LETTERATURA ITALIANA DEL DOPOGUERRA – Il neorealismo

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Se si guarda bene il panorama della letteratura italiana durante il ventennio fascista si vedrà che esso presenta, in tutti i suoi aspetti, un volto ambiguo, o, se si preferisce, ambivalente nei confronti del regime. Un’arte fascista voleva il movimento di Strapaese, ma nello stesso tempo con il richiamo alla nostra tradizione plebea e alle squadre d’azione, contraddiceva il programma mussoliniano di assorbire i quadri della vecchia classe dirigente borghese e l’ambizione del regime di conquistare una propria egemonia anche culturale. Un’arte fascista proclamava di volere il movimento di 900, ma nello stesso tempo, con il suo cosmopolitismo contraddiceva l’esigenza del regime fascista di richiamarsi alla tradizione italiana, di esaltare un primato italiano, di seguire una politica autarchica anche nel campo letterario.

L’autonomia del fenomeno artistico veniva affermata, invece, dagli scrittori della prosa d’arte e, in questo senso, essi opponevano una linea di resistenza al tentativo del fascismo di asservire la letteratura ai propri fini propagandistici. Ma, d’altra parte, il rifugio nella bella pagina e la fuga dalla realtà, poteva far comodo a un regime che proprio sulla deformazione della realtà fondava gran parte del suo potere.
Voglio dire che in tutte queste manifestazioni letterarie – sia pure in misura diversa a seconda dei casi – s’intrecciano elementi di appoggio o di fiancheggiamento del regime fascista a elementi di opposizione. Tanto che la politica culturale nel fascismo ondeggiò spesso fra i due poli della richiesta di un’arte fascista (che esaltasse le imprese del regime) e del favoreggiamento di un’arte pura, che per  lo meno non desse fastidio al regime.
Dopo il 1928, invece (quando, cioè, crollarono definitivamente i miti, le illusioni e gli equivoci che avevano accompagnato il sorgere e l’affermarsi del fascismo e che avevano potuto ingannare o rendere perplessi gruppi notevoli di intellettuali), cominciò a manifestarsi e ad affermarsi una letteratura chiaramente d’opposizione e di orientamento realistico.
Questa letteratura faceva propri gli aspetti più positivi della prosa d’arte (e molti di quegli scrittori faranno le loro prime prove proprio in Solaria), si richiamava alle grandi esperienze europee in polemica con la cultura ufficiale, cercava i suoi modelli italiani in Giovanni Verga e in Svevo, scopriva nella letteratura americana un grande esempio di arte realistica e democratica, ma, soprattutto, s’impegnava a conoscere e a rappresentare la realtà italiana nelle sue più stridenti contraddizioni.
Vengono subito alla mente i nomi di Corrado Alvaro, Carlo Bernari, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Cesare Pavese i quali, proprio nell’ultimo decennio della dittatura fascista, prepararono il terreno per l’esplosione neorealistica che verrà prodotta dalla seconda guerra mondiale e dalla lotta di liberazione. E’ appunto il dramma degli anni 1941-45 che sconvolge fino alle radici la società e insieme la cultura italiana: il movimento artistico che cerca di riflettere tale nuova situazione storica viene definito neorealismo.
Il neorealismo si nutrì, innanzitutto di un nuovo modo di guardare il mondo, di una morale e di una ideologia nuove che erano proprie della rivoluzione antifascista. In esse vi era la consapevolezza del fallimento della vecchia classe dirigente e del posto che, per la prima volta nella nostra storia, si erano conquistate sulla scena della società civile le masse popolari. Vi era l’esigenza della scoperto dell’Italia reale, nella sua arretratezza, nella sua miseria, nelle sue assurde contraddizioni e insieme una fiducia schietta e rivoluzionaria nelle nostre possibilità di rinnovamento e nel progresso dell’intera umanità. Il tono poteva variare dall’epico al narrativo o al lirico, ma la posizione ideale rimaneva la stessa.
È evidente che un movimento di questo tipo si presentava come un autentico movimento di avanguardia, rispetto ad altre cosiddette avanguardie che avevano proposto riforme soltanto formali, che non rompevano il cerchio della cultura della classe dominante, e che, qualche volta, compivano rivoluzioni canonizzate nell’Accademia d’Italia. Autentica avanguardia, perchè tendeva a riflettere i punti di vista, le esigenze, le denunce, la morale di un movimento rivoluzionario reale e non soltanto culturale.
E dell’avanguardia il neorealismo ebbe il piglio aggressivo e polemico, la volontà di caratterizzarsi e di distinguersi nettamente dalla cultura tradizionale, accademica, arretrata, staccata dalla realtà..
Si presentò così come arte impegnata contro l’arte che tendeva ad eludere i problemi reali del nostro Paese; contrappose polemicamente nuovi contenuti (partigiani, operai, scioperi, bombardamenti, fucilazioni, occupazione di terre, baraccati, sciuscià), all’arte della pura forma e della morbida memoria (ma non fece mai, almeno nei migliori, di questi contenuti una precettistica); cercò un mutamento radicale delle forme espressive che sottolineasse la rottura con l’arte precedente e potesse esprimere più adeguatamente i nuovi sentimenti; si pose il problema di una tradizione di arte autenticamente realistica e rivoluzionaria a cui riferirsi, scavalcando le esperienze decadenti dell’arte moderna.
Naturalmente un simile processo avvenne in modi e in tempi diversi a seconda del carattere specifico delle varie arti. E in letteratura (al contrario che nel cinema) avvenne con una certa difficoltà e in modo sempre incerto e caotico.
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Si cominciò col documento nella ricerca di un massimo di concretezza e di oggettività. Basterà ricordare quelli pubblicati nelle prime annate della rivista Società e curati da Bilenchi, oppure le opere più notevoli che, nei limiti del documento, si ebbero in quegli anni, da 16 Ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti a Campo degli ufficiali di Giampiero Carocci, al Sergente nella neve di Rigoni-Stern e, soprattutto, a Se questo è un uomo di Primo Levi.

Tentò l’esperienza narrativo-saggistica, il cui esempio più cospicuo fu dato dal Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi; cercò di trasformare la memoria autobiografica in memoria storica e si ebbero le Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini.
Ma si orientò soprattutto verso la cronaca come la forma narrativa che le garantisce il massimo di presa sulla realtà o di immunizzazione da ogni tentazione lirica. Per il linguaggio la strada era obbligata: bisognava innestare i dialetti nella lingua tradizionale. Bisognava però farlo accompagnando o anticipando il processo di formazione di una comunità linguistica che si era iniziato con la caduta del fascismo e corrispondeva sul piano della lingua alla rottura dei limiti regionali e corporativi, alla conquista da parte di grandi masse di una coscienza nazionale, all’affermarsi nella società civile delle classi popolari.
Vanno comunque ricordati, accanto agli scrittori già citati, Francesco Jovine, Vasco Pratolini, Italo Calvino, Domenico Rea, Mario Tobino per limitarmi solo ad alcuni nomi.
La debolezza ideologica del neorealismo si manifestò quando esso non venne più sorretto dall’ondata ascendente della rivoluzione democratica italiana. La crisi del movimento, iniziatasi grosso modo nel 1950 in coincidenza con la restaurazione capitalistica del nostro Paese, ha come aspetti più appariscenti la perdita della capacità espansiva, la riduzione della carica combattiva, la minore fiducia nella realtà, un certo ripiegamento su toni più intimi e smorzati. Esso, cioè, presenta alla sua base la restaurazione ideologica della sfiducia, dello scetticismo, dell’intimismo, del lirismo.
In effetti il neorealismo aveva troppo puntato su una presa diretta sulla realtà italiana e troppo aveva trascurato quegli approfondimenti storici, economici, sociologici ed ideologici con i quali doveva nutrirsi una nuova letteratura, aveva troppo presunto di poter arrivare a una conoscenza letteraria del nostro mondo e ci aveva offerto una sorte di Sturm und Drang mentre avevamo bisogno dei lumi dell’Enciclopedia.
Comunque la crisi del neorealismo favorisce da una parte il risorgere di una letteratura intimistica e lirica la quale proprio nella simiglianza con la letteratura tradizionale deve cercare le ragioni prime del suo successo: e basterà pensare a Cassola, Bassani e Tomasi di Lampedusa; dall’altra spinge la nuova generazione di scrittori alla ricerca di nuove strade, non sempre chiare nel loro tracciato, che tuttavia hanno approdato in taluni, casi a risultati di grande interesse.
Sperimentale si potrebbe definire tutta l’area di questa letteratura (anche se a tale definizione da molte parti si vuol dare una portata assai più ristretta) che va dalle esperienze di linguaggio e dalla scoperta del sottoproletariato di Pier Paolo Pasolini alle posizioni neoavanguardistiche del gruppo 63, dalla ricerca di una letteratura della ragione, a ispirazione illuministica, di Leonardo Sciascia a quella non meno interessante di un gruppo di scrittori meridionali (Prisco, Incoronato, Pomilio) e alle più recenti, felici prove di Volponi. Un posto a parte spetta a Carlo Emilio Gadda, uno scrittore già maturo prima della seconda guerra mondiale, ma che nel dopoguerra ha raggiunto la piena affermazione tanto da costituire con Joyce il punto di riferimento quasi d’obbligo della giovane letteratura.
La cosa che più colpisce nella prosa di Gadda è il momento linguistico, e stilistico, la ricerca, cioè, di un nuovo linguaggio narrativo che investe il lessico più che la sintassi ed utilizza come elementi fondamentali il dialetto, il linguaggio tecnico e, sia pure in misura minore, il richiamo dotto (il latino o altre lingue straniere, la figura etimologica ecc.).
Va detto subito che all’origine di tale ricerca di linguaggio, non c’è una preoccupazione formalistica, ma un’esigenza profonda di verità, un bisogno di realtà.
Gadda (e con lui, almeno all’inizio, tutti coloro che lo hanno seguito o fiancheggiato) parte dalle parole per raggiungere le cose e sente l’esigenza di frantumare il linguaggio letterario tradizionale proprio perchè trova quel linguaggio generico e retorico e desiderava mezzi espressivi che gli permettano davvero di conoscere la realtà. Il furore con cui Gadda aggredisce la lingua letteraria tradizionale e la lingua convenzionale della piccola-borghesia è animato da un desiderio irresistibile di raggiungere la realtà. Per questo lo affascina il modo di scrivere dei tecnici (notai, ingegneri, avvocati, spedizionieri, direttori di banca): perchè “ciascuno manovra nel suo campo feroce e diritto e, ciò che importa, secondo un’idea: e riesce come vuole l’idea: e non è, il girovagare prolisso dello pseudo-scrittore che par l’onda lunga di cert’uggia oceanica; uggia dell’infinito, dell’informe”.
Proprio, dunque, attraverso la ricerca di un linguaggio che stabilisca una presa diretta sulle cose, Gadda può compiere quel processo di demistificazione dei costumi piccolo borghesi e dei miti retorici del fascismo, e, nello stesso tempo, quel processo di enucleazione di sentimenti autentici dal velo di pudore che sempre li accompagna, che caratterizzano la spietata ironia e la coperta commozione di molte sue pagine indimenticabili.
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