace e progresso come ultima meta.
Ma vissuto quasi sempre nell’azione e fra uomini d’azione, due precetti s’imposero su tutto; e questi furono esclusivamente suoi: superiorità dell’azione sul pensiero (quindi disprezzo nei confronti dei dottrinari); subordinazione dei principi allo stato di necessità. Ecco perchè egli, repubblicano, si schierò sotto le bandiere della monarchia; democratico, propugnò la dittatura; pacifista, praticò la guerra. Questa non fu da parte sua una condotta contraddittoria, ma anzi, logica e coerente. La più coerente del Risorgimento italiano.
Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi a Varese (illustrazione di Edoardo Matania) |
Nel 1855, approfittando di una piccola eredità, comprò l’isola di Caprera, nello stretto di Bonifacio, e ne fece la sua residenza abituale.
Cavour, intanto, stava ordendo la sua trama per provocare l’Austria alla guerra ed ottenere così l’intervento di Napoleone III.
Egli sapeva che i governanti austriaci sobbalzavano al solo nome di Garibaldi e, perciò, nell’agosto e nel novembre 1858 lo chiamò a Torino e gli annunciò, in modo che se ne spargesse la notizia, che lo avrebbe incaricato di formare un corpo di volontari, da impiegare in caso di guerra. Anzi, nella mente del Cavour il condottiero nizzarda avrebbe dovuto, capitanando un’insurrezione a Massa e a Carrara, accendere il primo fuoco dell’incendio.
A capo dei tre reggimenti erano i colonnelli Medici, Cosenz e Arduino.
Per rendere più facile la marcia ai volontari, egli aveva fatto cucire una sacca sul loro cappotto, per i viveri e le munizioni, e aveva fatto abbandonare i pesanti zaini. Arrivato al Lago, fece credere agli Austriaci che lo avrebbe passato ad Arona. Invece, nella notte, scese fino a Castelletto Ticino e quivi varcò il fiume, sorprendendo la guarnigione austriaca, che fece prigioniera. Occupò Sesto Calende e prosegui senza sosta per Varese, dove entrò nella notte del 23.
All’alba del 26 gli Austriaci giunsero davanti alla cittadina e, dopo aver bombardato le posizioni garibaldine, andarono all’assalto. Erano a 50 metri, quando i Cacciatori delle Alpi uscirono dai ripari e si lanciarono sugli esterefatti avversari, che si aspettavano una difesa, non un contrattacco. Gli Austriaci retrocedettero in disordine fino a Malnate. Quivi, nuovamente assaliti dagli scatenati garibaldini, furono messi in rotta e non si fermarono se non quando si trovarono a Como.
27 maggio 1859 – La battaglia di S. Fermo (dipinto di Angelo Trezzini) |
Anche Como fu liberata e l’Urban si ritirò a Monza.
Con queste vittoriose azioni Garibaldi aveva portato a termine la sua missione; vi era tuttavia per i Cacciatoti il pericolo di essere tagliati fuori dal grosso delle forze alleate, ancora schierate sulla Sesia. Garibaldi perciò, tentò di impadronirsi di Laveno, sul Lago Maggiore, con un colpo di mano. Ma l’impresa fallì. Egli allora tornò a Como.
Lentamente gli alleati lo seguirono e i due sovrani entrarono a Milano l’8 giugno.
Nel medesimo giorno Garibaldi, che aveva percorso il Lago di Como su 4 piroscafi ed era sbarcato a Lecco, proseguendo con rapidità la marcia entrò a Bergamo. Informato dai patrioti che si attendeva un treno pieno di Austriaci, occupò la stazione ferroviaria, per farli prigionieri al loro arrivo. Gli Austriaci, avvertiti, scesero prima ed allora una compagnia garibaldina li assalì di sorpresa e, nonostante la grande disparità di numero, li volse in fuga.
Mentre il ministro piemontese era ancorato all’idea dell’unificazione della Valle Padana, Garibaldi pensava alla liberazione di tutto il territorio italiano. L’espulsione degli Austriaci dal Veneto ad opera di Napoleone III avrebbe dato la libertà a una regione italiana, ma avrebbe fatto dell’imperatore francese il vero padrone della penisola. Quindi veto assoluto all’abolizione del potere temporale dei papi e, di conseguenza, all’unità d’Italia.
Il liberatore dell’Italia meridionale
Naturalmente fra egli e il Fanti, sostenuto quest’ultimo dai dirigenti politici della Lega, nacque quasi subito un aspro conflitto. Garibaldi avrebbe voluto suscitare dei moti popolari nello Stato pontificio e poi intervenire. Gli altri si opponevano. Il re intervenne e Garibaldi si dimise.
Nell’isola, infatti, vi erano un grande fermento e una forte volontà di liberarsi dal dominio borbonico. Recentemente erano avvenuti dei sanguinosi tentativi insurrezionali, come quello di Francesco Bentivegna, nel 1856, e quello di Salvatore Spinuzza, nel 1857. Ambedue falliti.
Intanto il Crispi, tornato sul continente si era rivolto a Luigi Carlo Farini, in quel tempo capo del governo in Emilia, e al Rattazzi, ministro degli interni in Piemonte. Domandava uomini e armi per la Sicilia. Ne ebbe un rifiuto, perchè ambedue erano dominati dalla volontà del Cavour, anche se a quell’epoca (dicembre 1859) lo statista piemontese, dimissionario dopo Villafranca, non era ancora tornato al governo. Ma essi sapevano che il ritorno era imminente ed infatti avvenne poco dopo, il 16 gennaio 1860.
Il Cavour non era contrario, in linea teorica, all’unità italiana, ma la credette, fino all’ultimo, impossibile, e la definì, quando gliene parlò il Manin, una corbelleria. Per lui contava solamente la volontà delle grandi potenze ed in particolare quella della Francia. E, da esperto uomo di Stato, si rendeva conto come Napoleone III non desiderasse il sorgere di un’Italia unita ai suoi confini. Ministro del re e capo dei moderati, il Cavour anteponeva gli interessi della monarchia e quelli della sua classe a qualsiasi altro interesse. L’Italia doveva essere monarchica o non essere. Perciò era decisamente avverso a qualsiasi iniziativa alla quale partecipassero elementi apertamente o tendenzialmente repubblicani, non obbedienti ai suoi cenni.
L’instancabile Cavour non desistette; nel gennaio 1860, appena tornato al potere, inviò a Napoli il marchese di Villamarina, affinchè chiedesse al nuovo re Francesco II un trattato d’alleanza.
Il 15 aprile, infine, fece scrivere dal re Vittorio Emanuele II una lettera con una terza proposta di accordi.
Non per questo i promotori dell’impresa si arrestarono. Garibaldi venne a Quarto, nei pressi di Genova. Quivi vi fu una riunione, alla quale partecipò Giuseppe La Farina, segretario della Società nazionale. Costui era cavouriano, ma anche siciliano e non poteva perdere la faccia davanti ai suoi compaesani. Perciò promise di consegnare un migliaio di vecchi fucili, che la Società possedeva.
I vapori per il trasporto dei volontari furono ottenuti da G. B. Fauché, amministratore della Società di navigazione Rubattino, purché si facesse finta di prenderli con la forza. In Sicilia furono inviati come avanguardia, per suscitare moti in attesa dell’arrivo della spedizione, i patrioti Rosalino Pilo e Giovanni Corrao, nativi dell’isola.
Il comandante della guarnigione di Genova gli aveva riferito che la truppa era favorevole a Garibaldi. Alla Camera si notavano segni di fronda e il re, che non voleva diventare impopolare, si rifiutò di ordinare l’arresto di Garibaldi.
Convinto di non poter far nulla a Genova, il Cavour si limitò a ordinare alla flotta di fermare i vapori garibaldini se avessero fatto scalo in Sardegna. Non era possibile, infatti, in quell’epoca attraversare il Tirreno senza rifornirsi di carbone.
L’imbardo dei Mille a Quarto, il 6 maggio 1860 (illustrazione di Edoardo Matania) |
Ogni indugio fu rotto. Nella notte sul 6 maggio furono presi i piroscafi Piemonte e Il Lombardo, di 180 e 238 tonnellate, portati davanti a Quarto, dove i volontari, in numero di 1089 si imbarcarono.
Il loro armamento era misero, ad eccezione di un gruppo, i Carabinieri genovesi, che avevano carabine proprie. Alcuni ufficiali erano muniti di pistole Colt a ripetizione; una novità per l’Europa. Mancavano le munizioni che due barche avrebbero dovuto portare a bordo davanti a Sori. Ma le barche non si fecero vedere, forse seguendo le istruzioni della polizia.
Deludendo le speranze del Cavour, Garibaldi non si avviò verso la Sardegna, ma costeggiò la Liguria e la Toscana, facendo scalo nella rada di Talamone. Da questa località partì una piccola colonna per fare una diversione contro lo Stato pontificio. Con uno stratagemma fu possibile farsi dare le munizioni mancanti e tre cannoni dal comandante del vicino forte di Orbetello. Poi, rifornitesi di acqua, viveri e carbone, le due navi ripresero il mare, giungendo senza inciampi l’11 maggio davanti al porto di Marsala. All’ultimo momento furono viste e inseguite da una squadra borbonica, la quale, però, intralciata dalla presenza di bastimenti inglesi nel porto, aprì il fuoco troppo tardi, quando i garibaldini erano già a terra.
Lo sbarco dei Mille a Marsala secondo una stampa popolare dell’epoca |
I Mille assalirono la collina sulla quale era schierata una parte delle forze borboniche e, dopo aspra lotta e una manovra di accerchiamento, misero l’avversario in rotta.
Il generale Landi, che non aveva voluto impegnare la riserva per paura delle bande in armi sui monti, iniziò la ritirata verso Palermo.
Dopo la vittoria di Calatafimi altre bande si aggiunsero alla colonna garibaldina, che avanzò rapidamente e giunse ai margini della capitale siciliana. Quivi il comando borbonico aveva concentrato il grosso delle sue forze, circa 15.000 uomini. Garibaldi iniziò una serie di manovre intorno a Palermo, cercando il punto debole della sua difesa. Forti colonne uscirono ad assalirlo ed una di esse si mise ad inseguire un piccolo gruppo garibaldino, avviato verso l’interno dell’isola, nella convinzione che si trattasse dell’intero corpo volontario. Garibaldi, invece, con una improvvisa inversione di marcia, inavvertita dal nemico, si avvicinò a Palermo dal lato orientale e, unito a numerose bande che aveva fatto accorrere, dopo una marcia notturna, al mattino del 27 maggio piombò sulla città.
15 maggio 1860: la battaglia di Calatafimi (illustrazione di Edoardo Matania) |
La tregua si protrasse fino al 6 giugno, quando i borbonici, ormai scoraggiati, si decisero a lasciare Palermo.
Anche il Cavour era di questo parere e ciò lo indusse a cambiar politica e a cercare di far propria e di prevenire |’iniziativa di Garibaldi. Frattanto in tutta l’Italia libera e in molte città del Mondo, la borghesia liberale si mobilitò a favore di Garibaldi. Sorsero ovunque comitati di soccorso a Garibaldi, che raccolsero volontari e denari, diedero mezzi per acquistare armi e noleggiare bastimenti da trasporto.
Garibaldi ebbe così a sua disposizione una forza ormai rispettabile, che divise in 3 colonne. Le avviò verso la costa orientale dell’isola, sia per liberarne completamente il territorio, sia per avvicinarle al continente.
La colonna più forte, comandata dal Medici, percorse la strada litoranea da Palermo a Messina. Raggiungeva con le squadre Siciliane 4000 uomini e si trovò sbarrata la strada dal forte di Milazzo, occupato da 4500 borbonici, al comando del colonnello Bosco.
Il 20 luglio i garibaldini assalirono le posizioni nemiche, ma furono accolti da una energica resistenza e da violenti contrattacchi. Le sorti della giornata rimasero in dubbio per parecchio tempo, finchè Garibaldi, montato su una nave da guerra che era passata dal servizio regio a quello garibaldino, fece bombardare la linea borbonica, prendendola alle spalle. Ciò provocò il crollo dei borbonici che corsero a rifugiarsi nel forte, poi capitolarono, ottenendo di reimbarcarsi per Napoli.
Entrata di Garibaldi in Napoli (illustrazione di Edoardo Matania) |
Cavour, nel frattempo, aveva inviato in Sicilia il La Farina, col compito di mobilitare le forze conservatici dell’isola in favore di una immediata annessione al Regno Sardo.
Il La Farina trovò ascolto nel ceto ricco e nobile, che era stato spaventato da alcuni provvedimenti a favore del popolo emanati dalla Dittatura, come l’abolizione della tassa sul macinato e la divisione fra i contadini poveri delle terre demaniali usurpate dai latifondisti. Quest’ultimo decreto aveva provocato violente sommosse nelle campagne, che fu necessario reprimere per non mettere in allarme la borghesia europea e non dare un pretesto ai governi conservatori d’intervenire.
Alla fine Garibaldi fece espellere il La Farina e si dedicò al proseguimento del suo programma: sbarco sul continente e marcia verso Napoli e verso Roma.
Garibaldi non obbedì. L’esercito volontario contava ormai più di 30.000 uomini ed aveva assunto il nome di Esercito meridionale.
La marcia dei volontari si svolse senza opposizione e il 7 settembre Garibaldi, con poco seguito, entrò a Napoli, accolto dalla folla in delirio.
Garibaldi e Vittorio Emanuele II s’incontrarono a Vairano (Incontro di Teano) |
Alla mattina del 1° ottobre essi assalirono i 24.000 volontari, che, appena giunti dalla Calabria,
Il 21 ottobre ebbe luogo il plebiscito in Sicilia e a Napoli, con la quasi totalità per l’annessione. Il 26 ottobre Garibaldi e Vittorio Emanuele II s’incontrarono nel paesetto di Vairano (passato alla storia come “incontro di Teano”, secondo alcune fonti si è invece svolto a Vairano Scalo, presso la località di Taverna della Catena).
Poco dopo, trattato con sufficienza e villania dalle sopraggiunte autorità monarchiche, il liberatore dell’Italia meridionale se ne tornò a Caprera.
La sua impresa permise che l’anno dopo fosse proclamato il Regno d’Italia.
Il Farini, nominato luogotenente del re a Napoli, scrisse al Cavour che andava “a far pronta pulizia del garibaldismo o meglio del ribaldismo che gli fa corona e coda”.
I volontari furono maltrattati e umiliati. Garibaldi protestò in Parlamento ed ebbe un acerbo contrasto col Cavour. Insultante e sommamente ingiusto, poi, il contegno dei nuovi governanti nei confronti del popolo meridionale, considerato pieno d’ogni difetto e “vivente in uno stato d’indecenza quasi inferiore a quello delle antiche tribù d’Africa“.
Ecco perchè Garibaldi, sempre aderente alla realtà assai più di tanti suoi critici di allora e di oggi, considerò una utopia la creazione, su quella base sociale, di uno Stato democratico popolare e cedette il passo alla monarchia sabauda.
Non fu nemmeno possibile trasformare in un organizzato partito politico le correnti democratiche borghesi che avevano alimentato la liberazione dell’Italia meridionale.
I mazziniani si isolarono nella loro intransigenza; molti ufficiali passarono nei ranghi dell’esercito regio; altri esponenti del Partito d’Azione ottennero incarichi e fecero carriera nelle file dell’amministrazione statale. Pochi furono coloro che rimasero stretti intorno al capo dei Mille.
Il vinto di Aspromonte e di Mentana
Il vincitore di Bezzecca
Nel 1862 un gruppo di garibaldini, che si era radunato a Sarnico per tentare un colpo di mano nel Veneto, fu attaccato e disperso dalla polizia italiana. Nel medesimo anno Garibaldi partì da Caprera, andò in Sicilia, accolto con entusiasmo dal popolo, passò in Calabria ed iniziò una marcia che avrebbe dovuto condurlo a Roma. Ma raggiunto sull’Aspromonte, il 29 agosto, da una colonna dell’esercito regolare italiano, proibì ai suoi di rispondere al fuoco dei regi e, ferito, fu fatto prigioniero.
I reazionari chiesero un processo e la condanna, ma il governo non riuscì a trovare chi avesse il coraggio di fare il giudice, davanti alla sollevazione dell’opinione pubblica italiana ed europea.
Aspromonte: il colonnello Pallavicini si presenta a Garibaldi con l’ordine di dichiararlo prigioniero |
Nel 1866 l’Italia, alleata della Prussia, entrò in guerra contro l’Austria. Il governo fu quasi costretto dalla pressione popolare a chiamare Garibaldi per affidargli il comando del Corpo volontari italiani incaricato di operare nel Trentino. Il Comando dell’esercito regolare condusse la campagna con tale incapacità da incappare nella sconfitta di Custoza. Peggio ancora si comportò il comando della flotta, che si fece battere a Lissa.
Garibaldi, invece, il 21 luglio 1866, vinse la battaglia di Bezzecca, di scarsa importanza dal punto di vista militare, ma che, esaltata dal confronto, portò la sua fama alle stelle.
Garibaldi dopo Mentana (dipinto di Aranyi) |
Garibaldi, dopo aver espugnato Monterotondo, mosse contro Roma, in attesa di una sollevazione popolare che non avvenne.
Il comandante dell’Esercito dei Vosgi
Gli ultimi anni
All’inizio Garibaldi potè contare su 6000 uomini, coi quali dovette difendere l’officina del Creuzot, la cui produzione alimentava in misura preponderante la difesa francese.
La campagna cominciò in maniera favorevole. Un distaccamento garibaldino sorprese e mise in fuga un grosso reparto di fanteria tedesca a Chatillon sur Seine.
Pochi giorni dopo, Garibaldi, con tutte le sue forze, avanzò su Digione. I Prussiani gli andarono incontro; dopo un’aspra battaglia, battuti, ripiegarono sulla città.
Non riuscì, invece, a Garibaldi, un colpo di mano notturno per sorprendere ed occupare Digione. Respinto. il condottiero italiano si ritirò alla sua base di Autun, dove i Prussiani Io attaccarono in forze.
Questa volta toccò a loro tornare indietro.
1870-1871: Garibaldi e i suoi volontari combattono contro i Prussiani (stampa popolare francese) |
Non solamente i Tedeschi furono sempre ricacciati, ma, in un violento contrattacco comandato da Stefano Canzio, fu loro tolta l’unica bandiera che perdessero in quella guerra.
Ormai, però, la Francia era stremata e il governo francese, il 27 gennaio, domandò l’armistizio. Fu escluso il territorio tenuto dai garibaldini. L’esercito dei Vosgi si trovò in gran pericolo di essere annientato, ma Garibaldi, con pronta decisione e abili manovre riuscì a tarlo in salvo.
Il popolo francese fu chiamato ad eleggere un’assemblea per trattare la pace. Garibaldi, eletto da sei collegi, vi si recò, ma la maggioranza reazionaria gli impedì di parlare.
Garibaldi a Caprera verso i suoi ultimi giorni |
Dopo la morte di Anita, si era sposato, nel 1859, con una fanciulla lombarda, che abbandonò subito dopo la cerimonia nuziale, avendo saputo che amava un altro uomo.
Nel 1880 potè far annullare questo matrimonio e regolarizzare la sua unione con una terza donna, dalla quale aveva avuto due figli.
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