IL ROMANZO ITALIANO DEL NOVECENTO

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In Italia, nel campo del romanzo, il Novecento si apre con i grandi successi di Gabriele D’Annunzio, sulla scia francese del Decadentismo, da Il piacere (che però risale al 1889 e resta l’esempio più illuminante del genere), a L’innocente (1892), fino a Forse che sì forse che no (1910); coi discussi romanzi di Antonio Fogazzaro, da Malombra (1881), a Piccolo mondo antico (1895), Piccolo mondo moderno (1900), fino a Il santo e Leila (1905, 1910), occasioni di violente discussioni su complesse problematiche religiose e pseudofilosofiche; col successo di Il fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello; col silenzio intorno alle prime prove di Italo Svevo (Una vita…, Senilità,1892, 1898), cui toccò una sorte ancora peggiore di quella pur già grave toccata ai capolavori verghiani un decennio prima.
Il resto della produzione narrativa o portava avanti, in qualche caso anche dignitosamente, la lezione manzoniana, oppure si adeguava alle ricerche formali europee nell’ambito delle cosiddette avanguardie, soprattutto intorno al Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti.

Poi la guerra, il dopoguerra e il fascismo: col fascismo, la narrativa si adeguò ai tempi e alle imposizioni del regime con una vastissima produzione di intrattenimento, di consumo, ottimistica, superficiale, sullo sfondo neutro della borghesia benpensante. Una produzione nella quale restarono in gran parte soffocati un gran libro come La coscienza di Zeno (1923) – col quale finalmente Italo Svevo cominciava ad ottenere i primi consensi più all’estero che in Italia-; il capolavoro giovanile di Alberto Moravia, Gli indifferenti (1929); le scene di vita calabrese di Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte (1930); o che tentò le strade del romanzo storico (del 1927 è Il diavolo al Pontelungo di Riccardo Bacchelli, del 1938-40 Il mulino del Po).
Ma nulla avvenne da noi di quanto avveniva in quegli anni negli USA, per esempio, con gli scrittori della generazione bruciata cui già si è fatto cenno (Fitzgerald, Hemingway, Faulkner, Steinbeck, ecc.) o in Francia.

Solo sul finire del ventennio fascista, sia pure tra molte difficoltà di censura, cominciarono a circolare le traduzioni di questi autori stranieri e grande scalpore, nell’arido panorama di quegli anni, suscitò la pubblicazione di una antologia, dal titolo Americana (1942),curata da Elio Vittorini, che l’anno precedente aveva dato alle stampe quello che doveva restare il suo libro migliore, Conversazione in Sicilia (1941).
Testi che il regime osteggiò o tolse addirittura di mezzo, col risultato di renderli più appetibili e di aumentarne l’incidenza. Ma ormai la guerra era in corso e soprattutto veniva precipitando rapidamente il processo di disfacimento del potere, se non del costume, fascista.

Il crollo del regime e la Resistenza costituirono una svolta netta anche per il romanzo, come, naturalmente, per tutta la vita del nostro paese. Limitandomi al mio campo di ricerca, e ai romanzo in particolare, è ormai invalsa l’abitudine di considerare gli anni del dopoguerra, dal 1945 al 1968, distinti in due periodi che, come sempre, debbono essere considerati con molta elasticità e soltanto a scopo didattico, per mettere un qualche ordine nella materia.
Il primo vien detto del “Neorealismo” e occupa gli anni dal 1945 al 1960 (o, per taluni, il 1957 , che è l’anno di pubblicazione de Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda.
Fu senza dubbio caratterizzato da una forte volontà comune di recupero del reale, dopo tanti anni di letteratura mistificatoria o di evasione: il reale che stava sotto gli occhi di tutti, cioè il paese distrutto dalla guerra, la lotta sociale, i grandi problemi; un bisogno di verità, di scavo in profondo delle cause che avevano condotto alla rovina; e poi la grande esperienza appena sofferta della guerra e della lotta partigiana, da raccontare e far conoscere, da fissare sulla pagina perché non fosse dimenticata.
Ma i modi poi con cui questa materia venne trattata da decine e decine di autori furono così diversi, che è impossibile parlare per tutti di Neorealismo. Preferisco perciò raccogliere diversamente i testi più importanti di questo primo periodo del dopoguerra, cominciando da quelli che chiamerò di memoria e testimonianza.

Del 1945 è il romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, straordinaria memoria degli anni di confino fascista passati in Lucania dall’autore; di Elio Vittorini, Uomini e no, una sorta di cronaca lirica della Resistenza a Milano; di Ignazio Silone, Fontamara, che però risaliva al 1930, e che col testo del Levi rinverdiva l’annoso e tragico problema del nostro Mezzogiorno.
Del 1947 sono Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, e Il cielo è rosso di Giuseppe Berto, che s’imponevano come due delle prime testimonianze sulla Resistenza; nonché, di Primo Levi, Se questo è un uomo, tragica memoria sui lager tedeschi.
Dello stesso 1947 è una delle prime opere di successo di Cesare Pavese, Il compagno, mentre, su tutt’altro versante, furoreggiavano i reportages ambigui tra realtà, gusto scandalistico e invenzione di Curzio Malaparte: Kaputt, seguito due anni dopo da La pelle.

Del 1949 è La bella estate di Cesare Pavese; del 1950 un bel romanzo sulla Resistenza di Renata Viganò, L’Agnese va a morire, e ancora di Pavese il capolavoro, La luna e i falò, che confermò clamorosamente la fama dello scrittore delle Langhe proprio alla vigilia del suo suicidio.
Sempre ispirate alla Resistenza sono infine le Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani (1956).

Venivano intanto fatti conoscere dall’editore Einaudi i trentadue Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, raccolti in sei volumi tra il 1948 e il 1951 (scritti una quindicina di anni prima dal grande uomo politico sardo mentre era nelle prigioni fasciste). Il suo impegno verso una cultura popolare, attenta ai problemi della classe operaia e intesa all’analisi della società per incidere su di essa e mutarla, influì grandemente sulla produzione letteraria di quegli anni, che fu rigogliosissima nel campo della narrativa (si potrebbero citare parecchie decine di titoli e di autori).
Limitando il mio discorso alle opere più significative sullo sfondo della realtà italiana del dopoguerra, vanno citati i romanzi di Vasco Pratolini, Il quartiere, del 1944, e Cronache di poveri amanti (1947).
Dello stesso anno, La romana, di Alberto Moravia (ma di lui andrebbe ricordato anche il mirabile romanzo breve Agostino, del 1944, tra le sue opere più valide); del 1949 è il Bell’Antonio di Vitaliano Brancati; del 1950, di Francesco Jovine, Le terre del Sacramento, trai più riusciti tentativi di realismo sociale; del 1953 è Il taglio del bosco, di Carlo Cassola; del 1954 La malora di Beppe Fenoglio; del 1955 uno dei testi più famosi del Pratolini, Metello.
Nello stesso anno s’impose, con clamore e molto scandalo, il romanzo di Pier Paolo PasoliniRagazzi di vita.
Di due anni dopo è La ciociara del Moravia; del 1958, Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori; del 1959 Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi; e, nell’ambito della cosiddetta “letteratura aziendale”, cioè ispirata al lavoro nelle fabbriche, Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri.

Intanto il dibattito sul Realismo si era fatto sempre più intenso; se ne criticavano i limiti, le contraddizioni, la superficialità che non riusciva a penetrare nelle ragioni più profonde del reale; lo stesso uso del dialetto, sempre più frequente in questi testi nello sforzo di adeguamento all’ambiente e ai personaggi, sembrava ridurre ogni romanzo entro angusti confini provinciali e folcloristici. Urgeva, tra l’altro, la lezione dei grandi maestri europei e americani dei primi decenni del Novecento; i lettori chiedevano spazi più aperti, esperienze più complesse; c’era stanchezza dei soliti ambienti delle borgate e della miseria.
Contemporaneamente il paese sembrava essere uscito dalla desolazione del dopoguerra e pervenuto a un miracoloso benessere (il boom economico). Va tenuto conto infine del fatto che se il romanzo era in quegli anni pur sempre la punta più visibile del mondo artistico, il cinema gli portava grossa concorrenza in tutti i sensi, e il loro rapporto ne risultava spesso interdipendente.
La grande stagione del Neorealismo cinematografico italiano, che aveva fatto scuola, cominciava ad essere anch’essa in grave decadenza e chiedeva d’essere rinnovata.

S’è detto che il nuovo romanzo degli anni Sessanta prende per taluni inizio con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Emilio Gadda (diffuso dal 1957), una delle opere capitali di quegli anni, di cui parleremo. Nello stesso tempo, anche se in direzione del tutto diversa di vero e proprio conte philosophique (racconto filosofico, tipico della narrativa francese del Settecento), otteneva vastissimi consensi la trilogia di Italo Calvino (Il visconte dimezzato…., Il barone rampante…, Il cavaliere inesistente, pubblicata tra il 1952 e il 1959).
Nel 1959 esplose il caso clamoroso, inaudito nella storia letteraria degli ultimi vent’anni, del romanzo postumo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo. E poi, l’uno dietro l’altro, i grandi successi di Cassola con La ragazza di Bube (1960), di Moravia, con La noia, del 1961, anno in cui uscirono anche il vasto affresco di vita italiana alle soglie del fascismo del Pratolini, Lo scialo, e il compatto romanzo breve di Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta. Opere tra loro diversissime, non più riducibili, come il romanzo neorealista, sotto una sola etichetta, ma che spaziavano verso problematiche diverse, dalla Resistenza al dramma esistenziale, dalla storia del passato alla mafia, ai rapporti alienanti tra l’individuo e le strutture industriali, come Il memoriale di Paolo Volponi, del 1962.

Dell’anno successivo è l’ultimo grande libro del Gadda, La cognizione del dolore, una storia disperata, irta di simboli. Di tutt’altro timbro sono, dello stesso anno, il maggior successo di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare e il testo più noto dello scrittore cattolico Luigi Santucci, Il velocifero.
Del 1964, l’altro caso clamoroso degli anni Sessanta, Il male oscuro, di Giuseppe Berto.
Ma le citazioni potrebbero proseguire almeno coi nomi di Alberto Bevilacqua, Goffredo Parise, Domenico Rea, Giovanni Arpino, Alberto Arbasino, Luciano Bianciardi, Tommaso Landolfi, Guido Piovene, Mario Tobino, mentre continuava l’attività narrativa di Dino Buzzati, di cui resisteva, sempre più apprezzato, un romanzo del 1941, ma diffuso soltanto nel dopoguerra, Il deserto dei tartari, dall’atmosfera kafkiana.

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Dopo il 1968

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Non s’era mai discusso tanto, come in quegli anni, sulla morte del romanzo, né si erano mai pubblicati, come in quegli anni, tanti romanzi. A centinaia si contano autori e titoli.
Quando nel 1968 scoppiò nel mondo la contestazione studentesca, effettivamente l’attenzione parve spostarsi sulla saggistica e il romanzo subì una pausa; né la contestazione seppe dare opere veramente significative nella grande narrativa (si può citare, di Giorgio CesaranoI giorni del dissenso, 1969).
Vere opere di eccezione dal ’68 ad oggi, se ne sono avute poche. Cito i casi più clamorosi: di Elsa MoranteLa storia (1974); di Stefano D’ArrigoHorcynus Orca (1975), un libro che ha fatto parlare molto ma è di tale ardua lettura da risultare pressoché inavvicinabile; di Gavino LeddaPadre padrone (1975).
E per giungere ai successi più recenti, i romanzi di due donne, la giornalista Oriana Fallaci con Un uomo e Luce D’Eramo con La deviazione, opere ambedue uscite nel 1979.
Comunque è continuata più o meno intensa l’attività di Moravia, di Cassola, di Testori, di Gianna Manzini, di Volponi, di Sciascia (soprattutto, per quest’ultimo, sul versante del romanzo filosofico e del pamphlet politico).
L’antico genere letterario, insomma, è ancora vegeto, ed anzi sembra godere in questo ultimo scorcio di ottima salute e non solo in Italia. I repertori letterari ne danno elenchi sterminati. Per una panoramica italiana del romanzo del Novecento, dovremo accontentarci di qualche esemplificazione indicativa. Ma tutti i testi citati sono reperibilissimi in edizioni anche di poco prezzo.
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