GIUSEPPE GARIBALDI – L’eroe dei due Mondi

  

GIUSEPPE GARIBALDI

Non è vero che il Risorgimento italiano sia stato opera di una minoranza di uomini di pensiero e di guerra, mentre la grande maggioranza del popolo avrebbe assistito ai loro sforzi e ai loro sacrifici senza parteciparvi, sempre con indifferenza, talvolta con ostilità. Chi afferma questo, conosce del Risorgimento solo l’apparenza, non la sostanza. Si sofferma sulle gesta dei protagonisti, il cui numero, come sempre è avvenuto ed avviene per tutti i movimenti di massa, fu necessariamente limitato, e trascura le folle anonime dalla cui adesione e dalla cui partecipazione i protagonisti trovarono forza.
Ignora il numero grande di società segrete d’ogni tipo, prima, e di circoli mazziniani, poi, che pullularono in tutta Italia nella prima metà dell’Ottocento. Dimentica l’intervento totalitario del popolo nelle grandi rivolte del 1848 e del 1849. Conosce la spedizione dei Mille e non sa che questa spedizione si trasformò ‘in un esercito di oltre 30.000 uomini per l’azione continua e tenace di centinaia di comitati sorti in tutta la penisola, ai quali davano la propria attività e il proprio denaro decine di migliaia di persone. Non ricorda che nelle terre meridionali numerose bande d’insorti affiancarono l’esercito garibaldino e che l’intero popolo di Napoli accolse in trionfo il dittatore, paralizzando le truppe borboniche ancora accasermate nella città.

Vero è, invece, che il Risorgimento fu un vastissimo movimento popolare. Esso fu non solamente la lotta del popolo italiano per la conquista dell’indipendenza e dell’unità, ma anche la lotta della borghesia per la conquista del potere e la trasformazione dell’assetto sociale del paese. E, come era avvenuto durante la rivoluzione francese, insieme con la borghesia lottarono le masse popolari.
All’inizio, senza dubbio, la loro adesione non fu completa e gli strati più arretrati reagirono in senso negativo. L’avvio al Risorgimento, infatti, fu dato dall’intervento militare della Francia, i cui capi sia durante l’epoca repubblicana che durante l’epoca napoleonica, accompagnarono la propria azione politica rinnovatrice con la rapina economica, sollevando lo sdegno dei colpiti.
Dal canto loro anche i borghesi italiani, quando ebbero il potere, identificarono negli interessi del paese e considerarono naturale, anzi necessaria, la subordinazione e l’asservimento delle classi inferiori.”La destinazione naturale della plebe fu e sarà sempre il lavoro materiale e la clientela verso le classi alte, la condanna all’inerzia dell’intelletto e all’ignoranza. Essa è il braccio dello Stato e nulla più; se verrà chiamata alle opere dell’intelligenza e dell’agiatezza, si avrà il disordine e la morte della libertà”, …. così scriveva il 1° luglio 1848 il giornale borghese e liberale di Modena dal titolo Il Vessillo italiano.
Fu quindi facile ai gruppi reazionari, che pur costituivano una minoranza sollevare, con l’aiuto di una parte del clero, in alcuni momenti e in alcune regioni bande di contadini arretrati o di sottoproletariato, incitandole alla controrivoluzione in nome della fede minacciata e della sospensione delle elemosine.
Episodi di avversione contro i fautori di novità avvennero, perciò, durante tutto il trascorrere del Risorgimento, dalle bande della Santa Fede, agli sterminatori della spedizione Pisacane, al brigantaggio, ma si trattò sempre di fenomeni marginali, di malattie noiose, ma non mortali della vita italiana e0sse influirono ben poco sulle fortune del grande movimento patriottico, che portò all’indipendenza e all’unità il nostro paese.
Col procedere del tempo e degli avvenimenti le masse popolari acquistarono, in misura e in numero sempre più grandi, la convinzione che la lotta per fare uscire l’Italia dallo stato di soggezione e di scadimento nel quale si trovava da secoli, riportandola al livello delle nazioni europee più moderne, tornasse anche a loro vantaggio.
Anch’esse fecero coincidere i loro interessi con quelli della causa nazionale. Questo avvenne anche perchè gli strati più avanzati della borghesia italiana compresero che la vittoria sulle forze conservatrici non poteva essere conseguita senza la partecipazione delle masse popolari. Gli uomini che li rappresentavano inclusero nei loro programmi il miglioramento delle condizioni delle classi subalterne e si rivolsero al popolo.
Non vi è dubbio che il popolo rispose in maniera positiva, perchè i pochi ignari contadini che assalirono Pisacane e i suoi compagni non possono annullare le folle che scesero in piazza e combatterono sulle barricate a Milano, Brescia, Bologna, Genova, Livorno e in altre città nel biennio 1848-49 e a Palermo nel 1860.
L’ultima superstite forma di resistenza reazionaria popolare, il brigantaggio, esistente in alcune regioni meridionali, si trasformò ben presto da rivolta politica in rivolta sociale. Anche il movimento popolare, quindi, diventò una componente del Risorgimento italiano, non meno del movimento della borghesia moderata e del movimento della borghesia avanzata.
E come questi ultimi ebbero i loro uomini rappresentativi in Camillo di Cavour e in Giuseppe Mazzini, il movimento popolare trovò l’uomo che ne incarnò gli ideali e ne divenne l’eroe in Giuseppe Garibaldi.

Garibaldi con la camicia rossa a Montevideo
(dìsegno dal vero dell’Ammmiraglio inglese Winnington-Ingram)

La gioventù di Giuseppe Garibaldi

Giuseppe Garibaldi fu certamente, per origine, per costume, per mentalità, un uomo del popolo, ma del popolo appartenne a un ceto particolare, caratterizzato da un livello culturale e politico più elevato del normale, il ceto della gente di mare. I marinai, infatti, per esercitare il loro difficile mestiere, per navigare, commerciare, e tenere in efficienza le loro navi, dovevano far uso di cognizioni che, in quei tempi, pochi artigiani e operai e nessun contadino possedeva. Inoltre, venendo a contatto con altri popoli del mondo, allargavano, assai più di coloro che non uscivano dall’Italia, il loro orizzonte mentale, assorbivano molte idee nuove e se ne facevano apportatori in patria.

Non a caso alcuni gruppi politici dalle idee più avanzate che esistettero in Italia nella prima fase del Risorgimento, si formarono nell’ambiente delle città marinare e, particolarmente, a Genova e a Livorno.

Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807, nel periodo nel quale, sotto il dominio di Napoleone I, la città mediterranea faceva parte, come la Liguria e il Piemonte del territorio francese. Il padre, Domenico, possedeva una piccola nave a vela, con la quale, trasportando dall’uno all’altro porto del Mediterraneo limitate quantità di merci, riusciva, con una certa fatica, a mantenere la sua numerosa famiglia.
Le poche notizie che si hanno di lui Io descrivono come un uomo onesto, generoso, ma di scarso livello intellettuale. Egualmente onesta e degna d’ogni rispetto la moglie Rosa Raimondi, madre amorosa, che Garibaldi ricordò sempre con grande affetto.
Prima di Giuseppe i Garibaldi avevano avuto un figlio; altri due maschi nacquero negli anni seguenti; ultima, una bambina che morì ancora nella prima infanzia. La famiglia Garibaldi era originaria di Chiavari; la famiglia Raimondi di Loano. Quando, poi, il nome di Garibaldi acquistò fama nel mondo, furono inventate per lui ascendenze illustri, quali Teodoro von Neuhof, effimero re di Corsica, il duca Garibaldo di Baviera e il longobardo duca Garibaldo di Torino. Naturalmente si trattava di pure fantasie.
L’infanzia di Garibaldi trascorse come quella di un ragazzo del popolo in una città di mare.
Sempre in acqua, coi compagni, o sugli alberi delle navi o a correre nella campagna. Questa vita lo fece diventare robusto, svelto, abile in tutti gli esercizi fisici e nuotatore provetto.
A otto anni salvò una donna in procinto di annegare e a tredici ricondusse a salvamento una barca in pericolo per un’improvvisa tempesta.
Passava così la maggior parte del suo tempo all’aria aperta e ne dedicava ben poco allo studio. Tuttavia, specialmente per soddisfare il desiderio dei genitori, il giovanetto seguì con interesse le lezioni che gli impartirono i suoi primi maestri, due preti e un vecchio militare a riposo. Uno di questi preti fu caratterizzato da Garibaldi con l’aggettivo “spregiudicato” e probabilmente era un sacerdote di idee gianseniste. Da costui e dal vecchio militare Garibaldi ricevette le prime cognizioni di cultura, ma assorbì, anche, senza dubbio, i primi germi di quello che fu poi il suo patrimonio ideologico.

Si era negli anni di trapasso fra il periodo napoleonico, dominato dalle idee della Rivoluzione francese, e il periodo della Restaurazione sabauda, dominato dalle idee dell’oscurantismo clericale. I maestri di Garibaldi erano uomini del periodo napoleonico e i concetti che essi insegnarono al loro allievo furono quelli di patria, di libertà e di indipendenza.

In modo particolare l’animo di Garibaldi era stato colpito dalla storia dell’antica Roma, che il suo maestro militare gli aveva narrato.
Quelle gloriose vicende dei nostri antenati avevano esaltato il suo orgoglio nazionale. Frattanto, nonostante qualche resistenza da parte della madre che avrebbe desiderato per il figlio una carriera meno pericolosa, il giovane, non appena raggiunti i quindici anni, si era imbarcato come mozzo su un brigantino, poi sulla nave del padre, ed infine su navi di altri padroni, percorrendo in tutti i sensi il Mediterraneo e il Mar Nero.
La navigazione, in quei tempi, anche quando si svolgeva in mari di non grande estensione, non era un’impresa facile e tranquilla. Anche Garibaldi subì traversie d’ogni genere, si trovò in un naufragio; la sua nave fu assalita più volte dai pirati; si ammalò a Costantinopoli e fu abbandonato nella città, dalla quale non si potè allontanare per parecchi mesi.
Nel 1832 fu regolarmente iscritto fra i capitani di mare del dipartimento di Nizza. Durante questi viaggi ebbe l’occasione di recarsi a Roma e di soffermarci a contemplare con profonda commozione le imponenti rovine. Cercava intanto di migliorare la sua cultura studiando con gli scarsi mezzi che aveva a disposizione, leggendo i pochi libri che gli capitavano in mano ed ascoltando coloro che ne sapevano più di lui.
A contatto con uomini di diversi paesi, da ognuno dei quali Garibaldi imparava qualcosa, nella sua mente si venne formando un pensiero, composto di idee elementari, semplici, ma saldamente radicate in lui e dalle quali non si sarebbe più separato per tutta la vita. Erano le idee direttrici di quel tempo, le idee-forza della rivoluzione borghese e del Risorgimento italiano. Grande importanza, poi, ebbero per la formazione ideologica di Garibaldi, due incontri che gli accaddero nel periodo delle sue navigazioni.
Il primo ebbe luogo nel marzo 1833. In quel mese si imbarcò a Marsiglia, sul brigantino Clorinda, del quale Garibaldi era secondo ufficiale, un gruppo di esuli sansimonisti, che lasciava la Francia per recarsi nel Medio Oriente. Il loro maestro, Enrico di Saint Simon, morto otto anni prima, era stato uno dei numerosi uomini che in Francia dopo l’esaurimento della Rivoluzione e il ritorno, più apparente che reale, delle classi privilegiate al potere, cercarono di rimettere in moto le correnti rinnovatrici, facendo un passo avanti sul piano sociale.
Il Saint Simon sosteneva che il potere dovesse essere affidato ai produttori di ricchezza, cioè agli industriali, a banchieri e ai mercanti. Costoro, però, dovevano agite a favore dell’interesse pubblico e, particolarmente, promuovere il miglioramento delle condizioni di vita degli operai, elemento fondamentale e necessario della produzione. Nei loro rapporti, imprenditori e lavoratori dovevano essere guidati da un superiore spirito di solidarietà umana, dai concetti di un nuovo cristianesimo. Il Saint Simon, per diffondere le sue idee, scrisse appunto un’opera con questo titolo. Dopo la sua morte, fra i discepoli nacquero aspre controversie; vi fu chi accentuò la parte scientifica e industriale della dottrina; chi invece fece del sansimonismo una specie di socialismo utopistico, con sfumature mistiche.
A questa ultima corrente appartenevano i sansimonisti che viaggiavano sulla Clorinda. Come tutti i neofiti essi erano entusiasti e desiderosi di propagare le loro idee.
Garibaldi si avvicinò al loro capo, Emilio Barrault, e si presentò come un patriota italiano. Durante le lunghe notti fresche e stellate del Mediterraneo meridionale, i due uomini discussero a lungo.”Sulle prime l’apostolo mi provò, narrò Garibaldi al Dumas, che l’uomo, il quale difende la sua patria o che attacca l’altrui paese, non è che un soldato pietoso nella prima ipotesi, ingiusto nella seconda, ma che l’uomo, il quale facendosi cosmopolita, adotta l’umanità per patria e va a offrire la spada ed il sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannia, è più di un soldato: è un eroe”.Parole che penetrarono a fondo nell’animo di Garibaldi e vi rimasero. Esse contribuirono a formare la base morale della sua partecipazione a guerre in favore di popoli stranieri, lontano dal territorio della patria.
Ma di gran lunga più importante, per la formazione spirituale di Garibaldi, dell’incontro coi sansimonisti fu quello che egli ebbe, nel medesimo anno 1833, probabilmente prima del viaggio della Clorinda, con un mazziniano italiano che trovò a Taganrog, piccolo porto russo sul Mar Nero. Le notizie che Garibaldi diede di questo episodio, che purtuttavia, egli stesso lo ammise, ebbe un influsso decisivo sulla sua vita, furono poche.
Più ampiamente ne scrisse, invece, il suo amico Giambattista Cuneo, che fu per tutta la vita un fervente mazziniano.”NeI 1811 – raccontò – trovandosi Garibaldi in Taganrog, capitò in una locanda dove eransi riuniti molti marinai di molte parti d’Italia, i quali delle umilianti condizioni di questa avevano fatto doloroso argomento ai loro discorsi. Era tra costoro un giovane, il Credente… il quale affannavasi a far concepire ai poco creduli compagni speranze di lieto e glorioso avvenire alla patria comune. Garibaldi, dal fondo della sala, porge€va attento orecchio a quel ragionare e alla fine, non potendo più trattenersi, correva verso lo sconosciuto giovane e, col trasporto che ben manifestava I’ardore dell’animo, stringevalo al suo seno. Da quel giorno ei divenne l’amico del cuore di quel credente che lo iniziò alle dottrine della Giovine Italia”.Chi era il credente? Probabilmente lo stesso Cuneo, che racconta la scena come se ne fosse stato il protagonista. Alcuni storici, invece, lo negano.
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Il cospiratore della Giovine Italia

Quando gli incontri coi sansimonisti francesi e col mazziniano italiano accaddero, Garibaldi aveva 26 anni. Non era più un giovane, ma un uomo. Ormai le sue convinzioni erano salde e mature, seppur semplici. Voleva la liberazione dell’Italia dal dominio straniero e dal dominio dei principi asserviti allo straniero, come i Savoia. Era repubblicano, democratico, umanitario con una vaga coloritura socialista; si era persuaso che il problema italiano fosse congiunto con quello di tutti i popoli oppressi e che, perciò, ovunque si combattesse per la libertà, I’indipendenza e la democrazia, ivi si combatteva anche per l’Italia.
Queste convinzioni non se le era fatte con lo studio di un uomo politico o di un filosofo, ma raccogliendole un po’ ovunque e un po’ da tutti, nella sua città, nei porti del Mediterraneo e del Mar Nero e sul mare. Erano, in realtà, le idee che una gran parte degli Italiani nutriva, anche se inespresse e che fremevano nell’atmosfera della penisola. Inoltre, dalla sua professione di marinaio, Garibaldi aveva imparato che non bisognava limitarsi a pensare, ma bisognava anche agire ed agire subito.
Ed infatti, non appena la Clorinda, di ritorno dal suo viaggio, calò le ancore nel porto di Marsiglia, Garibaldi scese a terra e corse da Giuseppe Mazzini. Il grande agitatore ligure, mandato in esilio dal governo dei Savoia due anni prima, aveva fatto della città francese il centro del nuovo organismo politico che egli aveva creato, la Giovine Italia. Egli accolse con entusiasmo Garibaldi, così come accoglieva i molti giovani patrioti italiani d’ogni ceto che accorrevano da lui, lo iscrisse alla Giovine Italia, ed immediatamente gli affidò un difficile e pericoloso compito.
Proprio in quell’anno era avvenuta ed era stata scoperta la cospirazione militare promossa da Mazzini in Piemonte e in Liguria. Nel momento nel quale Garibaldi e Mazzini si incontravano, in Piemonte si stavano svolgendo i processi contro i cospiratori; quattordici martiri avrebbero consacrato con la loro vita l’eroico tentativo e coperto d’infamia il nuovo re Carlo Alberto. L’insuccesso non aveva però scoraggiato il Mazzini, che stava progettando una seconda impresa insurrezionale. Una colonna di volontari, adunata in Francia e in Svizzera, avrebbe dovuto penetrare in Savoia, giungere in Piemonte e sollevare gli elementi democratici dell’esercito e della popolazione.

La spedizione di Savoia doveva essere accompagnata da una sommossa in Genova e da un ammutinamento nella marina militare. Garibaldi fu incaricato di far proseliti fra i marinai delle navi da guerra in rada a Genova.

Garibaldi e Mazzini
Secondo la legge vigente nel regno di Sardegna, ogni giovane che avesse superato i diciotto anni era soggetto alla leva; coloro, però, che erano già imbarcati su navi mercantili, potevano ritardare la loro presentazione alle armi. Garibaldi, per poter assolvere all’incarico ricevuto, rinunciò ad un nuovo ingaggio e si presentò per compiere il suo periodo di servizio militare. Fu arruolato come marinaio e destinato, prima alla fregata Euridice, poi alla fregata Des Geneys. Su ambedue le navi egli riuscì a costituire dei piccoli nuclei rivoluzionari e, nel contempo, prese contatto coi mazziniani genovesi. Egli non sapeva che fra costoro e specialmente fra i militari che sembravano dare ascolto alle sue parole, si erano insinuate delle spie e che, perciò, la polizia era informata di tutto.
Il Mazzini aveva fissato la data del 1° febbraio 1834 per dare inizio al moto combinato.

L’impresa di Savoia fallì. A Genova, Garibaldi fu avvertito che il 4 febbraio i cospiratori avrebbero assalito una caserma. Sceso a terra con il pretesto di una malattia, vi si recò, ma invano attese per qualche tempo. Tutto rimaneva nella più grande tranquillità. Fu invece avvertito che già la polizia stava procedendo agli arresti e che, anzi, uno dei primi a cadere nelle sue mani era stato il suo amico e compagno di cospirazione Edoardo Mutru. Garibaldi non pose tempo in mezzo; travestitosi, riuscì a raggiungere il confine con la Francia, lo varcò e si mise in salvo. In contumacia il tribunale militare lo condannò a morte.

Sebbene in Francia regnasse in quel tempo il re Luigi Filippo, portato sul trono da una rivoluzione e che si atteggiava a liberale, tuttavia per gli esuli mazziniani vi era sempre il pericolo di essere arrestati e consegnati al carnefice di Carlo Alberto. Perciò Garibaldi, che, dopo qualche traversia era giunto a Marsiglia, cambiò il proprio nome in quello di Giuseppe Pane. Nella città francese riprese contatto coi suoi compagni di fede, poi, dovendo vivere, si fece assumere come secondo ufficiale a bordo di un brigantino. Più tardi prese servizio su una nave del bey di Tunisi ed infine su un mercantile turco.
Tornato a Marsiglia nel 1835, mentre vi infieriva una epidemia di colera, diede assistenza ai malati, sfidando il contagio. In ultimo, essendogli stato offerto un ingaggio sul brigantino Nautonier, lo accettò e salpò verso il Brasile.
Il Brasile, quando vi giunse Garibaldi, era un impero, sedicente costituzionale. Vi regnava la dinastia portoghese dei Braganza. Era popolato da tre razze diverse: i portoghesi, che dominavano in maniera assoluta gli schiavi negri, che erano sfruttati con metodi brutali e barbari; gli indios, cioè gli antichi abitanti del paese, che vivevano in stato di estrema povertà; in parte, quelli vicini alle città, erano semicivilizzati; in parte non civilizzati del tutto. Vi erano poi parecchie migliaia di immigrati da ogni nazione di Europa, fra i quali moltissimi italiani, alcuni dei quali recatisi in Brasile per ragioni commerciali o per trovar lavoro; la maggior parte fuggiti dall’Italia per scampare alla forca o alla prigione. Numerosi fra essi gli iscritti alle società segrete del periodo carbonaro e numerosi anche i mazziniani. Naturalmente, Garibaldi, del quale si conosceva la partecipazione alla cospirazione genovese e la condanna a morte, e che portava con sè una lettera di Mazzini, fu accolto con entusiasmo.
Egli si fece subito degli amici e fra essi Luigi Rossetti, anch’egli un fuoruscito politico, che divenne suo compagno fraterno.
Nei primi tempi della sua permanenza in Brasile, Garibaldi si dedicò al piccolo traffico marittimo, navigando insieme al Rossetti lungo la costa. Con l’aiuto di un altro italiano, i due amici avevano potuto procurarsi un vecchio barcone, al quale avevano dato il nome di Mazzini, inalberando la bandiera tricolore italiana.
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La guerra da corsa e la guerriglia  per la repubblica del Rio Grande del Sud

Oltre il loro lavoro, essi continuavano a svolgere attività politica, suscitando l’ira del rappresentante diplomatico del Regno di Sardegna, che mandava furibondi rapporti al suo governo. Il zelante funzionario di Carlo Alberto aveva preso contatti col collega austriaco a Rio de Janeiro, ma entrambi avevano concluso che presentare una protesta sarebbe stato inutile e ridicolo. Correva, infatti, per tutto il Brasile uno spirito di rivolta, che preoccupava i dirigenti dell’impero e li convinceva di non aggiungere legna al fuoco, andando alla caccia dei nemici dell’imperatore d’Austria e del re di Sardegna.
Pochi anni prima, nel 1831, il vecchio imperatore brasiliano, don Pedro I era stato costretto ad abdicare in favore del figlio, don Pedro II, ancora bambino. Il nuovo regime, per venite incontro ai malcontenti, aveva fatto molte concessioni in senso liberale, ma alcune regioni del Brasile non si erano accontentate e volevano una forma istituzionale più avanzata.
Nel 1835 una delle più ricche regioni del Brasile, il Rio Grande del Sud, la cui capitale era Porto Alegre, si era separata dal resto del paese e aveva proclamato la repubblica. Il governo centrale aveva mandato un esercito per domare la ribellione ed era scoppiata la guerra.
Uno dei dirigenti del nuovo piccolo Stato era un italiano il conte Livio Zambeccai, il quale, però, fatto prigioniero, era stato rinchiuso nel forte di Santa Cruz, nella baia di Rio de Janeiro.

Il Rossetti e il Garibaldi ebbero il permesso di far visita al Zambeccari, il quale, pur dentro la sua prigione, continuava ad operare per la repubblica riograndese. Egli si assicurò la partecipazione dei suoi due compatrioti alla lotta che stava conducendo e dopo pochi giorni fece aver loro una lettera di corsa, cioè una autorizzazione ufficiale a fare la guerra da corsa contro le navi dell’impero brasiliano, da guerra e mercantili, assalendole con le armi. Questo tipo di guerra, allora, era considerato legittimo e vi erano stati corsari inglesi, francesi e olandesi, il cui nome era salito a grande fama.

Può sembrare strano che vi fossero patrioti italiani disposti a combattere una guerra pericolosa e difficile, senza alcuna ricompensa, in favore di una fazione interna di uno Stato straniero contro un’altra fazione. Ciò poteva avvenire perchè l’idea della solidarietà internazionale fra i patrioti democratici, in nome dell’indipendenza e della libertà dei popoli contro i sovrani e i dittatori reazionari, era ormai condivisa dalla grande maggioranza dei patrioti europei, ed appunto per realizzarla Giuseppe Mazzini aveva fondato la Giovine Europa.
Combattendo per il Rio Grande, Garibaldi, Rossetti e i loro compagni erano convinti di combattere anche per l’Italia, perchè, a loro modo di vedere, la causa era comune.
Con la guerra da corsa Garibaldi iniziò la sua carriera militare. Questo fatto ebbe una notevole importanza per il Risorgimento italiano. I capi militari che si susseguirono a guidare i soldati e i volontari italiani nelle guerre dal 1820 al 1870, uscirono da origini e da scuole diverse.
All’inizio del Risorgimento, alla testa delle formazioni militari del periodo carbonato vi furono gli ufficiali che avevano fatto carriera negli eserciti napoleonici, cominciando dai gradi più bassi e arrivando ai più alti.
I nomi più noti di questi veterani napoleonici, che furono tra i protagonisti delle vicende italiane dal 1820 al 1831, furono quelli dei generali Gabriele, Guglielmo e Florestano Pepe e Pietro Colletta, napoletani; Carlo Zucchi e Giuseppe Sercognani, emiliani; Giuseppe e Teodoro Lechi, lombardi; e dei colonnelli Michele Regis e Guglielmo Ansaldi piemontesi.
Un altro gruppo fu quello degli ufficiali i quali si formarono militando in tema straniera, negli eserciti di parte liberale. Qualcuno di essi aveva iniziato il servizio militare sotto Napoleone e non volendo abbandonare le armi si era arruolato in altri eserciti, come avevano fatto Giacomo Antonini e Gerolamo Ramorino, che si distinsero nelle file degli insorti polacchi.
Altri furono patrioti costretti ad abbandonate l’Italia, come i fratelli Giacomo e Giovanni Durando, Domenico Cucchiari, Enrico Cialdini, Manfredo Fanti e molti altri; essi combatterono negli eserciti liberali di Spagna e di Portogallo, raggiungendovi i più alti gradi ed acquistando grande fama.
Nel 1848-49 tutti questi esuli accorsero in Italia ed entrarono nell’esercito piemontese, nel pontificio, oppure, come il valoroso Antonini, assunsero il comando dei volontari in Lombardia e nel Veneto.
Nelle operazioni di guerra che si svolsero in questo periodo coloro che provenivano da eserciti esteri si trovarono fianco a fianco coi capi militari piemontesi. Uomini di coraggio, i capi militari piemontesi furono tuttavia, senza alcun dubbio, la componente più scadente, dal punto di vista tecnico, del ceto militare italiano. Lenti, indecisi, ossessionati dalla paura delle responsabilità e senza spirito d’iniziativa, incapaci di formulare e attuare un piano strategico e di prendere rapide decisioni, essi condussero l’esercito piemontese e poi italiano ad una serie di avvilenti insuccessi.
La prima sconfitta di Custoza, che pose termine alla guerra del 1848, fu dovuta alla inerzia del comando piemontese e particolarmente alle deficienze del re Carlo Alberto e del capo di S.M. Eusebio Bava.
La seconda sconfitta di Custoza, che determinò il fallimento della guerra italiana nel 1866, fu dovuta alla incredibile incapacità del massimo esponente militare piemontese, il generale Alfonso La Marmora. Anche gli elementi provenienti dalle file liberali e i generali passati dall’esercito borbonico all’italiano dopo il 1860, e persino quelli, infine, che si erano battuti agli ordini di Garibaldi nel 1848, nel 1859 e nel 1860 (Medici, Cosenz, Sirtori e Bixio), divenuti generali dell’esercito italiano, furono soffocati dall’immobilismo e dal conformismo dell’ambiente, perdendo gran parte del loro valore.
Si verificò, in tal modo, un fatto singolare. Mentre gli Italiani che combattevano negli eserciti stranieri erano generalmente lodati e apprezzati, tanto che a molti di essi furono assegnati gradi e compiti importanti, nella opinione pubblica europea, invece, il giudizio che si dava sull’efficienza militare dello Stato italiano era generalmente negativo ed era di moda far mostra di disprezzo nei confronti dei soldati italiani e più ancora nei confronti dei generali.
Per quanto riguarda i generali questo modo dl pensare era diffuso anche in Italia, dove era considerato un motto di spirito dire che l’esercito italiano aveva il corpo di un leone, ma la testa era di un asino. Ecco perchè, quando apparve un capo militare dotato di qualità che i generali dell’esercito regolare non possedevano, prontezza, rapidità di concezione e di esecuzione, capacità di porre in atto stratagemmi e di eseguire manovre tali da ingannare il nemico, questo capo conquistò subito l’ammirazione del popolo. Il quale, quasi per reagire al malcelato disprezzo dell’alta società italiana, degli uomini di governo e dei gerarchi della casta militare, considerava Garibaldi come il più abile fra i generali e lo esaltava come invincibile. Se, contrariamente a questa lusinghiera opinione, egli subiva un insuccesso) non per questo la fiducia diminuiva. La colpa era attribuita a tutti, meno che a lui.
Le qualità che fecero di Garibaldi il campione guerriero del popolo italiano, egli le acquistò principalmente nelle operazioni di guerra delle quali fu partecipe nell’America meridionale. Nella guerra di corsa sul mare e nella guerriglia sulla terra, Garibaldi si trovò a dover combattere in territori ancora selvaggi e poco conosciuti. Sulle onde dell’Oceano Atlantico, spesso sconvolte da improvvise e furiose tempeste, sulle scogliere o sulle lagune infide della costa, nelle boscaglie inesplorate, nelle savane e nelle praterie dell’interno, dovunque il pericolo di morte era presente. Il clima torrido e umido, le insidie delle fiere e degli insetti velenosi, la difficoltà di trovar cibo, acqua e riparo, i fulminei e micidiali assalti dei nemici, più numerosi, meglio armati, maestri nelle imboscate e negli agguati, infallibili tiratori e impareggiabili cavalcatori, rendevano necessarie per sopravvivere, la più grande robustezza fisica, la sopportazione dei disagi, la prontezza nel prendere decisioni, l’indomabile volontà di superare gli ostacoli e vincere le prove.
Garibaldi si abituò a non smarrirsi e a non titubare mai, a rendersi immediato conto della realtà e ad adattarvi le sue forze, a sapersi imporre non con la forza, ma con il prestigio ai suoi soldati, domandando loro la vita, se necessario, ma non sprecandola.
Garibaldi in Uruguay, dove, alla testa della Legione Italiana, combattè contro l’esercito del generale Urquiza
La guerra da corsa cominciò con l’abbordaggio di una goletta, il cui proprietario era un austriaco. Per procurarsi viveri vendendo il bottino, i corsari sbarcarono in Uruguay, dal quale paese dovettero ripartire più che in fretta per non essere fatti prigionieri. Infatti il governo brasiliano Ii aveva segnalati, domandandone I’arresto, ai governi uruguaiano e argentino.
Eccoli nuovamente in mare, inseguiti da navi nemiche, in preda alla tempesta, incagliati sulla costa, minacciati di distruzione dai frangenti.

L’eccezionale abilità marinara di Garibaldi riuscì a salvare la nave. Raggiunti, dopo qualche tempo, da imbarcazioni, armate dell’Uruguay, dovettero sostenere un furioso combattimento, dal quale uscirono vittoriosi. Garibaldi, però, fu ferito e non potè ,essere curato finchè, risalendo il fiume Paranà, non raggiunsero il porto di Gualeguay, nella provincia argentina di Entre Rios. Quivi la popolazione li accolse bene, ma le autorità, pur non procedendo ad arresti, imposero a Garibaldi, dopo che fu guarito, di non allontanarsi dal paese. Inoltre sequestrarono la nave. Garibaldi tentò la fuga, ma, tradito dalla guida, fu preso, legato e condotto dal governatore Leonardo Millan, che lo fece sottoporre alla tortura. Si rifiutò di svelare chi lo aveva aiutato e sputò in faccia al suo aguzzino. Finalmente, dopo venti giorni, trasferito in un’alma città fu liberato da un più umano governatore.

Il primo incontro tra Garibaldi e Anita
(ricostruzione di Edoardo Manara)

Indomato, dopo un breve periodo di riposo a Montevideo, Garibaldi si recò a Piratiny, piccolo villaggio dove risiedeva, in quel momento, il governo della repubblica del Rio Grande, la capitale essendo in mano al nemico. Ebbe il comando di due lancioni, piccole imbarcazioni con due cannoni a testa, che costituivano tutta la flotta della repubblica. Con queste doveva opporsi a|la squadra brasiliana, forte di 30 navi, che occupava la Lagôa de los patos (la Laguna delle anatre), il mare interno del Rio Grande.

Ricominciarono gli scontri sull’acqua e i corsari si impadronirono di un’altra goletta brasiliana, carica di viveri preziosi. Ma il 17 aprile 1839 una forte colonna di brasiliani, fra i quali erano anche mercenari austriaci, assalì un piccolo gruppo di garibaldini, scesi a terra per riparare i barconi. Arse un violento combattimento e i brasiliani furono respinti con perdite.
La gioia di questo successo fu rattristata da un naufragio avvenuto poco dopo sulle coste dell’Atlantico.

Garibaldi si salvò a stento; molti suoi compagni, invece, morirono.

Anita Ribeiro Garibaldi
Il dolore per la perdita dei compagni, fra i quali alcuni dei suoi più cari amici italiani, non impedì a Garibaldi di continuare a partecipare alle operazioni di guerra dei repubblicani.
Conquistate alcune navi nemiche, si trovò a capo di una piccola flotta e con essa, giunse nelle acque della provincia di Santa Caterina,la quale si ribellò e si proclamò repubblica.
Quivi, mentre era all’ancora davanti alla piccola città di Laguna, Garibaldi vide una fanciulla, Anita Ribeiro. Probabilmente (non lo si sa con certezza) essa era sposata, ma il marito era assente, perchè malato. Garibaldi se ne innamorò; essa lo corrispose e lo seguì. Più tardi divenne libera e il matrimonio potè essere regolarmente effettuato il 26 marzo 1842.
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Combattente per la libertà dell’Uruguay

Ormai la resistenza dei repubblicani rio-grandesi volgeva al termine e Garibaldi domandò al governo il permesso di allontanarsi dall’esercito, per far riposare Anita e un figlio che era nato. Ottenutolo, si rifugiò a Montevideo, capitale dell’Uruguay, e ivi, per vivere, fece il piazzista e diede lezioni di matematica.
Dal 1835 al 1838 l’Uruguay (una volta chiamato Banda oriental e, perciò, i suoi abitanti orientali) era stato dominato da un generale Oribe, detto il corta cabezas, perchè faceva tagliare la testa ai suoi nemici. Costui, rovesciato, fuggì in Argentina e trovò un alleato in un altro despota sanguinario, il dittatore argentino Manuel Rosas.
Quando Garibaldi giunse a Montevideo, Oribe, alla testa di truppe e navi argentine, tentava di occupare il paese, del quale, in caso di successo, il vero padrone sarebbe diventato il Rosas. Contro l’invasore era in armi il governo democratico di Montevideo, alleato alle province di Entre Rios (cosiddetta perchè situata entro i fiumi Paranà e Uruguay) e di Corrientes, che si erano ribellate al giogo argentino.
Era urgente soccorrere le due province e l’impresa fu affidata ad una piccola flotta di tre navi, il cui comando fu affidato a Garibaldi.
Il marinaio nizzardo, infatti, aveva ormai conquistato una solida fama di condottiero abile e coraggioso. Egli, naturalmente, accettò, e lasciando Anita a Montevideo, salpò il 23 giugno 1842. Doveva risalire per 600 miglia il Paranà, dove stazionava una forte squadra argentina di sette navi, comandata da un ammiraglio inglese.
Forzato uno sbarramento argentino, munito di cannoni, il naviglio garibaldino cominciò il suo viaggio lungo il fiume, impadronendosi di molte imbarcazioni nemiche. Ma il 15 agosto fu affrontato dalla squadra argentina e non potè sfuggire al combattimento.
La battaglia infuriò per due giorni. Due unità nemiche colarono a picco e gravi furono le perdite d’ambo le parti.

Alla fine, terminate le munizioni, Garibaldi dovette far sbarcate i superstiti e far saltare due navi ormai in pezzi. Il piccolo gruppo, giunto a terra, ebbe l’ordine di portarsi a piedi dal fiume Paranà al fiume Uruguay, traversando il territorio di Entre Rios. Quivi giunti, dopo mesi di marcia, ebbero la notizia che le truppe di Oribe avevano disfatto l’esercito uruguaiano e marciavano sulla capitale. Montevideo era in pericolo e bisognava correre alla sua difesa.

Oribe, con il suo esercito, si presentò ben presto davanti a Montevideo e la cinse d’assedio. Il governo democratico fece appello a tutte le energie del popolo per resistere; si crearono opifici per le armi e le munizioni e si diede la libertà agli schiavi per farne dei soldati, Fu ricostituita una piccola flotta e al comando di essa Garibaldi compì alcune fortunate azioni di guerra. Anche gli immigrati europei si mobilitarono. Gli Italiani costituirono un corpo di
500 volontari, che prese il nome di Legione Italiana, ed ebbe come divisa una giubba rossa.
Garibaldi ne fu messo a capo ed egli chiamò a coadiuvarlo un valoroso ed energico esule lombardo, Francesco Anzani, che aveva già combattuto in Grecia, nella penisola iberica e in Brasile, nelle file democratiche.
La Legione si fece subito onore in duri combattimenti, nella località Tre Croci, al forte del Cerro, e sulla collina del Cerrito, tutte posizioni della difesa di Montevideo. Alle battaglie di terra Garibaldi alternava le battaglie in mare e nell’ottobre 1844 assalì con alcune navi la fotta argentina che incrociava nella baia di Montevideo e la costrinse alla ritirata.
Entusiasta il presidente della Repubblica offrì alla Legione il possedimento di vaste zone coltivabili. Garibaldi, a nome suo e dei compagni, le rifiutò.

Francesco Anzani
Inghilterra e Francia, danneggiate nei loro commerci, intervennero affinchè la guerra finisse e offrirono la loro mediazione, ma il Rosas, per il quale la pace senza l’occupazione di Montevideo sarebbe stata uno scacco, rifiutò. Allora le due flotte europee posero il blocco ai porti argentini e penetrarono nel Rio de la Plata.
Il governo di Montevideo, incoraggiato dagli anglo-francesi, pensò di attuare qualche puntata offensiva contro gli avversari anche all’interno del territorio. Fu formato un piccolo corpo di spedizione, composto dalla Legione Italiana e da trecento soldati dell’Uruguay. Ne fu affidata la direzione a Garibaldi, il quale, imbarcata la sua gente su 15 navi, salpò le ancore nell’agosto 1845. Espugnò l’isola di Martin Garcia, baluardo fortificato argentino, collocato là dove i fiumi Paranà e Uruguay confluiscono per formare il Rio de la Plata.
Risalendo l’Uruguay conquistò la città di Gualeguaychu, dove trovò armi, cavalli, munizioni e viveri in abbondanza.
Cadde nelle sue mani anche quel Leonardo Millan che lo aveva fatto torturare. Egli non volle nemmeno vederlo e lo lasciò libero. Superò con la forza alcuni sbarramenti armati nemici e, alla fine d’ottobre, giunse alla località detta il Salto, nel cuore del campo avversario. Con un fulmineo e improvviso assalto sbaragliò un concentramento argentino, facendo inoltre un grosso bottino.
Ma il comandante in capo dell’esercito del Rosas, il generale Urquiza, che poco prima aveva distrutto il grosso delle forze uruguaiane, comandate dallo stesso presidente Ribera, accorse con un forte contingente di soldati per annientare il corpo garibaldino.
Attaccò il 6 dicembre, appoggiando con un nutrito fuoco d’artiglieria l’avanzata della fanteria. I cannoni che Garibaldi aveva fatto sbarcare dalle navi risposero al bombardamento nemico, i volontari contrattaccarono e Urquiza fu ricacciato sulle posizioni di partenza. Allora il generale argentino diede inizio ad una guerra d’assedio, senza alcun risultato.
Intanto il generale uruguaiano Medina, con ciò che gli rimaneva dell’esercito uruguaiano, procedeva lungo l’Uruguay, per cercare di congiungersi con Garibaldi. Questi, I’8 febbraio 1846, si mosse per andargli incontro con 100 cavalieri uruguaiani e 186 legionari italiani. Ma nella località detta di Sant’Antonio i garibaldini furono improvvisamente affrontati da una colonna argentina di 300 fanti e 1000 cavalieri.
La cavalleria uruguaiana prese la fuga e i legionari rimasero soli.
Essi arrestarono con una precisa scarica di fucileria lo slancio della cavalleria nemica e, approfittando dello scompiglio, la investirono con le baionette, distruggendola in gran parte. Sopravvenne la cavalleria di Urquiza, ma anche essa fu decimata e costretta a retrocedere.
Sopraggiunse, dopo un’intera giornata di lotta, la notte. Quasi tutti i volontari erano feriti e ardevano dalla sete. Nella notte, guidati da Garibaldi, poterono ripiegare fino alle loro posizioni. Gli argentini, che avevano subito gravi perdite, si allontanarono e il generale Medina potè arrivare a destinazione senza ostacoli.
La permanenza della Legione Italiana nella zona del Salto durò ancora qualche tempo. Vi fu un altro combattimento al fiume Dayman, un affluente dell’Uruguay e nuovamente il nemico fu volto in fuga. Oramai, però, la guerra si stava esaurendo, perchè gli Anglo-francesi avevano imposto trattative diplomatiche.
La Legione fu richiamata a Montevideo, dove giunse nel settembre. Quivi Garibaldi e i suoi trovarono un’atmosfera di entusiasmo ,e di ammirazione, anche perchè la loro impresa, anche se di non grande mole dal punto di vista militare, era stata I’unica vittoriosa in una serie di sconfitte della repubblica. I garibaldini furono dichiarati benemeriti della repubblica ed onorati con molti segni di distinzione. Garibaldi fu persino nominato comandante dell’esercito, carica che egli declinò per non essere coinvolto nella lotta politica.
Anche i capi militari francese ed inglese segnalarono il suo valore, le sue gesta furono raccontate nei giornali e furono conosciute in Europa e in Italia.
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Coi volontari del 1848 in Lombardia

Era allora luogo comune, in Europa e persino nel nostro paese, che gli Italiani, dotati di alte capacità nei campi della cultura e dell’arte, fossero invece di basso livello nel campo delle armi. La frase: “gli Italiani non si battono” era alla moda nei salotti della società benpensante, quasi a sottolineare la convenienza di sottomettersi alla volontà delle grandi potenze militari. La leggenda degli eserciti che avevano combattuto con Napoleone era svanita mentre bruciava ancora la facilità con la quale gli Austriaci avevano disperso gli eserciti carbonari del 1820-21 e del 1831. I capi del movimento patriottico italiano, e specialmente il Mazzini, si rendevano conto di questo stato depressivo dell’opinione pubblica ed erano convinti che fosse necessario reagire.

Bisognava ricreare nel popolo l’orgoglio nazionale, persuaderlo che anche in Italia vi fossero uomini capaci non solamente di eguagliare, ma di superare gli stranieri nel valore militare, dar vita al mito dell’eroe popolare e repubblicano, simile a quelli dell’antica Roma. Per raggiungere questo scopo Mazzini aveva messo gli occhi su Garibaldi e sulla sua Legione:

“O voi pubblicate qualche cosa sulla Legione, scrisse il 20 ottobre 1846 al Cuneo, editore di un giornale a Montevideo, o lo farò io se non mi inviate materiali. Giova, oltre la lode da darsi al merito, che la Legione e il nome di Garibaldi diventino una influenza morale in Italia: e farò che sia”.

L’opera di far conoscere ed esaltare le gesta garibaldine dal Mazzini, dal Cuneo, da molti Italiani esuli in America ed anche da stranieri, come il ministro britannico a Montevideo, che scrisse una lettera al Times, fece sì che il nome di Garibaldi divenne rapidamente popolare; nell’ottobre 1846 una sottoscrizione per offrirgli una spada d’onore si coprì in poco tempo di firme.

In quei tempi l’America prendeva ancora, nella fantasia della gente, l’apparenza di un paese favoloso € tutto ciò che vi accadeva sembrava avventura. Gli ardimenti dell’eroe biondo e dell’amazzone creola che gli si era accompagnata in quel lontano e misterioso paese, gli epici combattimenti nei matos e nelle pampas e gli abbordaggi fra legni corsari; le fughe a cavallo; l’atmosfera di pericolo continuo e d’amore colpirono tutte le immaginazioni ed il sentimentalismo romantico se ne impadronì e le trasfigurò. Tanto più che non era solamente un eroe, ma, finalmente, un eroe italiano, che vinceva e dava gloria alla patria.

Ma ormai era venuto il tempo che Garibaldi tornasse in Italia, Giungevano nell’Uruguay le notizie del movimento italiano, che aveva preso le mosse dall’elezione di Pio IX al pontificato, nel giugno 1846. Anche in America aveva destato grande entusiasmo l’atteggiamento liberale del nuovo papa e Garibaldi ed Anzani non avevano perso tempo.

Avevano scritto al nunzio apostolico in Brasile, monsignor Bedini, offrendo i servizi propri e della Legione a Pio IX.  Il nunzio aveva trasmesso la lettera al Vaticano, ma da Roma non era giunta nessuna risposta. Poi, via via, giunsero altre notizie sempre più incoraggianti e gli Italiani dell’Uruguay diedero inizio ad una sottoscrizione per dare ai legionari che lo volessero il mezzo per tornare in Italia. Garibaldi, intanto, alla fine del 1847, fece partire per Nizza la moglie e i figli.

Incontro di Garibaldi con Carlo Alberto a Roverbella
(illustrazione di Edoardo Matania)
Coi denari della sottoscrizione fu noleggiato un brigantino, al quale fu messo il nome Speranza. Giacomo Medici, un repubblicano che aveva combattuto nella penisola iberica, fu mandato in italia a prendere accordi con Mazzini. Poi ci si preparò alla partenza, che fu ritardata da una malattia che colpì Anzani, da ostacoli del governo e da previsioni pessimistiche e dissolvitrici, che convinsero molti a non partire. Alla fine i partenti furono solamente 63, che dovettero attendere fino al 15 aprile 1848 per prendere il mare. Durante una breve sosta in un porto della Spagna, essi seppero che grandi avvenimenti si erano svolti in Italia: le Cinque Giornate, l’inizio della guerra contro l’Austria.
Il 21 giugno sbarcarono a Nizza, accolti con entusiasmo dal popolo.
La gioia dell’arrivo fu funestata dalla morte di Anzani, avvenuta poco dopo.
Appena giunto in Italia, Garibaldi dichiarò che, pur essendo repubblicano, era pronto a schierarsi con i suoi sotto le bandiere del re Carlo Alberto. Nella lotta contro un potente nemico, egli disse, bisogna essere tutti uniti e non disperdere le forze.
Queste sue dichiarazioni provocarono lo sdegno del Medici, allora ardente repubblicano. Ma nelle sue vicende americane, Garibaldi aveva imparato a tener conto della realtà e ad adattarvi i principi.
Perciò, coerentemente a questo suo modo di pensare, egli partì immediatamente per Roverbella, dove aveva sede il Quartier generale di Carlo Alberto. Egli offrì al re l’opera sua e dei suoi, ma fu invitato a recarsi a Torino, al ministero della guerra. Pazientemente fece il viaggio fino alla capitale piemontese, non trovò il ministro della guerra e parlò col ministro degli interni, per sentirsi dire di recarsi a Venezia, dove, forse, gli avrebbero affidato qualche piccola imbarcazione per la guerra da corsa.
Allora capì con chi aveva a che fare.

Inetta, boriosa, intimamente reazionaria, la classe dirigente piemontese, re, ministri, generali, era stata trascinata in guerra dall’avidità di far sua l’agognata Lombardia, approfittando della rivolta popolare contro l’Austria, ma odiava tutto ciò che aveva colore di libertà e di democrazia.

Schizzo del teatro di guerra di Garibaldi nel 1848
Garibaldi fu accolto meglio a Milano, dove il Governo provvisorio lo nominò generale di brigata e lo incaricò di formare, con la sua Legione e con altri nuclei di volontari, una unità di combattimento. Garibaldi riuscì, infatti, a costituire un battaglione al quale diede il nome di Anzani. Fu ostacolato nell’armamento e nell’equipaggiamento dallo stupido ostruzionismo di un altro generale piemontese, il Sobrero, che il Governo provvisorio aveva avuto il torto di accettare come ministro della guerra.
Ma intanto si era giunti alla fine di luglio e cattive notizie arrivavano dal campo di battaglia. L’esercito piemontese, comandato nella maniera peggiore possibile, era stato battuto a Custoza e retrocedeva. La Lombardia e Milano erano in pericolo. Fu costituito un Comitato di pubblica difesa e Garibaldi, con 1500 uomini, fu inviato a Bergamo per contrastare I’avanzata dell’ala destra nemica.
A Bergamo, con la collaborazione di patrioti locali, il piccolo esercito garibaldino salì a 3700 uomini; la città fu posta in stato di difesa e non vi è dubbio che avrebbe costituito, in mano a Garibaldi, una efficace base di partenza per una offensiva sul fianco delle forze nemiche. Ma, alla sera del 3 agosto, gli fu comunicato l’ordine di portarsi a Milano, per prendere parte alla grande battaglia che avrebbe dovuto essere combattuta all’indomani.
Alla mattina del 4 Garibaldi si mise in marcia e il giorno dopo era a Monza, pronto ad assalire il nemico alle spalle, quando fosse divampata la battaglia. Ma Carlo Alberto si guardò bene dal combattere. Chiese ed ottenne dagli Austriaci l’armistizio e lasciò la capitale lombarda nelle mani del nemico. Non vi è da meravigliarsi se, quando seppero la notizia, molti volontari, considerando che il corpo garibaldino, solo in mezzo alle forze austriache, era destinato alla distruzione, credettero più con. veniente allontanarsi.
Garibaldi, invece, deciso a continuare la lotta, ripiegò fino a Como. Quivi Mazzini, che era il portabandiera del battaglione, si allontanò per recarsi in Svizzera a raccogliere armi e denari. Ciò servì di pretesto a molti altri per disertare. Garibaldi rimase con poco più di 1000 uomini e con essi, dopo aver lanciato un proclama al popolo, iniziò nella regione del Lago Maggiore, una serie di manovre atte ad insidiare gli avversari senza farsi agganciare. Sperava, mantenendo viva la guerra, in una nuova sollevazione popolare.
A Luino un corpo austriaco, che era venuto all’attacco, fu respinto e volto in fuga. Il comando austriaco mandò contro i garibaldini un intero corpo d’armata.
Il 26 agosto vi fu un nuovo scontro a Morazzone ed anche questa volta gli Austriaci furono ributtati. Ma ormai i volontari erano rimasti in pochi e, dopo una difficile ritirata, dovettero sconfinare in Svizzera.
Il difensore della Repubblica romana
Itinerario della ritirata di Garibaldi da Roma a Magnavacca e qui potè imbarcarsi per la Liguria

Dopo un breve periodo di riposo a Nizza, malvisto dal governo piemontese, Garibaldi si recò a Genova, invitato dai patrioti del Circolo italiano. Avrebbe dovuto prender parte a un tentativo mazziniano in Lombardia, ma, chiamato dai Siciliani, non mise tempo in mezzo e partì per l’isola con 72 compagni. Il piroscafo sul quale erano imbarcati fece scalo nel porto di Livorno, una delle città più democratiche d’Italia. Quivi il popolo non volle che Garibaldi continuasse il viaggio e fece dimostrazioni affinchè gli fosse affidato il comando dell’esercito.

Ma il governo di Firenze, alla cui testa erano i democratici Montanelli e Guerrazzi, non volle saperne. Garibaldi decise allora di recarsi, coi suoi volontari, a Venezia, ma al confine con lo Stato pontificio furono fermati.
Il popolo di Bologna insorse contro questa decisione e Garibaldi potè entrare in trionfo nella capitale dell’Emilia. Da Bologna, poi, i legionari marciarono sino a Ravenna, dove furono raggiunti da altri gruppi di volontari.
Ma intanto era giunto il novembre e a Roma accadevano gravi fatti. Fu ucciso il ministro Pellegrino Rossi e, poco dopo, Pio IX fuggì e si rifugiò nel regno dei Borboni. Garibaldi abbandonò l’idea di andare a Venezia e si offrì al nuovo governo romano, che accettò i suoi servizi.
Corse a Roma per accordarsi, ma si accorse che nella capitale non lo volevano. Gli fu ordinato, invece, di sostare con il suo corpo, che aveva preso il nome di Legione Italiana, a Rieti, per sorvegliare il confine con lo Stato napoletano. La Legione era male equipaggiata ed armata solo in parte, anche per I’ostilità della Commissione di guerra, della quale faceva parte Carlo Pisacane, che non stimava le qualità militari del guerrigliero.
Frattanto si erano svolte le elezioni per l’Assemblea nazionale.
Garibaldi, eletto deputato, fu il primo a proporre la proclamazione della repubblica, il che avvenne il 9 febbraio 1848.
Gravi pericoli, però, minacciavano la neonata repubblica. Pio IX aveva invocato aiuto a Francia, Spagna e ai Borboni di Napoli e le tre potenze avevano deciso d’intervenire.
Il 24 aprile 1849 le navi della spedizione francese apparvero davanti al porto di Civitavecchia e lo occuparono. La Legione Italiana, che ormai contava piri di 1200 uomini, ebbe l’ordine dal ministro della guerra Avezzana di portarsi subito a Roma, per concorrere alla difesa della città.Garibaldi obbedì e nella notte sul 27 aprile partì per Roma. Il suo arrivo portò l’esercito romano a circa 8700 uomini, che furono divisi in quattro brigate, comandate da Garibaldi, Masi, Savini e Galletti, tutti col grado di colonnello.
Il 30 aprile il corpo di spedizione francese, sommante a 7000 uomini ed alla cui testa era il generale Oudinot, assalì le mura che circondavano il colle Vaticano, ma non riuscì a superare la resistenza della brigata Masi. I Francesi arretrarono per prepararsi a un secondo attacco.

Garibaldi, che aveva le sue forze a sud del colle Vaticano, ed, uscendo da Porta San Pancrazio, si era portato alla Villa Pamphili, antistante alle mura di Roma, prese una rapida decisione e lanciò le sue truppe, prima il Battaglione Studenti ed Artisti, poi la Legione contro i Francesi.

L’assedio di Roma: assalto al Casino dei Quattro Venti
(illustrazione di Edoardo Matania)

Divampò una lotta feroce sul terreno dove sorgevano le ville Pamphili e Corsini.
Alla fine, dopo una irruenta carica guidata personalmente da Garibaldi, i Francesi furono messi in rotta con la perdita di 300 morti, 165 feriti e 365 prigionieri, percentuale assai forte per quei tempi. Garibaldi avrebbe voluto inseguire il nemico fino a Civitavecchia e ricacciarli in mare, ma il Triumvirato che governava Roma, composto da Mazzini, Saffi e Armellini si oppose. Mazzini, infatti, sperava che a Parigi le sinistre si sarebbero impadronite del potere.

Infatti le sinistre lo tentarono, ma facilmente il presidente Luigi Napoleone soffocò il movimento. Per calmare l’indignazione dei democratici e guadagnar tempo, egli inviò a Roma come plenipotenziario Ferdinando de Lesseps, il futuro costruttore del canale di Suez, nel mentre faceva giungere al generale Oudinot potenti rinforzi di truppe, armi e mezzi.
Il Lesseps, che agiva in buona fede, appena giunto a Roma, dove nel frattempo era stato stipulato un armistizio, presentò delle proposte, sulle quali si iniziò la discussione.

La battaglia di Palestrina (9 maggio 1849) nella quale i garibaldini misero in fuga l’esercito borbonico
Intanto 10.000 borbonici avevano passato il confine, per ripristinare l’autorità del Sommo Pontefice e giunsero il 4 maggio a poca distanza da Roma. Garibaldi mosse loro, incontro con 2.300 uomini e fece alt a Palestrina, molestando con frequenti azioni di pattuglia i napoletani.
Il 9 maggio i borbonici decisero di liberarsi di quegli incomodi avversari e passarono all’attacco, ma furono contrattaccati e messi in fuga.
L’entusiasmo dei generali del re Ferdinando subì un fiero colpo ed essi decisero di tornare al loro paese. Iniziarono un movimento di ritirata, seguiti dal piccolo esercito romano, al quale si erano aggiunte nuove truppe, alla cui testa era lo stesso generale Roselli, militare poco capace, ma nominato, perchè romano, comandante in capo delle forze della repubblica.

Garibaldi, che era all’avanguardia, giunto a Velletri il 19 maggio, si accorse del movimento di ritirata dei borbonici e li attaccò senza aspettare ordini, facendoli fuggire. Egli li avrebbe inseguiti anche nel loro territorio, ma il Roselli si oppose.

Garibaldi a Roma nel 1849 (schizzo di Gerolamo Induno)
Il pericolo borbonico era così svanito. A Roma, intanto, proseguivano le trattative, che si conclusero il 30 maggio con un accordo che lasciava ai Romani la libertà di decidere dei loro destini. Ma il comando del corpo di spedizione, che aveva raggiunto i 30.000 uomini, con un forte nerbo d’artiglieria, rifiutò l’accordo e denunciò l’armistizio, dichiarando che avrebbe ripreso le ostilità il 4 giugno.
Gli ingenui Roselli e Mazzini caddero nell’inganno del francese, che, nella notte del 3 giugno, assalì gli avamposti romani addormentati e conquistò di slancio le posizioni antistanti Porta San Pancrazio. Bisognava riprenderle o la sorte della Repubblica era decisa.
Garibaldi, sebbene tormentato da una ferita, contrattaccò immediatamente l’invasore, e cercò di ributtarlo sulle posizioni di partenza. La disperata lotta alla villa Corsini, alla villa Pamphili e al Vascello durò furiosa per tutto il mese.
Vi si distinsero per il valore gli uomini migliori del patriottismo italiano e molti di essi caddero.
Nacque in quei giorni una leggenda di eroismo che non mori più e nutrì di sè tutto il Risorgimento italiano. Alla fine, però, la grande superiorità in uomini e in cannoni del corpo di spedizione ebbe il sopravvento.
Il 30 giugno I’Assemblea deliberò che la difesa era divenuta impossibile.
II 3 luglio i Francesi entrarono nella città contesa.

Garibaldi e il maggiore Leggero trasportano Anita morente attraverso le paludi di Comacchio (dipinto di P. Bouvier)
Sperando di poter continuare la lotta nelle campagne, Garibaldi uscì da Roma con 3000 uomini. Aveva con sè Anita, che era corsa a raggiungerlo in Roma. Quattro eserciti insidiavano la colonna, ma Garibaldi, con marce e contromarce riuscì ad evitarli. I volontari, però, poco abituati a questo tipo di guerra, si stancavano e disertavano.
Anche questa volta la meta di Garibaldi era Venezia, che ancora resisteva.
Attraverso il Lazio, la Toscana e la Romagna, giunse a San Marino. Ma ormai i volontari erano stremati e ridotti di numero. Perciò egli Ii lasciò liberi di allontanarsi alla spicciolata. Con pochi seguaci e con Anita ammalata, passando attraverso le scolte austriache, arrivò fino a Cesenatico, si imbarcò, ma, inseguito da una squadra austriaca, dovette tornare a terra.
Alcuni patrioti del luogo lo condussero a una fattoria nei pressi di Ravenna, dove Anita morì. Altri patrioti, fra i quali il sacerdote don Giovanni Verità, lo scortarono, sfidando gravi pericoli, fino alla riva del Tirreno. Quivi s’imbarcò, giunse in Liguria, fu arrestato, e, dopo varie peregrinazioni, lasciato libero, purchè fuori dal territorio del regno di Sardegna.
Sostò a Tangeri per qualche tempo.
Poi riprese le vie dell’esilio.
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Comandante dei Cacciatori delle Alpi nel 1859

Durante il secondo esilio Garibaldi percorse una buona parte del mondo. Fu negli Stati Uniti e quivi lavorò come operaio nella fabbrica di candele di Antonio Meucci, uno degli inventori del telefono. Dopo qualche tempo e altri viaggi, gli fu nuovamente affidato un bastimento mercantile. Navigò nei mari dell’America, dell’Oceania e dell’Asia; nel 1854 calò le ancore nel porto di Londra. Qualche giorno dopo incontrò, in casa di amici, Giuseppe Mazzini e non approvò la campagna che il patriota ligure conduceva contro i Savoia. Era convinto che convenisse a coloro che volevano sul serio il riscatto della patria, appoggiare e non ostacolare la monarchia piemontese, finchè questa seguisse una politica di ostilità all’Austria. Per lui il problema indipendenza precedeva il problema repubblica. Ecco perchè aderì alla Società nazionale italiana, fondata da due repubblicani, il Manin e il Pallavicino, con la parola d’ordine rivolta ai Savoia: Fate l’Italia e siamo con voi. Se no, no.

Nel secondo esilio Garibaldi aveva avuto contatti con gli operai nord-americani ed era stato accolto nei circoli democratici inglesi. Uscito ormai dall’anonimato e divenuto un personaggio europeo aveva stretto rapporti coi notabili del mondo progressivo cosmopolita, aveva dato e ricevuto opinioni. La sua ideologia giovanile, quella che lo aveva spinto ad entrare nelle file mazziniane, si era completata, era diventata più matura e più ferma.
I punti base erano quelli del movimento democratico: principio di nazionalità; supremazia del sistema repubblicano; giustizia sociale; pace e progresso come ultima meta.
Ma vissuto quasi sempre nell’azione e fra uomini d’azione, due precetti s’imposero su tutto; e questi furono esclusivamente suoi: superiorità dell’azione sul pensiero (quindi disprezzo nei confronti dei dottrinari); subordinazione dei principi allo stato di necessità. Ecco perchè egli, repubblicano, si schierò sotto le bandiere della monarchia; democratico, propugnò la dittatura; pacifista, praticò la guerra. Questa non fu da parte sua una condotta contraddittoria, ma anzi, logica e coerente. La più coerente del Risorgimento italiano.

Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi a Varese
(illustrazione di Edoardo Matania)
Convinto che fosse necessario attendere l’iniziativa piemontese, Garibaldi non prese parte alcuna alle imprese mazziniane di quel tempo; anzi, quando gli venne all’orecchio che si faceva il suo nome a proposito di esse, protestò pubblicamente.
Nel 1855, approfittando di una piccola eredità, comprò l’isola di Caprera, nello stretto di Bonifacio, e ne fece la sua residenza abituale.
Cavour, intanto, stava ordendo la sua trama per provocare l’Austria alla guerra ed ottenere così l’intervento di Napoleone III.

Egli sapeva che i governanti austriaci sobbalzavano al solo nome di Garibaldi e, perciò, nell’agosto e nel novembre 1858 lo chiamò a Torino e gli annunciò, in modo che se ne spargesse la notizia, che lo avrebbe incaricato di formare un corpo di volontari, da impiegare in caso di guerra. Anzi, nella mente del Cavour il condottiero nizzarda avrebbe dovuto, capitanando un’insurrezione a Massa e a Carrara, accendere il primo fuoco dell’incendio.

Alla fine dell’anno cominciò l’organizzazione dei volontari, resa difficile dalle angherie dei funzionari civili e militari del governo. Il Cavour se la prese persino quando a Genova, nel dicembre 1858, fu creato l’inno di Garibaldi.
Il ministro piemontese desiderava servirsi del nome molto popolare del difensore di Roma, ma non voleva, in modo assoluto, che avesse una parte di protagonista. Tutta la gloria e tutti i meriti erano riservati alla monarchia, al suo ministro e ai suoi generali. Si facesse, perciò, qualche compagnia di cacciatori, ma poche e con persone le cui opinioni politiche non fossero tali da creare imbarazzi al governo.
Tuttavia, nonostante la malavoglia del ministro e dei suoi dipendenti, i volontari accorrevano in gran numero. I più validi erano assegnati alle truppe regolari; i meno validi al corpo garibaldino che prese il nome di Cacciatori delle Alpi. Esso raggiunse il numero di 3500 uomini, divisi in 3 reggimenti e, contrariamente a quanto sperava il Cavour, vi militarono i combattenti migliori del patriottismo italiano. Ne assunse il comando Garibaldi col grado di maggiore generale.
A capo dei tre reggimenti erano i colonnelli Medici, Cosenz e Arduino.
Alla brigata, che aveva avuto il battesimo del fuoco l’8 maggio, a Casale, fu affidato l’incarico di agire sul fianco desto del nemico, nella zona del Lago Maggiore. Garibaldi non pose tempo in mezzo e, precedendo I’esercito franco-sardo, si portò da Casale, per Biella e Borgomanero sulle rive del Lago Maggiore, il quale, col Ticino, formava il confine tra il Regno sardo e il Lombardo-Veneto austriaco.

Per rendere più facile la marcia ai volontari, egli aveva fatto cucire una sacca sul loro cappotto, per i viveri e le munizioni, e aveva fatto abbandonare i pesanti zaini. Arrivato al Lago, fece credere agli Austriaci che lo avrebbe passato ad Arona. Invece, nella notte, scese fino a Castelletto Ticino e quivi varcò il fiume, sorprendendo la guarnigione austriaca, che fece prigioniera. Occupò Sesto Calende e prosegui senza sosta per Varese, dove entrò nella notte del 23.

Egli veniva così a trovarsi quasi alle spalle dello schieramento austriaco e sebbene le sue forze, al confronto, fossero esigue, costituiva tuttavia un pericolo. Il generale Giulay, comandante in capo dell’esercito asburgico, spaventato anche da indizi di subbuglio in Milano,
avviò subito verso Varese una colonna di 4000 uomini, truppe scelte al comando del generale Urban. Garibaldi, che aveva fatto costruire a Varese due linee di difesa, ne attese a piè fermo l’arrivo.
All’alba del 26 gli Austriaci giunsero davanti alla cittadina e, dopo aver bombardato le posizioni garibaldine, andarono all’assalto. Erano a 50 metri, quando i Cacciatori delle Alpi uscirono dai ripari e si lanciarono sugli esterefatti avversari, che si aspettavano una difesa, non un contrattacco. Gli Austriaci retrocedettero in disordine fino a Malnate. Quivi, nuovamente assaliti dagli scatenati garibaldini, furono messi in rotta e non si fermarono se non quando si trovarono a Como.

27 maggio 1859 – La battaglia di S. Fermo (dipinto di Angelo Trezzini)
Urban telegrafò al Giulay di aver avuto a che fare con 7000 volontari ed ebbe un rinforzo che portò il suo contingente a 6500 uomini, con artiglieria e cavalleria. A difesa di Como egli aveva occupato le due posizioni di Camerlata e di San Fermo. I garibaldini non si fecero attendere. Già il 27 maggio Cosenz avanzò verso Camerlata col suo reggimento e fece finta di prepararsi all’attacco; invece, senza farsene accorgere, voltò a sinistra e raggiunse la Brigata, pronta all’azione davanti a San Fermo. Per un equivoco la compagnia De Cristoforis si mosse innanzi tempo e fu accolta da una grandine di proiettili. Caddero il suo capitano, ufficiali e soldati, ma, spinto dall’esempio, il reggimento Medici, seguito dal resto della Brigata, piombò con tale impeto sull’avversario, da scompaginarlo e volgerlo a fuga precipitosa.
Anche Como fu liberata e l’Urban si ritirò a Monza.
Con queste vittoriose azioni Garibaldi aveva portato a termine la sua missione; vi era tuttavia per i Cacciatoti il pericolo di essere tagliati fuori dal grosso delle forze alleate, ancora schierate sulla Sesia. Garibaldi perciò, tentò di impadronirsi di Laveno, sul Lago Maggiore, con un colpo di mano. Ma l’impresa fallì. Egli allora tornò a Como.
Il 4 giugno, due giorni dopo il suo ritorno a Como, avvenne la grande battaglia di Magenta, fra gli eserciti franco-sardo ed austriaco. Quest’ultimo, sconfitto, iniziò una ritirata generale, fino all’Adige, per mettersi sotto la protezione delle fortezze del Quadrilatero.
Lentamente gli alleati lo seguirono e i due sovrani entrarono a Milano l’8 giugno.
Nel medesimo giorno Garibaldi, che aveva percorso il Lago di Como su 4 piroscafi ed era sbarcato a Lecco, proseguendo con rapidità la marcia entrò a Bergamo. Informato dai patrioti che si attendeva un treno pieno di Austriaci, occupò la stazione ferroviaria, per farli prigionieri al loro arrivo. Gli Austriaci, avvertiti, scesero prima ed allora una compagnia garibaldina li assalì di sorpresa e, nonostante la grande disparità di numero, li volse in fuga.
Proseguendo l’avanzata, marciando senza tregua, e sempre sopravanzando i Franco-Sardi, i Cacciatori delle Alpi liberarono Brescia e furono gli unici a non perdere contatto col nemico e a raggiungere le sue retroguardie. La Brigata, infatti, ebbe l’ordine di raggiungere il fiume Chiese e di ripararvi un ponte. Giunto nella località Treponti, sulla strada da Brescia a Verona, Garibaldi vedendo truppe nemiche alla sua destra, sulle alture di Castenedolo, diede ordine al reggimento Cosenz di fermarsi per proteggergli le spalle. Attaccato da pattuglie austriache, Cosenz contrattaccò e ributtò gli avversari fino a Castenedolo. Quivi era schierata un’intera divisione austriaca, che accolse i garibaldini con nutrite scariche di fucileria, e, a sua volta, venne avanti. Il reggimento Cosenz sarebbe stato distrutto se non fosse accorso Garibaldi col resto della Brigata e non fossero apparse le avanguardie di una divisione regolare dell’esercito sardo. Allora gli Austriaci si ritirarono. I Cacciatori delle Alpi, poi, furono inviati a guardia delle vallate alpine e uscirono dal teatro principale della guerra.
La guerra del 1859 terminò con l’armistizio di Villafranca. Forse unico ma i protagonisti del Risorgimento, Garibaldi considerò questo armistizio una fortuna per la causa nazionale.
Quell’uomo, che i ceti dirigenti italiani, ieri come oggi, volevano far apparire come privo di criterio politico, dimostrava, invece, di rendersi chiaro conto della situazione del nostro paese in quel momento, con una consapevolezza della realtà superiore a quella dei più celebrati statisti del tempo, non escluso il Cavour.
Mentre il ministro piemontese era ancorato all’idea dell’unificazione della Valle Padana, Garibaldi pensava alla liberazione di tutto il territorio italiano. L’espulsione degli Austriaci dal Veneto ad opera di Napoleone III avrebbe dato la libertà a una regione italiana, ma avrebbe fatto dell’imperatore francese il vero padrone della penisola. Quindi veto assoluto all’abolizione del potere temporale dei papi e, di conseguenza, all’unità d’Italia.
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Il liberatore dell’Italia meridionale

I fatti gli diedero subito ragione. L’Emilia e la Toscana, con una incruenta rivoluzione si liberarono dei loro padroni e, per opporsi a un ritorno di costoro, favorito dall’Austria, diedero vita alla Lega dell’Italia centrale, con lo scopo principale di unificare le forze militari.
Ci voleva un comandante e il Ricasoli, attraverso il patriota livornese Malenchini, offrì questo incarico a Garibaldi. I moderati si spaventarono e sostennero che Garibaldi era un capo di partigiani, non un generale capace di comandare truppe regolari. Essi l’ebbero vinta e il comando militare della Lega fu assegnato a Manfredo Fanti, ex cospiratore con Ciro Menotti, ex mazziniano, ex combattente coi liberali della penisola iberica, ormai, però, completamente compenetrato dalle idee della casta militare piemontese. Garibaldi fu collocato nella posizione subordinata di vice comandante.

Naturalmente fra egli e il Fanti, sostenuto quest’ultimo dai dirigenti politici della Lega, nacque quasi subito un aspro conflitto. Garibaldi avrebbe voluto suscitare dei moti popolari nello Stato pontificio e poi intervenire. Gli altri si opponevano. Il re intervenne e Garibaldi si dimise.

Da quel momento egli alternò la sua permanenza a Caprera con qualche viaggio a Genova e a Torino, sia per partecipare a iniziative politiche, sia per essere presente a qualche seduta della Camera (infatti era stato eletto deputato). Alla Camera protestò con energia contro la cessione di Nizza, la sua città natale, alla Francia. Frattanto i capi del Partito d’azione, cioè di quel partito che comprendeva i seguaci delle idee di Mazzini ed anche quelli delle idee di Garibaldi, preparavano un’impresa per liberare l’Italia meridionale, partendo dalla Sicilia.

Nell’isola, infatti, vi erano un grande fermento e una forte volontà di liberarsi dal dominio borbonico. Recentemente erano avvenuti dei sanguinosi tentativi insurrezionali, come quello di Francesco Bentivegna, nel 1856, e quello di Salvatore Spinuzza, nel 1857. Ambedue falliti.

Per mantenere vivo il fuoco della rivolta, Mazzini mandò in Sicilia il giovane avvocato Francesco Crispi, che si mise in contatto coi patrioti di Messina, Catania e Palermo. L’opera del Crispi portò a un modesto tentativo di Giuseppe Campo, nell’ottobre 1859, non riuscito. La repressione poliziesca infuriò, ma, ciò nonostante, una nuova cospirazione fu ordita da alcuni popolani di Palermo, alla cui testa era Francesco Riso. La cospirazione ebbe come centro il convento della Gancia. La polizia borbonica, avvertita da un informatore, alla mattina del 4 aprile 1860, assalì il convento e, dopo un aspro combattimento, mise le mani su 13 insorti, che furono fucilati.
Intanto il Crispi, tornato sul continente si era rivolto a Luigi Carlo Farini, in quel tempo capo del governo in Emilia, e al Rattazzi, ministro degli interni in Piemonte. Domandava uomini e armi per la Sicilia. Ne ebbe un rifiuto, perchè ambedue erano dominati dalla volontà del Cavour, anche se a quell’epoca (dicembre 1859) lo statista piemontese, dimissionario dopo Villafranca, non era ancora tornato al governo. Ma essi sapevano che il ritorno era imminente ed infatti avvenne poco dopo, il 16 gennaio 1860.
Si è scritto e si continua a scrivere che la liberazione dell’Italia meridionale avvenne solo in apparenza per opera di Garibaldi e del Partito d’azione, ma in realtà per opera del Cavour, che sostenne ed alimentò la spedizione garibaldina, manovrandone a suo piacimento il capo. Questo è stato affermato non solamente dagli esaltatori della monarchia sabauda e dei ceti conservatori, ma anche da alcuni moderni scrittori sedicenti di sinistra, la cui sola scusante è quella di una scarsa conoscenza della storia e di essersi basati su versioni ufficiali, ma false.
La verità è che il Cavour avversò con tutte le sue forze l’impresa garibaldina, finchè il suo inaspettato e quasi incredibile successo non Io costrinse a mutar politica, per inserirvisi e fare in modo che la monarchia ne godesse i risultati.
Il Cavour non era contrario, in linea teorica, all’unità italiana, ma la credette, fino all’ultimo, impossibile, e la definì, quando gliene parlò il Manin, una corbelleria. Per lui contava solamente la volontà delle grandi potenze ed in particolare quella della Francia. E, da esperto uomo di Stato, si rendeva conto come Napoleone III non desiderasse il sorgere di un’Italia unita ai suoi confini. Ministro del re e capo dei moderati, il Cavour anteponeva gli interessi della monarchia e quelli della sua classe a qualsiasi altro interesse. L’Italia doveva essere monarchica o non essere. Perciò era decisamente avverso a qualsiasi iniziativa alla quale partecipassero elementi apertamente o tendenzialmente repubblicani, non obbedienti ai suoi cenni.
Il programma del Cavour era questo: cacciare l’Austria dalla pianura padana e fare di questa un regno per i Savoia; portare al potere negli altri Stati della penisola i liberali moderati e convincerli ad allearsi coi Savoia, riconoscendone la direzione. Egli non pensò mai che il regno delle Due Sicilie dovesse finire. Avversò Ferdinando II, perchè nemico acerrimo dei liberali, ma, non appena costui morì, mandò a Napoli una missione, capitanata dal conte di Salmour, per convincere il governo borbonico a partecipare all’imminente guerra contro l’Austria. Se i Borboni avessero accettato, il loro dominio sarebbe divenuto per lungo tempo intangibile. Fortunatamente rifiutarono.
L’instancabile Cavour non desistette; nel gennaio 1860, appena tornato al potere, inviò a Napoli il marchese di Villamarina, affinchè chiedesse al nuovo re Francesco II un trattato d’alleanza.

Il 15 aprile, infine, fece scrivere dal re Vittorio Emanuele II una lettera con una terza proposta di accordi.

Frattanto il Crispi, deluso dal Farini e dal Rattazzi, si era recato a Genova, centro del Partito d’azione e dell’emigrazione siciliana. Fu a Genova che si decise una spedizione in soccorso dei Siciliani insorti. Garibaldi, invitato a capitanarla, accettò ed autorizzò gli organizzatori a prelevare le armi necessarie da quelle esistenti a Milano e comprate col Fondo per il milione di fucili. Questo fondo era il risultato di una sottoscrizione popolare in risposta ad un appello di Garibaldi. Le armi non appartenevano, perciò, al governo e tuttavia il governatore di Milano, Massimo d’Azeglio, in evidente accordo col Cavour, impedì che fossero prese.
Non per questo i promotori dell’impresa si arrestarono. Garibaldi venne a Quarto, nei pressi di Genova. Quivi vi fu una riunione, alla quale partecipò Giuseppe La Farina, segretario della Società nazionale. Costui era cavouriano, ma anche siciliano e non poteva perdere la faccia davanti ai suoi compaesani. Perciò promise di consegnare un migliaio di vecchi fucili, che la Società possedeva.
I vapori per il trasporto dei volontari furono ottenuti da G. B. Fauché, amministratore della Società di navigazione Rubattino, purché si facesse finta di prenderli con la forza. In Sicilia furono inviati come avanguardia, per suscitare moti in attesa dell’arrivo della spedizione, i patrioti Rosalino Pilo e Giovanni Corrao, nativi dell’isola.
Intanto i volontari affluivano a Genova molto numerosi. Il Cavour era combattuto fra la speranza che la spedizione sarebbe stata affondata o distrutta al suo sbarco (egli disse al Sirtori, uno dei capi dei volontari: “Io credo che li piglieranno”) e il desiderio di imporre la sua volontà. Ma non Io potè fare. Egli aveva paura, se avesse fatto intervenire la polizia, di un moto repubblicano a Genova (come nel 1849).
Il comandante della guarnigione di Genova gli aveva riferito che la truppa era favorevole a Garibaldi. Alla Camera si notavano segni di fronda e il re, che non voleva diventare impopolare, si rifiutò di ordinare l’arresto di Garibaldi.
Convinto di non poter far nulla a Genova, il Cavour si limitò a ordinare alla flotta di fermare i vapori garibaldini se avessero fatto scalo in Sardegna. Non era possibile, infatti, in quell’epoca attraversare il Tirreno senza rifornirsi di carbone.

L’imbardo dei Mille a Quarto, il 6 maggio 1860 (illustrazione di Edoardo Matania)
Dalla Sicilia giunsero notizie contraddittorie e Garibaldi fu per rinunciare alla partenza. Ma alla fine un telegramma, forse manipolato dal Crispi, diede informazioni più incoraggianti e probabilmente qualche stimolo ufficioso giunse da parte inglese.
Ogni indugio fu rotto. Nella notte sul 6 maggio furono presi i piroscafi Piemonte Il Lombardo, di 180 e 238 tonnellate, portati davanti a Quarto, dove i volontari, in numero di 1089 si imbarcarono.
Il loro armamento era misero, ad eccezione di un gruppo, i Carabinieri genovesi, che avevano carabine proprie. Alcuni ufficiali erano muniti di pistole Colt a ripetizione; una novità per l’Europa. Mancavano le munizioni che due barche avrebbero dovuto portare a bordo davanti a Sori. Ma le barche non si fecero vedere, forse seguendo le istruzioni della polizia.

Deludendo le speranze del Cavour, Garibaldi non si avviò verso la Sardegna, ma costeggiò la Liguria e la Toscana, facendo scalo nella rada di Talamone. Da questa località partì una piccola colonna per fare una diversione contro lo Stato pontificio. Con uno stratagemma fu possibile farsi dare le munizioni mancanti e tre cannoni dal comandante del vicino forte di Orbetello. Poi, rifornitesi di acqua, viveri e carbone, le due navi ripresero il mare, giungendo senza inciampi l’11 maggio davanti al porto di Marsala. All’ultimo momento furono viste e inseguite da una squadra borbonica, la quale, però, intralciata dalla presenza di bastimenti inglesi nel porto, aprì il fuoco troppo tardi, quando i garibaldini erano già a terra.

Lo sbarco dei Mille a Marsala secondo una stampa popolare dell’epoca
Senza perdere tempo, i volontari, che avevano riassunto il nome di Cacciatori delle Alpi, ma che divennero più noti con l’appellativo dei Mille, si diressero verso Palermo e furono raggiunti in marcia da bande di insorti siciliani, i quali, riuniti, furono chiamati Cacciatori dell’Etna. Giunto a Salemi Garibaldi si proclamò dittatore, in nome del re d’Italia. Il 15, a Calatafimi, il piccolo esercito incontrò una forte colonna borbonica, comandata dal generale Landi. Garibaldi, convinto della necessità di ottenere un successo per incoraggiare i Siciliani, non sfuggì al combattimento, nonostante l’inferiorità del numero.
I Mille assalirono la collina sulla quale era schierata una parte delle forze borboniche e, dopo aspra lotta e una manovra di accerchiamento, misero l’avversario in rotta.
Il generale Landi, che non aveva voluto impegnare la riserva per paura delle bande in armi sui monti, iniziò la ritirata verso Palermo.

Dopo la vittoria di Calatafimi altre bande si aggiunsero alla colonna garibaldina, che avanzò rapidamente e giunse ai margini della capitale siciliana. Quivi il comando borbonico aveva concentrato il grosso delle sue forze, circa 15.000 uomini. Garibaldi iniziò una serie di manovre intorno a Palermo, cercando il punto debole della sua difesa. Forti colonne uscirono ad assalirlo ed una di esse si mise ad inseguire un piccolo gruppo garibaldino, avviato verso l’interno dell’isola, nella convinzione che si trattasse dell’intero corpo volontario. Garibaldi, invece, con una improvvisa inversione di marcia, inavvertita dal nemico, si avvicinò a Palermo dal lato orientale e, unito a numerose bande che aveva fatto accorrere, dopo una marcia notturna, al mattino del 27 maggio piombò sulla città.

15 maggio 1860: la battaglia di Calatafimi (illustrazione di Edoardo Matania)
Aspra fu la lotta per superare le difese esterne e più aspra ancora all’interno. I cittadini, dapprima sorpresi per l’improvviso arrivo dei volontari che credevano sconfitti e lontani, insorsero con furore e la città si coprì di barricate. Si combattè con estrema energia per due giorni. I soldati borbonici, asserragliati nel Palazzo reale, erano tagliati fuori dalla flotta, che bombardava la città. Cominciarono a mancare di acqua e di viveri; non potevano curare i feriti e seppellire i morti. Avevano paura del popolo. Alla fine il loro comando chiese una tregua e, dopo una discussione con Garibaldi a bordo della nave ammiraglia inglese, l’ottennero.
La tregua si protrasse fino al 6 giugno, quando i borbonici, ormai scoraggiati, si decisero a lasciare Palermo.
La presa di Palermo suscitò una grande impressione in tutta Europa; costernazione negli ambienti reazionari, entusiasmo nei democratici.
Le velleità d’intervento dei governi reazionari furono smorzate dalla forte pressione dell’opinione pubblica e dall’idea, non confermata da fatti precisi, ma diffusa, che la spedizione di Garibaldi godesse il favore del governo inglese il quale vedeva in essa un colpo all’egemonia francese sulla penisola.
Anche il Cavour era di questo parere e ciò lo indusse a cambiar politica e a cercare di far propria e di prevenire |’iniziativa di Garibaldi. Frattanto in tutta l’Italia libera e in molte città del Mondo, la borghesia liberale si mobilitò a favore di Garibaldi. Sorsero ovunque comitati di soccorso a Garibaldi, che raccolsero volontari e denari, diedero mezzi per acquistare armi e noleggiare bastimenti da trasporto.
Cominciarono a giungere in Sicilia spedizioni di rinforzo, fra le quali quelle del Medici, con 2500 uomini e del Cosenz, con 2000. I volontari erano bene equipaggiati ed armati, perchè il Cavour aveva lasciato prendere le armi sequestrate a Milano e, a Genova, Agostino Bertani, che era a capo dei comitati di soccorso, faceva acquisti dalle fabbriche migliori.
Garibaldi ebbe così a sua disposizione una forza ormai rispettabile, che divise in 3 colonne. Le avviò verso la costa orientale dell’isola, sia per liberarne completamente il territorio, sia per avvicinarle al continente.
La colonna più forte, comandata dal Medici, percorse la strada litoranea da Palermo a Messina. Raggiungeva con le squadre Siciliane 4000 uomini e si trovò sbarrata la strada dal forte di Milazzo, occupato da 4500 borbonici, al comando del colonnello Bosco.
Il 20 luglio i garibaldini assalirono le posizioni nemiche, ma furono accolti da una energica resistenza e da violenti contrattacchi. Le sorti della giornata rimasero in dubbio per parecchio tempo, finchè Garibaldi, montato su una nave da guerra che era passata dal servizio regio a quello garibaldino, fece bombardare la linea borbonica, prendendola alle spalle. Ciò provocò il crollo dei borbonici che corsero a rifugiarsi nel forte, poi capitolarono, ottenendo di reimbarcarsi per Napoli.

Entrata di Garibaldi in Napoli (illustrazione di Edoardo Matania)
Con la vittoria di Milazzo, Garibaldi ebbe in possesso tutta la Sicilia, ad eccezione di alcuni forti di Messina, nei quali rimase, indisturbata perchè innocua, una piccola guarnigione.
Cavour, nel frattempo, aveva inviato in Sicilia il La Farina, col compito di mobilitare le forze conservatici dell’isola in favore di una immediata annessione al Regno Sardo.
Ciò avrebbe significato la fine dell’impresa di Garibaldi.
Il La Farina trovò ascolto nel ceto ricco e nobile, che era stato spaventato da alcuni provvedimenti a favore del popolo emanati dalla Dittatura, come l’abolizione della tassa sul macinato e la divisione fra i contadini poveri delle terre demaniali usurpate dai latifondisti. Quest’ultimo decreto aveva provocato violente sommosse nelle campagne, che fu necessario reprimere per non mettere in allarme la borghesia europea e non dare un pretesto ai governi conservatori d’intervenire.

Alla fine Garibaldi fece espellere il La Farina e si dedicò al proseguimento del suo programma: sbarco sul continente e marcia verso Napoli e verso Roma.

A questo scopo il Bertani aveva preparato una grande spedizione, la quale avrebbe dovuto agire contro il territorio pontificio. Con un inganno il Cavour riuscì a dirottarla verso la Sicilia. Nello stesso tempo il ministro piemontese inviò emissari a Napoli per suscitarvi un moto a favore dell’annessione al Regno Sardo e prevenire così Garibaldi. A questi fece poi scrivere una lettera dal re con l’ordine di astenersi da ogni attacco al Regno di Napoli.
Garibaldi non obbedì. L’esercito volontario contava ormai più di 30.000 uomini ed aveva assunto il nome di Esercito meridionale.
Con un’abile manovra il dittatore riuscì a farli sbarcare, il 19 agosto, sulle coste della Calabria. Conquistata Reggio, si avviò verso Napoli, inseguendo le truppe napoletane. Ovunque le bande calabresi insorgevano, costringendo alla resa interi reparti borbonici.
La marcia dei volontari si svolse senza opposizione e il 7 settembre Garibaldi, con poco seguito, entrò a Napoli, accolto dalla folla in delirio.

Garibaldi e Vittorio Emanuele II s’incontrarono a Vairano (Incontro di Teano)
Anche questa volta i piani del Cavour erano falliti. Allora, divorato dall’impazienza, egli domandò a Napoleone III il permesso di mandare un corpo di spedizione a Napoli, attraverso il territorio pontificio. Il permesso fu dato. L’esercito piemontese si mise in moto, sconfisse a Castelfidardo le truppe papaline e arrivò in ottobre ai confini del Regno di Napoli. Ma già i borbonici avevano giocato la loro ultima carta. Erano rimasti fedeli alla monarchia borbonica 50.000 uomini, appoggiati alle fortezze di Capua e di Gaeta.
Alla mattina del 1° ottobre essi assalirono i 24.000 volontari, che, appena giunti dalla Calabria,
si erano schierati a fronteggiarli, formando un vasto arco di cerchio. I borbonici compirono una complessa manovra di avvolgimento, ben concepita ed attuata. Ma si trovarono davanti ad una energica resistenza dei volontari, che non riuscirono ad infrangere e, dal canto suo, Garibaldi, agendo per linee interne, lanciò al contrattacco la riserva nel punto più minacciato e decisivo della battaglia. Alla sera i borbonici, stremati e sconfitti, ripiegarono sulle fortezze. Ormai qualsiasi pericolo da parte loro era svanito.
Il 21 ottobre ebbe luogo il plebiscito in Sicilia e a Napoli, con la quasi totalità per l’annessione. Il 26 ottobre Garibaldi e Vittorio Emanuele II s’incontrarono nel paesetto di Vairano (passato alla storia come “incontro di Teano”, secondo alcune fonti si è invece svolto a Vairano Scalo, presso la località di Taverna della Catena).
Poco dopo, trattato con sufficienza e villania dalle sopraggiunte autorità monarchiche, il liberatore dell’Italia meridionale se ne tornò a Caprera.
La sua impresa permise che l’anno dopo fosse proclamato il Regno d’Italia.

A Teano Garibaldi, invitato a pranzo da Vittorio Emanuele, rispose di aver già pranzato; fece merenda, invece, più tardi, con pane e formaggio, in compagnia di alcuni suoi fidi.
(disegno di Ampelio Tettamanti)
Garibaldi tornò a Caprera con un grande prestigio personale; ormai egli era diventato, e rimase fino alla morte, l’eroe nazionale italiano.
Ma in realtà egli, abbandonando il potere, aveva perduto la sua qualità di protagonista e gran parte della sua possibilità di influire sulla politica italiana. Il governo monarchico, infatti, che subentrò alla dittatura garibaldina, cercò in ogni modo di cancellare ogni traccia di ciò che Garibaldi e i suoi collaboratori avevano fatto per soddisfare le aspirazioni ad una vita migliore del popolo meridionale.
Il Farini, nominato luogotenente del re a Napoli, scrisse al Cavour che andava “a far pronta pulizia del garibaldismo o meglio del ribaldismo che gli fa corona e coda”.
I volontari furono maltrattati e umiliati. Garibaldi protestò in Parlamento ed ebbe un acerbo contrasto col Cavour. Insultante e sommamente ingiusto, poi, il contegno dei nuovi governanti nei confronti del popolo meridionale, considerato pieno d’ogni difetto e “vivente in uno stato d’indecenza quasi inferiore a quello delle antiche tribù d’Africa“.
Questi severi censori non dicevano che la colpa non era del popolo meridionale, ma di quel governo borbonico col quale il Cavour voleva fare alleanza. Non dicevano che lo stato di arretratezza non era esclusivo dei meridionali, ma che in esso vivevano quasi tutti i ceti contadini del nostro paese. Ovunque vi era analfabetismo, superstizione, predominio intellettuale del clero reazionario.
Ecco perchè Garibaldi, sempre aderente alla realtà assai più di tanti suoi critici di allora e di oggi, considerò una utopia la creazione, su quella base sociale, di uno Stato democratico popolare e cedette il passo alla monarchia sabauda.
Non fu nemmeno possibile trasformare in un organizzato partito politico le correnti democratiche borghesi che avevano alimentato la liberazione dell’Italia meridionale.
I mazziniani si isolarono nella loro intransigenza; molti ufficiali passarono nei ranghi dell’esercito regio; altri esponenti del Partito d’Azione ottennero incarichi e fecero carriera nelle file dell’amministrazione statale. Pochi furono coloro che rimasero stretti intorno al capo dei Mille.
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Il vinto di Aspromonte e di Mentana

Il vincitore di Bezzecca

Ciò nonostante, Garibaldi continuò ad essere il centro di ogni azione tendente a liberare le due province che ancora non facevano parte del territorio nazionale: il Veneto, in possesso dell’Austria e il Lazio, con Roma, ultimo resto dello Stato pontificio, dove Napoleone III manteneva una guarnigione.
Nel 1862 un gruppo di garibaldini, che si era radunato a Sarnico per tentare un colpo di mano nel Veneto, fu attaccato e disperso dalla polizia italiana. Nel medesimo anno Garibaldi partì da Caprera, andò in Sicilia, accolto con entusiasmo dal popolo, passò in Calabria ed iniziò una marcia che avrebbe dovuto condurlo a Roma. Ma raggiunto sull’Aspromonte, il 29 agosto, da una colonna dell’esercito regolare italiano, proibì ai suoi di rispondere al fuoco dei regi e, ferito, fu fatto prigioniero.
I reazionari chiesero un processo e la condanna, ma il governo non riuscì a trovare chi avesse il coraggio di fare il giudice, davanti alla sollevazione dell’opinione pubblica italiana ed europea.

Aspromonte: il colonnello Pallavicini si presenta a Garibaldi con l’ordine di dichiararlo prigioniero
L’impresa di Aspromonte fu senza dubbio un errore da parte di Garibaldi, che non poteva pensare di compiere il lungo percorso dall’estremità della Calabria al Lazio sempre evitando i reparti dell’esercito regolare italiano, contro il quale non voleva combattere. Forse sperava in una sollevazione popolare, ma era ben difficile credere che i pastori calabresi partecipassero spiritualmente ad una azione contro il papa. Tuttavia Aspromonte non diminuì, ma anzi aumentò il suo prestigio. Oltre alla figura dell’eroe egli acquistò anche quella del martire e come avesse colpito la fantasia delle folle lo si vide quando, nel 1864, visitò l’Inghilterra.
Nel 1866 l’Italia, alleata della Prussia, entrò in guerra contro l’Austria. Il governo fu quasi costretto dalla pressione popolare a chiamare Garibaldi per affidargli il comando del Corpo volontari italiani incaricato di operare nel Trentino. Il Comando dell’esercito regolare condusse la campagna con tale incapacità da incappare nella sconfitta di Custoza. Peggio ancora si comportò il comando della flotta, che si fece battere a Lissa.
Garibaldi, invece, il 21 luglio 1866, vinse la battaglia di Bezzecca, di scarsa importanza dal punto di vista militare, ma che, esaltata dal confronto, portò la sua fama alle stelle.

Garibaldi dopo Mentana (dipinto di Aranyi)
La guerra del 1866 terminò, tuttavia, con la liberazione del Veneto, che l’Austria, sconfitta dalla Prussia, cedette a Napoleone III e Napoleone III passò all’Italia. Rimaneva Roma.
All’inizio del 1867, Garibaldi iniziò una vasta campagna propagandistica per la liberazione dell’Urbe. Spinto dall’irritato Napoleone III, il governo italiano lo fece arrestare e lo confinò a Caprera. Ma, nell’ottobre, l’antico guerrigliero riuscì a fuggire e, tornato sul continente, si mise alla testa di un piccolo esercito di volontari, radunato ai confini dello Stato pontificio. Una piccola spedizione, capitanata dai fratelli Enrico e Giovanni Cairoli, fu sorpresa e distrutta dalle truppe pontificie ed egualmente fallì un tentativo di sommossa in Roma.
Garibaldi, dopo aver espugnato Monterotondo, mosse contro Roma, in attesa di una sollevazione popolare che non avvenne.
Allora retrocesse, ma a Mentana, il 3 novembre 1867, i volontari si incontrarono con l’esercito pontificio, rafforzato da un corpo di spedizione francese. Nelle prime fasi della battaglia i garibaldini ebbero la meglio e i pontifici si trovarono vicini alla disfatta, ma l’intervento dei francesi, muniti di fucili perfezionati, generò il panico e la giornata terminò con la sconfitta dei garibaldini. Garibaldi, rientrato nel territorio italiano fu nuovamente arrestato e tenuto prigioniero, per qualche tempo, nella fortezza del Varignano.
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Il comandante dell’Esercito dei Vosgi

Gli ultimi anni

Appena liberato Garibaldi si ritirò nella pace di Caprera. Era ormai vecchio, stanco e malato, ma quando gli eserciti di Napoleone III, nel 1870, furono disfatti dai Tedeschi e la Francia, proclamata la repubblica, continuò a lottare contro gli invasori in condizioni di grande inferiorità, Garibaldi non esitò a offrire al governo repubblicano la sua opera. Fu accettato ed ebbe il comando di alcuni gruppi di partigiani francesi e di soldati non di leva, i quali, insieme ai volontari giunti dall’Italia, formarono poi l’Esercito dei Vosgi.
All’inizio Garibaldi potè contare su 6000 uomini, coi quali dovette difendere l’officina del Creuzot, la cui produzione alimentava in misura preponderante la difesa francese.
La campagna cominciò in maniera favorevole. Un distaccamento garibaldino sorprese e mise in fuga un grosso reparto di fanteria tedesca a Chatillon sur Seine.
Pochi giorni dopo, Garibaldi, con tutte le sue forze, avanzò su Digione. I Prussiani gli andarono incontro; dopo un’aspra battaglia, battuti, ripiegarono sulla città.
Non riuscì, invece, a Garibaldi, un colpo di mano notturno per sorprendere ed occupare Digione. Respinto. il condottiero italiano si ritirò alla sua base di Autun, dove i Prussiani Io attaccarono in forze.

Questa volta toccò a loro tornare indietro.

1870-1871: Garibaldi e i suoi volontari combattono contro i Prussiani
(stampa popolare francese)
Nel gennaio 1871, i Prussiani minacciati da un nuovo esercito francese, comandato dal generale Bourbaki, abbandonarono Digione. Garibaldi l’occupò con il suo esercito, che ormai raggiungeva i 20.000 uomini. Il comando tedesco concentrò su quel fronte di guerra le sue truppe più agguerrite, disfece Bourbaki e attaccò con estrema energia Digione.
Non solamente i Tedeschi furono sempre ricacciati, ma, in un violento contrattacco comandato da Stefano Canzio, fu loro tolta l’unica bandiera che perdessero in quella guerra.
Ormai, però, la Francia era stremata e il governo francese, il 27 gennaio, domandò l’armistizio. Fu escluso il territorio tenuto dai garibaldini. L’esercito dei Vosgi si trovò in gran pericolo di essere annientato, ma Garibaldi, con pronta decisione e abili manovre riuscì a tarlo in salvo.
Il popolo francese fu chiamato ad eleggere un’assemblea per trattare la pace. Garibaldi, eletto da sei collegi, vi si recò, ma la maggioranza reazionaria gli impedì di parlare.

Garibaldi a Caprera verso i suoi ultimi giorni
Tornò a Caprera e, per quanto le sue condizioni fisiche glielo permisero, prese parte alla politica italiana. Propugnò la bonifica dell’Agro romano e la trasformazione del Tevere in canale navigabile. Difese la Comune di Parigi, insultata e calunniata non solo dai conservatori, ma anche dai mazziniani e dai democratici borghesi. Dimostrò simpatia verso il socialismo e il movimento operaio, sebbene non conoscesse le basi scientifiche del socialismo. Molti suoi compagni d’arme furono tra i fondatori del socialismo in Italia.
Dopo la morte di Anita, si era sposato, nel 1859, con una fanciulla lombarda, che abbandonò subito dopo la cerimonia nuziale, avendo saputo che amava un altro uomo.
Nel 1880 potè far annullare questo matrimonio e regolarizzare la sua unione con una terza donna, dalla quale aveva avuto due figli.

Morì il 2 giugno 1882.

Le ultime volontà di Garibaldi

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