PALMIRO TOGLIATTI

PALMIRO TOGLIATTI

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“Un uomo moderno, vissuto con la coscienza che il solo peccato che egli poteva commettere era di non tenere quel posto che a lui era affidato da un intreccio quasi fatale di fattori oggettivi e soggettivi che oramai lo trascendevano, e che erano la storia del suo Paese, del movimento delle classi oppresse e della sua stessa persona, nella penosa ricerca del rapporto con i suoi simili. Fattori che lo trascendevano, ma che egli conosceva e fino all’ultimo si sforzò di dominare, in un processo che ebbe periodi di lungo, tenace travaglio e scorci di rotture e contrasti violenti”.

Queste parole, Palmiro Togliatti dettò, nel giugno 1964, in memoria di Antonio Gramsci in uno scritto che può essere considerato il suo testamento spirituale. Parole meditate e commosse con le quali egli testimoniava il persistente, inscindibile legame di affetto e devozione nei confronti di quello che gli era stato compagno e maestro; ma anche parole nelle quali è trasparente il riferimento autobiografico del combattente che avverte la fine vicina e che si volge un attimo indietro a considerare il cammino percorso, a valutare tutta una vita spesa al servizio delle classi oppresse da un uomo che di questo movimento aveva accettato le grandezze e le miserie, sforzandosi sempre di comprenderlo a fondo e di dominarlo nel quadro di una concezione rivoluzionaria, attraverso, appunto, “un processo che ebbe periodi di lungo, tenace travaglio e scorci di rotture e contrasti violenti”.

Già nel 1958 sempre parlando a proposito di Gramsci, Togliatti aveva detto…

“Fare della politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica è quindi contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia e, per il singolo che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale. Nella politica è da ricercarsi l’unità della vita…, il punto di partenza e il punto di arrivo. La ricerca, il lavoro, la lotta, il sacrificio sono momenti di questa unità. Non vi può essere dubbio che la politica, in questo modo intesa, collocata al vertice delle attività umane, acquista carattere di scienza. Non è più momento passionale e non è più meschina mostra di abilità; è il risultato di approfondita ricerca delle condizioni in cui si muovono le società umane, i gruppi che le compongono e i singoli. Giunge a comprendere, e quindi a giustificare storicamente, tanto l’avanzata quanto la ritirata o l’arresto, tanto la vittoria quanto la sconfitta. Alla base di questa comprensione vi è la critica di se stessi e degli altri, che è momento di azione ulteriore”.

In questa concezione della politica come più alta espressione dell’attività umana è racchiuso il senso della sua opera, la portata e il valore di una vita che ha riempito l’arco di cinquant’anni di storia, tra i più drammatici dell’epoca contemporanea.

Palmiro Togliatti era solito ripetere che il movimento al quale egli apparteneva e con il quale aveva identificato tutta la sua esistenza veniva da lontano e andava molto lontano. E veramente da lontano veniva egli: veniva da quel primo moto di ribellione che le migliori intelligenze italiane avevano provato nei confronti di quella caricatura del socialismo, dominante nei primi anni del secolo, la cui “scienza e filosofia” era stato il positivismo, e che in questo “piatto letto di Procuste” aveva pretesto di “adagiare e contenere, loro malgrado, la robusta personalità di Carlo Marx e la sua dialettica di stampo hegeliano”; veniva dalle grandi lotte del primo dopoguerra per l’abbattimento del regime capitalistico-borghese, dai “giorni delle grandi speranze – come scriveva nel numero del 25 novembre 1922 dell’Ordine Nuovo clandestino, rivolgendosi agli operai torinesi, – della grande ondata rossa che aveva portato voi, avanguardia di combattenti, a piantare le vostre bandiere sui luoghi del vostro lavoro”; veniva dalla lunga, instancabile lotta contro il fascismo e contro il tipo di società che lo aveva generato.

Egli era nato a Genova il 26 marzo 1893, terzo dei quattro figli di Antonio Togliatti, modesto impiegato dello Stato, costretto a traslocare, per servizio, a Novara, Torino, Sondrio e, infine, nel 1908, a Sassari, dove il giovane Palmiro frequentò i tre anni di liceo conseguendo nel 1911 la licenza liceale a pieni voti. Il 1911 fu un anno decisivo nella vita del giovane. La morte del padre pose la famiglia in condizioni di estrema ristrettezza, e Palmiro, per poter continuare gli studi, concorse ad una borsa di studio messa in palio dal “Collegio Carlo Alberto delle province sarde” in cui si classificò al 2° posto, mentre al 7° posto si classificò Antonio Gramsci.
Iscrittosi in giurisprudenza, si laureò nel 1915 con il massimo dei voti, discutendo con Luigi Einaudi una tesi sul regime doganale nelle colonie (dopo la laurea in legge Togliatti conseguirà anche quella in lettere). All’Università di Torino conobbe Antonio Gramsci con il quale strinse una fraterna amicizia e con il quale, nel 1914, entrò nel Partito socialista.

Già nel 1909, quando il padre lo condusse ad un comizio di protesta per l’uccisione di Francisco Ferrer, il giovane Palmiro aveva sentito il primo interesse per la propaganda socialista, e negli anni d’università ebbe i primi contatti con il movimento organizzato della classe operaia.

Le caratteristiche fondamentali del Partito socialista erano allora “la passività, l’assenza di spirito critico, il verbalismo”, e le sue due componenti, “il riformismo scettico e traditore” e ”il massimalismo demagogo e cialtrone”, nascevano entrambe dalle stesse radici positivistiche. La vigorosa reazione a queste degenerazioni si accompagnò quindi, in Togliatti (e in Gramsci), ad un vivo interesse per la filosofia classica tedesca (soprattutto per Hegel) attraverso la quale – seguendo lo stesso itinerario percorso da Marx – si giungeva a cogliere, senza deviazioni e integralmente, lo spirito della dottrina di Marx. Per poter portare queste conquiste ad uno sbocco pratico, politico, bisognerà però attendere l’esperienza dei Consigli di fabbrica e la fondazione del Partito comunista. Per ora, fino a quasi tutto il 1914, Togliatti (come Gramsci) resta assente dal dibattito politico e dall’attività di partito anche se, proprio nel 1914, egli fa parte con Gramsci di quel gruppo della Sezione socialista torinese che offre a Gaetano Salvemini, visto come il rappresentante dei contadini pugliesi, la candidatura in un collegio elettorale di Torino, anticipando così le linee della soluzione rivoluzionaria della questione meridionale, fondata sull’alleanza dei contadini meridionali e degli operai del Nord, che sarà uno dei punti più caratteristici del gruppo dell’Ordine Nuovo e diventerà poi indirizzo generale dei comunisti italiani. Il contributo di Togliatti al movimento socialista è però, per ora, solo di tipo giornalistico. Del resto il corso degli avvenimenti, con lo scoppio della guerra, non gli offre altra scelta. Egli presta infatti servizio militare prima in sanità, poi, dal 1910 in fanteria e negli alpini. Nel 1917 frequenta la scuola allievi ufficiali di Caserta, dove, tra gli altri, insegna Luigi Russo, e viene nominato ufficiale, ma, per malattia viene posto in congedo.

Rientrato a Torino, riprende i contatti, del resto mai interrotti del tutto durante la guerra, con i vecchi compagni, soprattutto con Gramsci. Nel 1919 entra a far parte come cronista sindacale della redazione dell’edizione torinese dell’Avanti!, diretta da Ottavio Pastore.

Il 1° maggio 1919 esce a Torino il primo numero dell’Ordine Nuovo, una ”rassegna settimanale di cultura socialista” alla cui fondazione Togliatti partecipa insieme a Gramsci, Terracini, Tasca, e che sarà, secondo le parole di Piero Gobetti, ”il solo documento di giornalismo rivoluzionario e marxista che sia sorto in Italia con qualche serietà ideale”.

Nei primi mesi la rassegna, paralizzata dalle posizioni piccolo-borghesi di Angelo Tasca, vive una vita sterile di tentativi e di enfasi. ”Le sole cose vive – ha notato il Gobetti – erano alcune brillanti cronache culturali in cui si rivelò il caustico ingegno di Palmiro Togliatti”. Nella sua rubrica, ”la battaglia delle idee”, Togliatti affronta il dialogo con i maestri, le correnti, i movimenti di cultura politica che più avevano influenzato la formazione sua e degli altri redattori dell’Ordine Nuovo (Croce, Gentile, Sorel, ma anche Prezzolini e Missiroli), ”facendo i conti” con la propria precedente coscienza filosofica e costituendo il primo abbozzo di quell’anti-Croce (e anti-Gentile) che Gramsci indicherà in carcere come uno dei compiti ideologici più importanti del movimento operaio italiano. Questo dialogo lo porta a soffermarsi – continuando una serie di scritti pubblicati durante la guerra sul Grido del popolo – sul valore del liberismo e sull’importanza che ha, anche per il proletariato, una lotta antiprotezionistica che sia connessa all’impegno per risolvere la questione meridionale. Ben presto lo spirito polemico di Togliatti si riverserà dalla ”battaglia delle idee” nel vivo del dibattito politico-teorico suscitato dalla rivista.

Il 21 giugno 1919 esce il numero 7 dell’Ordine Nuovo con l’articolo ”Democrazia operaia”, scritto da Gramsci con la collaborazione di Togliatti e l’approvazione di Terracini, nel quale veniva impostato il problema delle commissioni interne di fabbrica che sarebbe diventato il “problema centrale”, “l’idea dell’Ordine Nuovo”, “il problema fondamentale della rivoluzione operaia”, “il problema della libertà proletaria”. Le commissioni interne erano viste come i futuri organi del potere proletario in un nuovo sistema di democrazia operaia, e per intanto come una ”scuola di esperienza politica e amministrativa”, come organizzazione e inquadramento delle masse. In questo modo la parte più avanzata del proletariato italiano si collegava – politicizzando un istituto proletario elaborato dalle masse italiane – ai soviet russi che costituivano l’ossatura dello Stato socialista uscito dalla Rivoluzione d’Ottobre. Dopo la pubblicazione di questo articolo l’Ordine Nuovo divenne l’organo del movimento dei Consigli di fabbrica che rappresentò nel nostro paese, nel biennio rosso, il solo serio tentativo di affrontare in concreto il problema della rivoluzione proletaria e della lotta per la conquista del potere politico da parte della classe operaia.

All’Ordine Nuovo e al movimento dei Consigli, Togliatti porta il contributo della sua profondissima cultura e di una visione storica realistica.

Nel gennaio 1920 Togliatti viene eletto (con il massimo dei voti) nella Commissione esecutiva della Sezione socialista torinese, della quale diviene vice segretario. Nell’aprile è tra gli animatori del grandioso ”sciopero delle lancette” che da Torino si allargò a tutta la provincia assumendo la natura di ”conflitto per il potere” in difesa dei ”diritti civili proletari”.
Lo sciopero, che rappresentò la punta più alta del movimento rivoluzionario italiano, venne sconfessato sia dalla Direzione del Partito socialista che dalla Confederazione del lavoro. Per protesta contro l’atteggiamento della Direzione del partito, il segretario della Sezione torinese, Boero, si dimise e venne sostituito da Togliatti.
Egli si trova così ad occupare un posto di estrema importanza in occasione dell’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, che ”fu certamente – come scriverà nel 1958 – nei primi anni del primo dopoguerra, il movimento popolare di più vasta portata e di più potente rilievo”, anche se, in essa, ”per il modo stesso com’era stata preparata e come venne attuata, erano già impliciti gli elementi di una sconfitta e di una ritirata generale. Occupare tutte le fabbriche del paese, cioè impadronirsi, di fatto, di tutto l’apparato della produzione industriale, è atto tale che non si può compiere con semplice intento dimostrativo, o al solo scopo di esercitare una pressione sul padronato. È un atto, infatti, che pone la classe operaia, in modo immediato, davanti al problema della gestione della ricchezza privata e della cosa pubblica, cioè del potere”.

Il 9 settembre egli partecipa alla riunione della Confederazione del lavoro nel corso della quale venne discusso lo sbocco da dare all’azione. I dirigenti confederali gli chiesero se la classe operaia torinese sarebbe stata in grado di iniziare un moto armato insurrezionale. « Noi non attaccheremo da soli – fu la risposta:

”Un uomo moderno, vissuto con la coscienza che il solo peccato che egli poteva commettere era di non tenere quel posto che a lui era affidato da un intreccio quasi fatale di fattori oggettivi e soggettivi che oramai lo trascendevano, e che erano la storia del suo Paese, del movimento delle classi oppresse e della sua stessa persona, nella penosa ricerca del rapporto con i suoi simili. Fattori che lo trascendevano, ma che egli conosceva e fino all’ultimo si sforzò di dominare, in un processo che ebbe periodi di lungo, tenace travaglio e scorci di rotture e contrasti violenti”. Queste parole, Palmiro Togliatti dettò, nel giugno 1964, in memoria di Antonio Gramsci in uno scritto che può essere considerato il suo testamento spirituale. Parole meditate e commosse con le quali egli testimoniava il persistente, inscindibile legame di affetto e devozione nei confronti di quello che gli era stato compagno e maestro; ma anche parole nelle quali è trasparente il riferimento autobiografico del combattente che avverte la fine vicina e che si volge un attimo indietro a considerare il cammino percorso, a valutare tutta una vita spesa al servizio delle classi oppresse da un uomo che di questo movimento aveva accettato le grandezze e le miserie, sforzandosi sempre di comprenderlo a fondo e di dominarlo nel quadro di una concezione rivoluzionaria, attraverso, appunto, ”un processo che ebbe periodi di lungo, tenace travaglio e scorci di rotture e contrasti violenti”. Già nel 1958 sempre parlando a proposito di Gramsci, Togliatti aveva detto…
“Fare della politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica è quindi contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia e, per il singolo che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale. Nella politica è da ricercarsi l’unità della vita…, il punto di partenza e il punto di arrivo. La ricerca, il lavoro, la lotta, il sacrificio sono momenti di questa unità. Non vi può essere dubbio che la politica, in questo modo intesa, collocata al vertice delle attività umane, acquista carattere di scienza. Non è più momento passionale e non è più meschina mostra di abilità; è il risultato di approfondita ricerca delle condizioni in cui si muovono le società umane, i gruppi che le compongono e i singoli. Giunge a comprendere, e quindi a giustificare storicamente, tanto l’avanzata quanto la ritirata o l’arresto, tanto la vittoria quanto la sconfitta. Alla base di questa comprensione vi è la critica di se stessi e degli altri, che è momento di azione ulteriore”.
In questa concezione della politica come più alta espressione dell’attività umana è racchiuso il senso della sua opera, la portata e il valore di una vita che ha riempito l’arco di cinquant’anni di storia, tra i più drammatici dell’epoca contemporanea. Palmiro Togliatti era solito ripetere che il movimento al quale egli apparteneva e con il quale aveva identificato tutta la sua esistenza veniva da lontano e andava molto lontano. E veramente da lontano veniva egli: veniva da quel primo moto di ribellione che le migliori intelligenze italiane avevano provato nei confronti di quella caricatura del socialismo, dominante nei primi anni del secolo, la cui scienza e filosofia era stato il positivismo, e che in questo ”piatto letto di Procuste” aveva pretesto di ”adagiare e contenere, loro malgrado, la robusta personalità di Carlo Marx e la sua dialettica di stampo hegeliano”; veniva dalle grandi lotte del primo dopoguerra per l’abbattimento del regime capitalistico-borghese, dai ”giorni delle grandi speranze – come scriveva nel numero del 25 novembre 1922 dell’Ordine Nuovo clandestino, rivolgendosi agli operai torinesi, – della grande ondata rossa che aveva portato voi, avanguardia di combattenti, a piantare le vostre bandiere sui luoghi del vostro lavoro”; veniva dalla lunga, instancabile lotta contro il fascismo e contro il tipo di società che lo aveva generato. Egli era nato a Genova il 26 marzo 1893, terzo dei quattro figli di Antonio Togliatti, modesto impiegato dello Stato, costretto a traslocare, per servizio, a Novara, Torino, Sondrio e, infine, nel 1908, a Sassari, dove il giovane Palmiro frequentò i tre anni di liceo conseguendo nel 1911 la licenza liceale a pieni voti. Il 1911 fu un anno decisivo nella vita del giovane. La morte del padre pose la famiglia in condizioni di estrema ristrettezza, e Palmiro, per poter continuare gli studi, concorse ad una borsa di studio messa in palio dal “Collegio Carlo Alberto delle province sarde” in cui si classificò al 2° posto, mentre al 7° posto si classificò Antonio Gramsci. Iscrittosi in giurisprudenza, si laureò nel 1915 con il massimo dei voti, discutendo con Luigi Einaudi una tesi sul regime doganale nelle colonie (dopo la laurea in legge Togliatti conseguirà anche quella in lettere). All’Università di Torino conobbe Antonio Gramsci con il quale strinse una fraterna amicizia e con il quale, nel 1914, entrò nel Partito socialista. Già nel 1909, quando il padre lo condusse ad un comizio di protesta per l’uccisione di Francisco Ferrer, il giovane Palmiro aveva sentito il primo interesse per la propaganda socialista, e negli anni d’università ebbe i primi contatti con il movimento organizzato della classe operaia. Le caratteristiche fondamentali del Partito socialista erano allora « la passività, l’assenza di spirito critico, il verbalismo », e le sue due componenti, ”il riformismo scettico e traditore” e ”il massimalismo demagogo e cialtrone”, nascevano entrambe dalle stesse radici positivistiche. La vigorosa reazione a queste degenerazioni si accompagnò quindi, in Togliatti (e in Gramsci), ad un vivo interesse per la filosofia classica tedesca (soprattutto per Hegel) attraverso la quale – seguendo lo stesso itinerario percorso da Marx – si giungeva a cogliere, senza deviazioni e integralmente, lo spirito della dottrina di Marx. Per poter portare queste conquiste ad uno sbocco pratico, politico, bisognerà però attendere l’esperienza dei Consigli di fabbrica e la fondazione del Partito comunista. Per ora, fino a quasi tutto il 1914, Togliatti (come Gramsci) resta assente dal dibattito politico e dall’attività di partito anche se, proprio nel 1914, egli fa parte con Gramsci di quel gruppo della Sezione socialista torinese che offre a Gaetano Salvemini, visto come il rappresentante dei contadini pugliesi, la candidatura in un collegio elettorale di Torino, anticipando così le linee della soluzione rivoluzionaria della questione meridionale, fondata sull’alleanza dei contadini meridionali e degli operai del Nord, che sarà uno dei punti più caratteristici del gruppo dell’Ordine Nuovo e diventerà poi indirizzo generale dei comunisti italiani. Il contributo di Togliatti al movimento socialista è però, per ora, solo di tipo giornalistico. Del resto il corso degli avvenimenti, con lo scoppio della guerra, non gli offre altra scelta. Egli presta infatti servizio militare prima in sanità, poi, dal 1910 in fanteria e negli alpini. Nel 1917 frequenta la scuola allievi ufficiali di Caserta, dove, tra gli altri, insegna Luigi Russo, e viene nominato ufficiale, ma, per malattia viene posto in congedo. Rientrato a Torino, riprende i contatti, del resto mai interrotti del tutto durante la guerra, con i vecchi compagni, soprattutto con Gramsci. Nel 1919 entra a far parte come cronista sindacale della redazione dell’edizione torinese dell’Avanti!, diretta da Ottavio Pastore.
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Il 1° maggio 1919 esce a Torino il primo numero dell’Ordine Nuovo, una ”rassegna settimanale di cultura socialista” alla cui fondazione Togliatti partecipa insieme a Gramsci, Terracini, Tasca, e che sarà, secondo le parole di Piero Gobetti, ”il solo documento di giornalismo rivoluzionario e marxista che sia sorto in Italia con qualche serietà ideale”.
Nei primi mesi la rassegna, paralizzata dalle posizioni piccolo-borghesi di Angelo Tasca, vive una vita sterile di tentativi e di enfasi.
”Le sole cose vive – ha notato il Gobetti – erano alcune brillanti cronache culturali in cui si rivelò il caustico ingegno di Palmiro Togliatti”. Nella sua rubrica, ”la battaglia delle idee”, Togliatti affronta il dialogo con i maestri, le correnti, i movimenti di cultura politica che più avevano influenzato la formazione sua e degli altri redattori dell’Ordine Nuovo (Croce, Gentile, Sorel, ma anche Prezzolini e Missiroli), ”facendo i conti” con la propria precedente coscienza filosofica e costituendo il primo abbozzo di quell’anti-Croce (e anti-Gentile) che Gramsci indicherà in carcere come uno dei compiti ideologici più importanti del movimento operaio italiano.
Questo dialogo lo porta a soffermarsi – continuando una serie di scritti pubblicati durante la guerra sul Grido del popolo – sul valore del liberismo e sull’importanza che ha, anche per il proletariato, una lotta antiprotezionistica che sia connessa all’impegno per risolvere la questione meridionale. Ben presto lo spirito polemico di Togliatti si riverserà dalla “battaglia delle idee” nel vivo del dibattito politico-teorico suscitato dalla rivista.
Il 21 giugno 1919 esce il numero 7 dell’Ordine Nuovo con l’articolo ”Democrazia operaia”, scritto da Gramsci con la collaborazione di Togliatti e l’approvazione di Terracini, nel quale veniva impostato il problema delle commissioni interne di fabbrica che sarebbe diventato il problema centrale, “l’idea dell’Ordine Nuovo”, il problema fondamentale della rivoluzione operaia, il problema della “libertà proletaria”. Le commissioni interne erano viste come i futuri organi del potere proletario in un nuovo sistema di democrazia operaia, e per intanto come una scuola di esperienza politica e amministrativa, come organizzazione e inquadramento delle masse. In questo modo la parte più avanzata del proletariato italiano si collegava – politicizzando un istituto proletario elaborato dalle masse italiane – ai soviet russi che costituivano l’ossatura dello Stato socialista uscito dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Dopo la pubblicazione di questo articolo l’Ordine Nuovo divenne l’organo del movimento dei Consigli di fabbrica che rappresentò nel nostro paese, nel biennio rosso, il solo serio tentativo di affrontare in concreto il problema della rivoluzione proletaria e della lotta per la conquista del potere politico da parte della classe operaia. All’Ordine Nuovo e al movimento dei Consigli, Togliatti porta il contributo della sua profondissima cultura e di una visione storica realistica. Nel gennaio 1920 Togliatti viene eletto (con il massimo dei voti) nella Commissione esecutiva della Sezione socialista torinese, della quale diviene vice segretario. Nell’aprile è tra gli animatori del grandioso “sciopero delle lancette” che da Torino si allargò a tutta la provincia assumendo la natura di conflitto per il potere in difesa dei diritti civili proletari.
Lo sciopero, che rappresentò la punta più alta del movimento rivoluzionario italiano, venne sconfessato sia dalla Direzione del Partito socialista che dalla Confederazione del lavoro. Per protesta contro l’atteggiamento della Direzione del partito, il segretario della Sezione torinese, Boero, si dimise e venne sostituito da Togliatti. Egli si trova così ad occupare un posto di estrema importanza in occasione dell’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, che “fu certamente – come scriverà nel 1958 – nei primi anni del primo dopoguerra, il movimento popolare di più vasta portata e di più potente rilievo”, anche se, in essa, “per il modo stesso com’era stata preparata e come venne attuata, erano già impliciti gli elementi di una sconfitta e di una ritirata generale. Occupare tutte le fabbriche del paese, cioè impadronirsi, di fatto, di tutto l’apparato della produzione industriale, è atto tale che non si può compiere con semplice intento dimostrativo, o al solo scopo di esercitare una pressione sul padronato. È un atto, infatti, che pone la classe operaia, in modo immediato, davanti al problema della gestione della ricchezza privata e della cosa pubblica, cioè del potere”.
Il 9 settembre egli partecipa alla riunione della Confederazione del lavoro nel corso della quale venne discusso lo sbocco da dare all’azione. I dirigenti confederali gli chiesero se la classe operaia torinese sarebbe stata in grado di iniziare un moto armato insurrezionale.
“Noi non attaccheremo da soli – fu la risposta: – per farlo occorrerebbe un’azione simultanea delle campagne e soprattutto una azione nazionale”.
Così egli poneva lo stato maggiore proletario di fronte alle proprie responsabilità, responsabilità che si era tentato di trasferire sul gruppo torinese. La sconfitta registrata nell’occupazione delle fabbriche pose in maniera drammatica ed ultimativa il problema della permanenza dei riformisti all’interno del Partito socialista e della natura e della struttura stessa del partito. Il partito era praticamente paralizzato e annullato dalla vuota e fatalistica predicazione rivoluzionaria dei massimalisti e dallo spirito di capitolazione dei riformisti, che gli impedivano una qualsiasi azione politica di un qualche vigore. Per ridare al partito il suo slancio e metterlo in grado di assolvere ai suoi compiti era indispensabile l’allontanamento dei riformisti, che avrebbe consentito agli elementi comunisti di assumerne la direzione senza più ostacoli e remore. Al Congresso di Livorno la maggioranza massimalista preferì invece scindersi dai comunisti e dell’Internazionale per restare stretta ai riformisti. Togliatti, che era divenuto redattore capo dell’Ordine Nuovo, trasformatosi in quotidiano il 1° gennaio 1921, non fu presente a Livorno, essendo rimasto a Torino a dirigere il giornale, e non venne nemmeno eletto nel primo Comitato centrale del nuovo partito. Suo fu il primo commento alla scissione:
“Che avverrà domani? Noi questo non sappiamo, ma sappiamo che oggi, per noi, è giorno di propositi, di volontà, di azione”.
Nell’estate Togliatti si sposta a Roma a dirigere “Il Comunista” nuovo organo centrale del partito. Al II Congresso del partito (Congresso di Roma) entra a far parte per la prima volta del Comitato centrale. Nell’ottobre è tra i pochi dirigenti comunisti presenti in Italia durante la marcia su Roma (Gramsci, Bordiga e Tasca sono a Mosca per il IV Congresso del Comintern). A Roma tenta invano di far uscire clandestinamente “Il Comunista” e, dopo il fallimento dei suoi tentativi, braccato dai fascisti, è inviato dal partito a Torino, dove fa uscire quasi quotidianamente, con la collaborazione di Alfonso Leonetti e di altri compagni, L’Ordine Nuovo clandestino (è questo, e molto tempo prima del “Non Mollare” generalmente indicato come il prima esempio di stampa clandestina antifascista, il primo e unico esempio di quotidiano clandestino nella storia d’Italia). Il 4 novembre tiene in un quartiere popolare di Torino un comizio notturno per celebrare il V anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Dopo le stragi di dicembre dirige per un certo periodo l’attività clandestina del partito a Torino, poi, a causa di una grave malattia, è costretto a sospendere ogni attività che riprenderà nel marzo 1923 quando, dopo l’arresto dell’organizzazione centrale viene chiamato a far parte del Comitato esecutivo. Nell’aprile, dopo la partenza di Terracini per Mosca, dirige l’attività del partito. Nell’agosto fonda “Lo Stato Operaio” (prima serie), primo giornale comunista che esca legalmente dopo il colpo di Stato fascista. Il 21 settembre viene arrestato per complotto contro la sicurezza dello Stato. Dopo tre mesi di detenzione verrà prosciolto in istruttoria. Nel ’23-’24 partecipa attivamente al dibattito promosso da Granisci per far uscire il partito dalle secche del settarismo bordighiano. Nel dibattito, Togliatti si muove inizialmente non senza qualche incertezza dettata dal timore che la rottura del gruppo dirigente espresso dal Congresso di Roma, favorisse la conquista della direzione del partito da parte degli elementi di destra guidati da Angelo Tasca. Accolte le tesi di Gramsci, Togliatti ne diviene il più autorevole portatore. Nel maggio 1924, alla Conferenza di Como, tiene il rapporto introduttivo criticando apertamente le bordighiane “Tesi di Roma”.
Intervenendo nel dibattito egli sviluppa contro Bordiga una concezione del rapporto tra tattica e strategia, tra governo operaio e dittatura proletaria in netta opposizione con il settarismo fino allora dominante.
“Noi siamo – dice – il partito della dittatura proletaria ma la dittatura del proletariato sarà una parola d’ordine solo nel momento in cui saremo riusciti a trascinare dietro di noi, a porre sul terreno della lotta per la conquista del potere le grandi masse della popolazione lavoratrice e non solo l’avanguardia che oggi è raccolta nei nostri partiti. Per giungere a quel momento bisogna saper costruire tutta una catena storica attraverso i suoi successivi anelli e quindi saper lanciare delle parole d’ordine adattate alla situazione in cui ci troviamo e ai rapporti di forze reali che troviamo dinanzi a noi”.
Dal 17 giugno all’8 luglio partecipa a Mosca al V Congresso del Comintern (del cui esecutivo verrà chiamato a far parte). Nel suo intervento egli insiste tra l’altro sulla necessità di fare del Partito comunista un partito di masse, “il partito delle grandi masse operaie e delle grandi masse contadine”. Tornato in Italia è nuovamente arrestato il 2 aprile 1925 e sarà trattenuto in carcere fino al 29 luglio. La lotta politica in Italia è giunta ormai ad una svolta decisiva. Il movimento di protesta popolare, che nei mesi successivi all’assassinio di Matteotti aveva scosso il regime fascista, è finito per esaurimento, tradito ancora una volta dallo spirito legalistico (anche nei confronti del fascismo!) e rinunciatario dei capi democratici che, attendendo l”intervento del re, hanno respinto sdegnosamente l”invito comunista a costituire l’Aventino in “antiparlamento” e a ricorrere alle masse per un’azione antifascista decisiva.. La paura di ”principio” di una possibile insurrezione proletaria paralizzava il blocco aventiniano che offriva così al fascismo la possibilità di riprendere il pieno controllo della situazione. Il colpo di Stato del 3 gennaio rappresenta l’ultima, definitiva disfatta delle opposizioni la cui soppressione è ormai solo questione di tempo. Nella severa polemica contro lo spirito rinunciatario del blocco delle opposizioni, Togliatti interviene con articoli sull’Unità in cui insiste sulla necessità per il proletariato di ”non confondersi nel blocco degli oppositori impotenti”.
È in questa duplice lotta contro il fascismo e contro l’opportunismo socialdemocratico che si colgono i risultati dell’intenso lavorio degli anni precedenti quando si era venuto formando il nuovo gruppo dirigente del partito. Nel vivo della lotta – sono parole di Togliatti – il gruppo dirigente è riuscito a forgiare lo strumento che ci serve per questa lotta.
Il partito ha acquistato un nuovo volto e il suo III Congresso (Lione) accoglie a stragrande maggioranza la nuova linea. È Togliatti che sotto la direzione di Gramsci prepara il documento principale del congresso (le “Tesi sulla situazione italiana e sui compiti del Pci”).
“Per la prima volta un partito della classe operaia italiana, anziché limitarsi alle generali affermazioni di principio e alla polemica immediata con la classe dominante e col governo, affronta con freddezza e con una analisi storica e scientifica rigorosa le questioni della struttura sociale del paese e dello sviluppo del movimento operaio, fa un’analisi precisa del regime capitalistico italiano, delle sue debolezze organiche, delle loro conseguenze politiche e di tutta la politica reazionaria della borghesia italiana. In questo quadro colloca il fascismo e quindi esattamente lo definisce, per passare, quindi, con lo stesso rigore, ad analizzare quali sono le forze di classe e politiche che la stessa situazione oggettiva spinge nella direzione di una trasformazione socialista della società e quali sono gli alleati che la classe operaia trova nella sua lotta contro il capitalismo”.
Particolarmente attiva la presenza di Togliatti nel dibattito precongressuale. A Bordiga che nega la legittimità ideologica del vecchio gruppo ordinovista, divenuto gruppo dirigente del partito, Togliatti replica che la via seguita dal suo gruppo è quella stessa seguita a suo tempo da Marx ed Engels, la via maestra e ha tutti i vantaggi dell’essere tale.
In questo contesto indicando quali sono gli errori da evitare, Togliatti definisce quale deve essere la natura e la funzione del partito: “sono da evitare due errori: 1° – l’errore di staccare il partito dalla classe operaia facendone qualcosa di diverso da essa e non soltanto la parte più decisa e dotata di più profonda coscienza e di più grande capacità politica; 2° – l’errore di staccare l’azione del partito dalle situazioni oggettive in cui esso si costituisce ed opera, e di considerare quindi la sua tattica come indipendente da esse, dalle loro modificazioni e dagli stessi spostamenti che si producono in seno alla classe operaia… noi affermiamo che il partito si accompagna alla classe operaia in tutte le posizioni intermedie che essa attraversa prima di giungere all’ultima – a quella che precede immediatamente la lotta per il potere. E accompagnarsi vuol dire adattare a queste posizioni le proprie parole d’ordine e la propria tattica. Per noi, operando in questo modo, il partito si trova, nel momento decisivo, alla testa della classe operaia”.
Al Congresso Togliatti è relatore sulla questione sindacale, viene rieletto nel Comitato centrale, ed entra a far parte dell’Ufficio politico e dell’Ufficio di segreteria; viene inoltre designato come rappresentante del partito nel Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista a Mosca dove entra a far parte del segretariato del Comintern. Si colloca in questo periodo il conflitto con Gramsci a proposito dell’atteggiamento che il Partito comunista dell’Urss avrebbe dovuto tenere nei confronti del blocco delle opposizioni (Trotskij, Zinoviev, Kamenev ecc. ), conflitto che è servito di base ad annose speculazioni per sostenere una sostanziale diversità tra le posizioni di Gramsci e quelle di Togliatti. Gramsci, pur accogliendo le posizioni della maggioranza del Pcus (Stalin, Bucharin ecc. ) esprimeva la sua preoccupazione di fronte al rischio di una frattura definitiva che spaccasse in due il partito sovietico. Da Mosca, Togliatti gli rispose che il problema essenziale per i comunisti italiani era quello dell’accordo sulla linea politica del partito sovietico, e della condanna delle posizioni errate degli oppositori.
La preoccupazione di Gramsci (alla luce anche degli sviluppi tragici del conflitto tra i dirigenti sovietici) appare dettata da un altissimo senso di responsabilità. Ma al punto in cui si era giunti appariva estremamente difficile giungere ad una composizione di compromesso del conflitto, ed anzi, come realisticamente suggeriva Togliatti, l’unica soluzione possibile consisteva nell’isolamento politico, anche sul piano internazionale, del gruppo degli oppositori alla linea generale del Comitato centrale. Il conflitto tra Gramsci e Togliatti ebbe termine con lo scambio delle lettere. Gramsci, identificato dalla polizia la notte del 31 ottobre (dopo l’attentato Zamboni ) mentre da Milano cercava di espatriare per recarsi a Mosca a partecipare ai lavori dell’Esecutivo allargato del Comintern che avrebbe dovuto discutere il conflitto tra i dirigenti sovietici, venne rinviato a Roma dove, pochi giorni dopo venne tratto in arresto. Togliatti, rimasto, dopo l’arresto di Gramsci e le leggi eccezionali, il maggior dirigente del partito, si spostò nel gennaio del 1927 in Francia per dirigere il lavoro del Centro estero del Pci.
Da questo momento egli assicura al partito una guida efficace ed autorevole che gli consentirà di superare gli anni difficili della clandestinità dalla quale il Pci uscirà con le caratteristiche di un grande partito di massa che affonda profondamente le sue radici nella coscienza della classe lavoratrice e di tutto il popolo italiano.
Nel marzo ’27 Togliatti fonda a Parigi “Lo Stato operaio” (seconda serie), rivista teorica del partito. Nel luglio 1928 al VI Congresso del Comintern è relatore con Kuusinen sui problemi del movimento di liberazione dei popoli coloniali. Togliatti si è ormai imposto come un dirigente di primo piano del movimento comunista internazionale. Al centro del suo rapporto egli pone la critica dell’impostazione data dalla socialdemocrazia al problema coloniale e l’approfondimento dei problemi di fondo che si sarebbero poi posti con estrema urgenza nel secondo dopoguerra e che ancora oggi rappresentano l’elemento decisivo della lotta, i problemi cioè dell’appoggio ai movimenti contadini dei paesi del Terzo mondo e ai movimenti nazionali rivoluzionari, e del rapporto tra movimenti comunisti e movimenti rivoluzionari borghesi. In questo periodo Togliatti approfondisce anche il problema del rapporto tra democrazia e socialismo rivendicando fermamente la fondamentalità delle libertà democratiche nella lotta della classe operaia per la conquista del potere:
“Secondo l’economicismo – scriverà nello Stato operaio – gli operai non avrebbero dovuto occuparsi che dei loro interessi immediati, lasciando alla borghesia e piccola borghesia democratica di condurre la lotta per le rivendicazioni politiche – democratiche – contro l’autocrazia. Per noi comunisti invece la lotta politica contro il fascismo deve avere come punto di partenza la organizzazione e mobilitazione del proletariato sul terreno di classe, ed è attorno al proletariato che le altre categorie e correnti antifasciste devono unirsi se vogliono combattere il fascismo in modo efficace. È questo, per noi, un criterio fondamentale il quale vale non soltanto per la situazione odierna, che è’ quella in cui si inizia la lotta dalle forme più , elementari, ma vale per tutti i momenti successivi di essa, sino al -momento supremo, quello della insurrezione antifascista”.
Questa piattaforma di lotta unitaria (che sarebbe stata ripresa negli anni successivi) fu però lasciata cadere a causa degli sviluppi della situazione, soprattutto per l’impostazione che le altre forze antifasciste, raccolte nella Concentrazione di Parigi, pretendevano di dare alla lotta, con il rifiuto di continuare la lotta clandestina in Italia dove ormai – si diceva – non c’era più nulla da fare. Il deciso spostamento a destra della socialdemocrazia provocò nel campo comunista internazionale uno spostamento a sinistra che portò all’identificazione di fascismo e socialdemocrazia con la discussa dottrina del socialfascismo. Dopo aver concordemente epurato il partito dagli elementi liquidatori di destra (Tasca, che sarebbe finito ignominiosamente collaborazionista a Vichy) e settari di sinistra (Bordiga, il quale, liberato dal confino; visse tranquillamente nell’Italia fascista senza mai tentare di opporsi al regime mussoliniano), il gruppo dirigente del partito si spaccò sul problema del rapporto con le altre formazioni antifasciste e sulla analisi della situazione italiana che la maggioranza .- tenendo conto di un accentuato risveglio delle masse e della crisi generale che stava sconvolgendo il mondo capitalistico – definitiva, forse troppo ottimisticamente, rivoluzionaria. Togliatti guidò ancora una volta la lotta contro l’opposizione che venne estromessa dal partito (Leonetti, Ravazzoli, Tresso, e, successivamente, Tranquilli-Silone).
Oggi si può discutere quale fosse allora la posizione più aderente alla realtà. È però certo che ancora una volta la scelta di Togliatti avvenne nel senso dello sviluppo storico. In quella situazione accettare le tesi dell’opposizione avrebbe significato, certamente, l’estromissione dal partito e dall’Internazionale e Togliatti sapeva troppo bene che fuori del movimento internazionale non esistevano possibilità di lotta per la causa dell’emancipazione del proletariato. D’altra parte che la scelta dell’intensificazione del lavoro in direzione dell’Italia fosse giusta, al di là della validità dell’analisi su cui veniva fondata, è dimostrato dal fatto che è proprio in quel periodo che, con la sua presenza segnata dal sacrificio di centinaia di quadri e di migliaia di militanti, il partito si radica profondamente nella realtà del nostro paese e pone le condizioni indispensabili per diventare un partito di massa, il partito di avanguardia della classe lavoratrice e di tutto il popolo italiano. Alcuni sostengono che la linea scelta da Togliatti e dalla maggioranza del Comitato centrale non fosse condivisa da Gramsci. Su questa base si è cercato in tempi recenti di montare una speculazione anche su questo dissidio.
La testimonianza resa da Gennaro Gramsci, che venne incaricato dal partito di informare il fratello dei termini del dibattito, è però sufficiente a far crollare la speculazione. Gennaro Gramsci, infatti, tornato a Parigi, dichiarò a Togliatti che Antonio era pienamente d’accordo con la linea della maggioranza. La certezza di avere l’adesione di Gramsci rafforzò in Togliatti la convinzione che la sua linea fosse quella giusta. Un ulteriore rafforzamento alle posizioni di Togliatti venne dal IV Congresso del partito che si svolse nel 1931 in Germania: Comunque, quando le tesi prevalse nel dibattito del 1930 si dimostrarono sostanzialmente errate, Togliatti fu tra i primi che seppe rimediare agli errori del passato portando avanti con indomabile energia la politica dei fronti popolari della quale divenne il più acuto ed autorevole teorico. Questa nuova politica – che era stata inaugurata ne: 1934 con il patto d’unità d’azione tra comunisti e socialisti (questi ultimi si erano venuti riqualificando in senso classista e rivoluzionario per merito soprattutto del Centro interno socialista diretto da Morandi) – divenne indispensabile quando più pericolosi si fecero i sintomi di guerra imminente.
“Nella lotta per la pace, contro la guerra imperialista, per la difesa dell’Unione Sovietica – dirà nel rapporto tenuto nel ’35 al VII congresso del Comintern -, il nostro compito politico immediato, fondamentale, consiste nel creare il più largo fronte unitario delle masse operaie e contadine, della piccola borghesia, degli intellettuali. È precisamente in questo campo, è nel campo della lotta per la pace che la nostra politica di fronte unitario può registrare i maggiori successi”.
Ma gli avvenimenti precipitano: l’Italia invade l’Etiopia, i generali traditori appoggiati dal nazifascismo insorgono contro il governo legittimo della Repubblica spagnola. Dal luglio 1937 al luglio 1939 Togliatti è in Spagna, rappresentante del Comintern presso il Partito comunista spagnolo. Cessata l’eroica resistenza del popolo spagnolo, Togliatti riesce -a sfuggire all’internamento in Francia e raggiunge l’Unione Sovietica da dove, durante la guerra, rivolgerà i “famosi discorsi agli italiani” sotto il nome di Mario Correnti.
Il 27 marzo 1944 sbarca a Napoli. La situazione politica nell’Italia liberata è estremamente caotica, e le sue ripercussioni si fanno risentire anche sulla conduzione della guerra di Liberazione nelle zone occupate dai nazisti. Ogni forma di collaborazione tra il governo in carica e i gruppi antifascisti era impedita dall’irrigidimento sulla questione istituzionale. Togliatti taglia questo nodo dichiarando che l’imperativo del momento è la lotta contro il nazifascismo e che le responsabilità della monarchia sarebbero state giudicate a liberazione avvenuta dall’intero popolo italiano.
La svolta di Salerno apriva la strada ad una utile collaborazione tra tutte le forze antifasciste. Il Partito comunista, in tal modo si imponeva come il partito dirigente di tutto il popolo italiano, come il partito capace di rappresentare le istanze politiche e sociali più avanzate non solo della classe operaia ma di tutto il popolo lavoratore nel suo complesso.
“Nessuna politica – scriveva Togliatti, nel primo numero di “Rinascita”, la rivista da lui fondata nel giugno 1944 – può essere realizzata senza un partito il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nel popolo, di guidare tutto il popolo a realizzarla”.
Per assolvere a questo compito era necessario un partito di tipo nuovo capace di raccogliere in un solo organismo tutte le correnti politiche proletarie attualmente esistenti.
“Partito nuovo – preciserà in un altro articolo su “Rinascita” – è un partito della classe operaia e del popolo il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda, ma interviene nella vita del paese con una attività positiva e costruttiva la quale, incominciando dalla cellula di fabbrica e di villaggio, deve arrivare fino al Comitato centrale, fino agli uomini che deleghiamo a rappresentare la classe operaia e il partito nel governo… un partito il quale sia capace di tradurre nella sua politica, nella sua organizzazione e nella sua attività di tutti i giorni quel profondo cambiamento che è avvenuto nella posizione della classe operaia rispetto ai problemi della vita nazionale. La classe operaia, abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico… Il partito nuovo che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema della emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione”.
Un partito di questo tipo avrebbe dovuto essere un grande partito di masse, una grande organizzazione la quale abbia nelle proprie file tutti gli elementi che sono necessari per stabilire dei contatti con tutte le categorie del popolo italiano e per dirigerle tutte verso gli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere.
Questa impostazione che permise al Partito comunista di diventare un grande partito nazionale di lavoratori, fu alla base della strategia politica del movimento comunista, non solo durante la lotta di liberazione ma anche negli anni successivi ed è tuttora la principale direttrice dell’azione comunista nel nostro paese.
La linea politica di Togliatti trova la piena consacrazione al V congresso nazionale del partito (gennaio 1946) che lo elegge segretario nazionale (sarà confermato in tutti í successivi congressi: ’48, ’51, ’56, ’60, ’62).
Nel 1946 viene eletto all’assemblea costituente (sarà rieletto deputato in tutte le successive consultazioni politiche: ’48, ’53, ’58, ’63).
Il 14 luglio 1948 a conclusione di una forsennata campagna terroristica dei democristiani e dei socialdemocratici, un criminale attenta alla vita di Togliatti. Il moto spontaneo di protesta che in tutto il paese si alza contro il “governo della guerra civile”, dimostra quanto profondamente sia amato il capo del Partito comunista. Negli anni che vanno dalla Liberazione alla morte, tre sono i principali filoni attorno ai quali si concentra l’interesse politico e teorico di Togliatti: la ricerca di una via italiana al socialismo con l’elaborazione di una conseguente strategia che tenga appunto conto delle particolarità nazionali del nostro paese; il problema dei rapporti con le masse cattoliche e con la Chiesa; il problema della pace e della lotta per allontanare il pericolo di una guerra totale che si concluderebbe con la fine di ogni forma di civiltà. Questi temi, acutamente elaborati ed approfonditi soprattutto dopo il XX congresso del Pcus e l’VIII del Pci, hanno trovato una sistemazione organica nell’ultimo scritto di Togliatti, alla cui stesura attese nei suoi ultimi giorni di vita. Il “memoriale di Yalta” rappresenta in un certo senso il punto d’approdo di una lunga elaborazione nella quale i diversi elementi si sono venuti intrecciando fino a costituire una totalità organica. Il problema centrale della nostra epoca, che è caratterizzata dal passaggio dal capitalismo al socialismo – argomenta Togliatti – è quello di evitare una guerra generale perché ”noi sappiamo che oggi un conflitto mondiale significherebbe la totale devastazione della maggior parte dell’odierno mondo civile”.
Di fronte a questo fatto ”la storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto. E una dimensione nuova acquista, di conseguenza, tutta la problematica dei rapporti tra gli uomini, le loro organizzazioni e gli Stati, in cui queste trovano il culmine”.
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Lev Trotskij
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Per contrastare il pericolo di guerra e battere l’aggressività dell’imperialismo, che rappresenta il pericolo più serio per la pace mondiale, è una imprescindibile necessità l’unità di tutte le forze socialiste in una azione comune, anche al di sopra delle divergenze ideologiche, contro i gruppi più reazionari dell’imperialismo.
Questa unità d’azione sui problemi concreti deve comprendere anche forze e gruppi politici che non si riconoscono nel socialismo, ma che tuttavia condividono le nostre stesse preoccupazioni per la pace mondiale. Nel nostro paese la più importante forza che può essere conquistata alla causa di un’azione comune è il mondo cattolico, che opera alle volte contrapposto, ma alle volte intrecciato in modo originale con il mondo comunista.
Fin dal 1954, quando già si disegnava la nuova situazione, Togliatti aveva rivolto un appello al mondo cattolico chiedendo se – pur restando nettamente distinte le due ideologie (la comunista e la cattolica), nel loro punto di partenza diverse – fosse possibile trovare la via di un contatto non solo occasionale per risolvere questioni politiche contingenti, ma di un incontro più profondo, da cui possa uscire un decisivo contributo alla creazione di questo ampio movimento per la salvezza della nostra civiltà, per impedire che il mondo civile venga spinto sulla strada della distruzione totale.
Questo incontro può essere proficuo di risultati anche nella edificazione della società socialista: « l’aspirazione a una società socialista non solo può farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma tale aspirazione può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa stessa, posta di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo ». Nel nostro paese si assiste ad uno spostamento a sinistra delle masse cattoliche che devono essere perciò comprese e aiutate.
“A questo scopo – scrive Togliatti nel memoriale di Yalta – non ci serve a niente la vecchia propaganda ateistica. Lo stesso problema della coscienza religiosa, del suo contenuto, delle sue radici tra le masse, e del modo di superarla, deve essere posto in modo diverso che nel passato, se vogliamo avere accesso alle masse cattoliche ed essere compresi da loro. Se no avviene che la nostra ” mano tesa ai cattolici ” viene intesa come un puro espediente e quasi come una ipocrisia”.
In Italia esistono condizioni oggettive favorevoli per una avanzata comunista sia nella classe operaia, sia tra le masse lavoratrici e nella vita sociale, in generale. “Ma è necessario saper cogliere e sfruttare queste condizioni. Per questo occorre ai comunisti avere molto coraggio politico, superare ogni forma di dogmatismo, affrontare e risolvere problemi nuovi in modo nuovo, usare metodi di lavoro adatti a un ambiente politico e sociale nel quale si compiono continue e rapide trasformazioni. Il punto di partenza per una avanzata verso il socialismo nel nostro paese è rappresentato da un esame approfondito delle specifiche condizioni della società italiana, della sua struttura, delle sue tradizioni, e da un movimento che, partendo da queste condizioni, abbia la sua originalità storica e politica. La dottrina della via italiana al socialismo, approfondita dopo il XX Congresso ha portato Togliatti a formulare la teoria del policentrismo (già abbozzata durante la guerra), secondo la quale in ogni paese governato dai comunisti possono e debbono influire in modo diverso le condizioni oggettive e soggettive, le tradizioni, le forme di organizzazione del movimento. Nel resto del mondo, vi sono paesi dove ci si vuole avviare al socialismo senza che i comunisti siano il partito dirigente. In altri paesi ancora, la marcia verso il socialismo è un obiettivo per il quale si concentrano sforzi che partono da movimenti diversi, che però spesso non hanno ancora raggiunto né un accordo né una comprensione reciproca. Il complesso del sistema diventa policentrico e nello stesso movimento comunista non si può parlare di una guida unica, bensì di un progresso che si compie seguendo strade spesso diverse”.
Un posto centrale nella elaborazione togliattiana della via italiana al socialismo occupano i problemi della democrazia e della libertà della cultura. Per quanto attiene alla democrazia egli ha decisamente respinto la pretesa di identificare la democrazia (la sola democrazia possibile!) con le forme politiche (formali) elaborate dalla società capitalistico-borghese, pur riconoscendo che alcune di queste forme, riempite di un nuovo contenuto, possono essere proficuamente utilizzate sia nella fase della conquista del potere che in quella successiva della sua gestione. Ma la democrazia del socialismo è qualcosa di diverso e di superiore alla democrazia borghese: essa è innanzitutto democrazia sociale e comporta l’eliminazione del potere assoluto di ristretti gruppi di capitalisti e la partecipazione cosciente alla vita politica ed alla gestione della casa pubblica di masse sempre più ampie di lavoratori e di cittadini. Non quindi una democrazia che si manifesti solo nel fatidico giorno delle elezioni in cui la sovranità torna al popolo che la esercita solo per delegarla ai ”suoi” rappresentanti, ma una continua e diretta partecipazione del popolo all’effettivo esercizio del potere. Per quanto si riferisce alla libertà della cultura nel suo rapporto al X congresso del partito Togliatti ha detto:
“Il marxismo è dottrina così ricca e sicura, che non teme, anzi sollecita il confronto con le altre correnti del pensiero moderno, così come non respinge, anzi sollecita, nelle correnti del pensiero premarxista, la ricerca dei germi e delle condizioni del proprio affermarsi e della propria verità. Il confronto con le altre correnti di pensiero non si può ridurre a una dogmatica precostituita condanna. Deve dar luogo a un dibattito di contenuto, a un dialogo, nel quale non può mancare la ricerca di quei momenti nuovi e positivi che vengono alla luce attraverso sviluppi di pensiero che aderiscano alle nuove realtà umane, sociali. Quanto più si è forti nei principi, tanto più si deve essere capaci di condurre questo dialogo e questa ricerca. Grande è quindi la responsabilità dei nostri compagni che sono uomini di studio e di cultura. Si tratta di responsabilità verso se stessi e verso tutto il partito, anche perché non riteniamo che spetti agli organi dirigenti politici risolvere con loro decisione suprema questioni specifiche dibattute nel campo degli studi, degli indirizzi e delle realizzazioni artistiche, letterarie, cinematografiche e così via. Il pensiero marxista, su questi problemi, fornisco un indirizzo generale, che si afferma nella lotta sul vasto terreno della cultura, contro tutto ciò che tende a negare il valore dell’uomo nella vita sociale e nella lotta per un mondo nuovo; ma che si afferma anche nella comprensione di tutti i termini in cui si pongono le questioni concrete e nella tolleranza verso chi sinceramente, per uno sviluppo e con una sofferenza interna e non per servire potenze retrive, si tormenta nella ricerca della verità”.
E, nel memoriale di Yalta, ha ribadito:
“Nel mondo capitalistico si creano condizioni ‘tali che tendono a distruggere la libertà della vita intellettuale. Dobbiamo diventare noi i campioni della libertà della vita intellettuale, della libera creazione artistica e del progresso scientifico. Ciò richiede che noi non contrapponiamo in modo astratto le nostre concezioni alle tendenze e correnti di diversa natura, ma apriamo un dialogo con queste correnti e attraverso di esso ci sforziamo di approfondire i temi della cultura, quali essi oggi si presentano. Non tutti coloro che, nei diversi campi della cultura, nella filosofia, nelle scienze storiche e sociali, sono oggi lontani da noi, sono nostri nemici o agenti del nostro nemico. È la comprensione reciproca, conquistata con un continuo dibattito, che ci dà autorità e prestigio, e nello tempo ci consente di smascherare i veri nemici, i falsi pensatori, i ciarlatani dell’espressione artistica e così via. In questo campo molto aiuto ci potrebbe venire, ma non sempre è venuto, dai paesi dove già dirigiamo tutta la vita sociale”.
Queste parole erano ancora fresche sulla carta quando Palmiro Togliatti veniva colpito dal malore che, nonostante tutti gli sforzi per salvarlo, lo avrebbe condotto alla morte il 21 agosto 1964. Il suo funerale, al quale ha partecipato un milione di italiani ha dimostrato quanto profondamente egli fosse amato dal suo popolo e quanto fortemente siano radicati in esso gli ideali per i quali ha combattuto per tutta la vita.
Senza essere un santo, Togliatti non ha peccato dell’unico peccato di cui possa macchiarsi un militante rivoluzionario. Egli ha tenuto per tutta la sua vita quel posto che a lui era affidato da un intreccio quasi fatale di fattori oggettivi e soggettivi che erano la storia del suo Paese, del movimento delle classi oppresse e della sua stessa persona.
Questi fattori, che pure lo trascendevano, egli ha conosciuto a fondo e fino all’ultimo si è sforzato di dominare nel corso di una lunga, intensa, esemplare vita di militante rivoluzionario interamente dedicata alla causa della liberazione degli uomini e del socialismo, per farlo occorrerebbe un’azione simultanea delle campagne e soprattutto una “azione nazionale”. Così egli poneva lo stato maggiore proletario di fronte alle proprie responsabilità, responsabilità che si era tentato di trasferire sul gruppo torinese.
La sconfitta registrata nell’occupazione delle fabbriche pose in maniera drammatica ed ultimativa il problema della permanenza dei riformisti all’interno del Partito socialista e della natura e della struttura stessa del partito. Il partito era praticamente paralizzato e annullato dalla vuota e fatalistica predicazione rivoluzionaria dei massimalisti e dallo spirito di capitolazione dei riformisti, che gli impedivano una qualsiasi azione politica di un qualche vigore. Per ridare al partito il suo slancio e metterlo in grado di assolvere ai suoi compiti era indispensabile l’allontanamento dei riformisti, che avrebbe consentito agli elementi comunisti di assumerne la direzione senza più ostacoli e remore. Al Congresso di Livorno la maggioranza massimalista preferì invece scindersi dai comunisti e dell’Internazionale per restare stretta ai riformisti. Togliatti, che era divenuto redattore capo dell’Ordine Nuovo, trasformatosi in quotidiano il 1° gennaio 1921, non fu presente a Livorno, essendo rimasto a Torino a dirigere il giornale, e non venne nemmeno eletto nel primo Comitato centrale del nuovo partito. Suo fu il primo commento alla scissione:
“Che avverrà domani? Noi questo non sappiamo, ma sappiamo che oggi, per noi, è giorno di propositi, di volontà, di azione”. Nell’estate Togliatti si sposta a Roma a dirigere “Il Comunista” nuovo organo centrale del partito. Al II Congresso del partito (Congresso di Roma) entra a far parte per la prima volta del Comitato centrale. Nell’ottobre è tra i pochi dirigenti comunisti presenti in Italia durante la marcia su Roma (Gramsci, Bordiga e Tasca sono a Mosca per il IV Congresso del Comintern). A Roma tenta invano di far uscire clandestinamente “Il Comunista” e, dopo il fallimento dei suoi tentativi, braccato dai fascisti, è inviato dal partito a Torino, dove fa uscire quasi quotidianamente, con la collaborazione di Alfonso Leonetti e di altri compagni, L’Ordine Nuovo clandestino (è questo, e molto tempo prima del “Non Mollare” generalmente indicato come il prima esempio di stampa clandestina antifascista, il primo e unico esempio di quotidiano clandestino nella storia d’Italia). Il 4 novembre tiene in un quartiere popolare di Torino un comizio notturno per celebrare il V anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Dopo le « stragi di dicembre » dirige per un certo periodo l’attività clandestina del partito a Torino, poi, a causa di una grave malattia, è costretto a sospendere ogni attività che riprenderà nel marzo 1923 quando, dopo l’arresto dell’organizzazione centrale viene chiamato a far parte del Comitato esecutivo. Nell’aprile, dopo la partenza di Terracini per Mosca, dirige l’attività del partito. Nell’agosto fonda “Lo Stato Operaio” (prima serie), primo giornale comunista che esca legalmente dopo il colpo di Stato fascista. Il 21 settembre viene arrestato per complotto contro la sicurezza dello Stato. Dopo tre mesi di detenzione verrà prosciolto in istruttoria. Nel ’23-’24 partecipa attivamente al dibattito promosso da Granisci per far uscire il partito dalle secche del settarismo bordighiano. Nel dibattito, Togliatti si muove inizialmente non senza qualche incertezza dettata dal timore che la rottura del gruppo dirigente espresso dal Congresso di Roma, favorisse la conquista della direzione del partito da parte degli elementi di destra guidati da Angelo Tasca. Accolte le tesi di Gramsci, Togliatti ne diviene il più autorevole portatore. Nel maggio 1924, alla Conferenza di Como, tiene il rapporto introduttivo criticando apertamente le bordighiane « Tesi di Roma ». Intervenendo nel dibattito egli sviluppa contro Bordiga una concezione del rapporto tra tattica e strategia, tra « governo operaio » e « dittatura proletaria » in netta opposizione con il settarismo fino allora dominante. « Noi siamo – dice – il partito della dittatura proletaria ma la dittatura del proletariato sarà una parola d’ordine solo nel momento in cui saremo riusciti a trascinare dietro di noi, a porre sul terreno della lotta per la conquista del potere le grandi masse della popolazione lavoratrice e non solo l’avanguardia che oggi è raccolta nei nostri partiti. Per giungere a quel momento bisogna saper costruire tutta una catena storica attraverso i suoi successivi ‘ anelli e quindi saper lanciare delle parole d’ordine adattate alla situazione in cui ci troviamo e ai rapporti di forze reali che troviamo dinanzi a noi ».
Togliatti fra i pionieri a Yalta pochi minuti prima del fatale attacco che lo avrebbe stroncato

Dal 17 giugno all’8 luglio partecipa a Mosca al V Congresso del Comintern (del cui esecutivo verrà chiamato a far parte). Nel suo intervento egli insiste tra l’altro sulla necessità di fare del Partito comunista un partito di masse, « il partito delle grandi masse operaie e delle grandi masse contadine ». Tornato in Italia è nuovamente arrestato il 2 aprile 1925 e sarà trattenuto in carcere fino al 29 luglio.

La lotta politica in Italia è giunta ormai ad una svolta decisiva. Il movimento di protesta popolare, che nei mesi successivi all’assassinio di Matteotti aveva scosso il regime fascista, è finito per esaurimento, tradito ancora una volta dallo spirito legalistico (anche nei confronti del fascismo!) e rinunciatario dei capi democratici che, attendendo l”intervento del re, hanno respinto sdegnosamente l”invito comunista a costituire l’Aventino in « antiparlamento » e a ricorrere alle masse per un’azione antifascista decisiva.. La paura di « principio » di una possibile insurrezione proletaria paralizzava il blocco aventiniano che offriva così al fascismo la possibilità di riprendere il pieno controllo della situazione. Il colpo di Stato del 3 gennaio rappresenta l’ultima, definitiva disfatta delle opposizioni la cui soppressione è ormai solo questione di tempo.

Nella severa polemica contro lo spirito rinunciatario del “blocco delle opposizioni”, Togliatti interviene con articoli sull’Unità in cui insiste sulla necessità per il proletariato di “non confondersi nel blocco degli oppositori impotenti”. È in questa duplice lotta contro il fascismo e contro l’opportunismo socialdemocratico che si colgono i risultati dell’intenso lavorio degli anni precedenti quando si era venuto formando il nuovo gruppo dirigente del partito. Nel vivo della lotta – sono parole di Togliatti – il gruppo dirigente è riuscito a “forgiare lo strumento che ci serve per questa lotta”. I1 partito ha acquistato un nuovo volto e il suo III Congresso (Lione) accoglie a stragrande maggioranza la nuova linea. È Togliatti che sotto la direzione di Gramsci prepara il documento principale del congresso (le “Tesi sulla situazione italiana e sui compiti del Pci”). “Per la prima volta un partito della classe operaia italiana, anziché limitarsi alle generali affermazioni di principio e alla polemica immediata con la classe dominante e col governo, affronta con freddezza e con una analisi storica e scientifica rigorosa le questioni della struttura sociale del paese e dello sviluppo del movimento operaio, fa un’analisi precisa del regime capitalistico italiano, delle sue debolezze organiche, delle loro conseguenze politiche e di tutta la politica reazionaria della borghesia italiana. In questo quadro colloca il fascismo e quindi esattamente lo definisce, per passare, quindi, con lo stesso rigore, ad analizzare quali sono le forze di classe e politiche che la stessa situazione oggettiva spinge nella direzione di una trasformazione socialista della società e quali sono gli alleati che la classe operaia trova nella sua lotta contro il capitalismo”.

Particolarmente attiva la presenza di Togliatti nel dibattito precongressuale. A Bordiga che nega la legittimità ideologica del vecchio gruppo ordinovista, divenuto gruppo dirigente del partito, Togliatti replica che la via seguita dal suo gruppo è quella stessa seguita a suo tempo da Marx ed Engels, “la via maestra e ha tutti i vantaggi dell’essere tale”. In questo contesto indicando quali sono gli errori da evitare, Togliatti definisce quale deve essere la natura e la funzione del partito: “sono da evitare due errori: 1° – l’errore di staccare il partito dalla classe operaia facendone qualcosa di diverso da essa e non soltanto la parte più decisa e dotata di più profonda coscienza e di più grande capacità politica; 2° – l’errore di staccare l’azione del partito dalle situazioni oggettive in cui esso si costituisce ed opera, e di considerare quindi la sua tattica come indipendente da esse, dalle loro modificazioni e dagli stessi spostamenti che si producono in seno alla classe operaia… noi affermiamo che il partito si accompagna alla classe operaia in tutte le posizioni intermedie che essa attraversa prima di giungere all’ultima – a quella che precede immediatamente la lotta per il potere. E accompagnarsi vuol dire adattare a queste posizioni le proprie parole d’ordine e la propria tattica. Per noi, operando in questo modo, il partito si trova, nel momento decisivo, alla testa della classe operaia”.

Al Congresso Togliatti è relatore sulla questione sindacale, viene rieletto nel Comitato centrale, ed entra a far parte dell’Ufficio politico e dell’Ufficio di segreteria; viene inoltre designato come rappresentante del partito nel Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista a Mosca dove entra a far parte del segretariato del Comintern.

Si colloca in questo periodo il “conflitto” con Gramsci a proposito dell’atteggiamento che il Partito comunista dell’Urss avrebbe dovuto tenere nei confronti del blocco delle opposizioni (Trotskij, Zinoviev, Kamenev ecc. ), “conflitto” che è servito di base ad annose speculazioni per sostenere una sostanziale diversità tra le posizioni di Gramsci e quelle di Togliatti. Gramsci, pur accogliendo le posizioni della maggioranza del Pcus (Stalin, Bucharin ecc. ) esprimeva la sua preoccupazione di fronte al rischio di una frattura definitiva che spaccasse in due il partito sovietico. Da Mosca, Togliatti gli rispose che il problema essenziale per i comunisti italiani era quello dell’accordo sulla linea politica del partito sovietico, e della condanna delle posizioni errate degli oppositori. La preoccupazione di Gramsci (alla luce anche degli sviluppi tragici del conflitto tra i dirigenti sovietici) appare dettata da un altissimo senso di responsabilità. Ma al punto in cui si era giunti appariva estremamente difficile giungere ad una composizione di compromesso del conflitto, ed anzi, come realisticamente suggeriva Togliatti, l’unica soluzione possibile consisteva nell’isolamento politico, anche sul piano internazionale, del gruppo degli oppositori alla linea generale del Comitato centrale. Il “conflitto” tra Gramsci e Togliatti ebbe termine con lo scambio delle lettere.

Gramsci, identificato dalla polizia la notte del 31 ottobre (dopo l’attentato Zamboni ) mentre da Milano cercava di espatriare per recarsi a Mosca a partecipare ai lavori dell’Esecutivo allargato del Comintern che avrebbe dovuto discutere il conflitto tra i dirigenti sovietici, venne rinviato a Roma dove, pochi giorni dopo venne tratto in arresto.

Togliatti, rimasto, dopo l’arresto di Gramsci e le leggi eccezionali, il maggior dirigente del partito, si spostò nel gennaio del 1927 in Francia per dirigere il lavoro del Centro estero del Pci. Da questo momento egli assicura al partito una guida efficace ed autorevole che gli consentirà di superare gli anni difficili della clandestinità dalla quale il Pci uscirà con le caratteristiche di un grande partito di massa che affonda profondamente le sue radici nella coscienza della classe lavoratrice e di tutto il popolo italiano. Nel marzo ’27 Togliatti fonda a Parigi “Lo Stato operaio” (seconda serie), rivista teorica del partito. Nel luglio 1928 al VI Congresso del Comintern è relatore con Kuusinen sui problemi del movimento di liberazione dei popoli coloniali. Togliatti si è ormai imposto come un dirigente di primo piano del movimento comunista internazionale. Al centro del suo rapporto egli pone la critica dell’impostazione data dalla socialdemocrazia al problema coloniale e l’approfondimento dei problemi di fondo che si sarebbero poi posti con estrema urgenza nel secondo dopoguerra e che ancora oggi rappresentano l’elemento decisivo della lotta, i problemi cioè dell’appoggio ai movimenti contadini dei paesi del Terzo mondo e ai movimenti nazionali rivoluzionari, e del rapporto tra movimenti comunisti e movimenti rivoluzionari borghesi.

In questo periodo Togliatti approfondisce anche il problema del rapporto tra democrazia e socialismo rivendicando fermamente la fondamentalità delle libertà democratiche nella lotta della classe operaia per la conquista del potere: “secondo l’economicismo – scriverà nello Stato operaio – gli operai non avrebbero dovuto occuparsi che dei loro interessi immediati, lasciando alla borghesia e piccola borghesia democratica di condurre la lotta per le rivendicazioni politiche – democratiche – contro l’autocrazia. Per noi comunisti invece la lotta politica contro il fascismo deve avere come punto di partenza la organizzazione e mobilitazione del proletariato sul terreno di classe, ed è attorno al proletariato che le altre categorie e correnti antifasciste devono unirsi se vogliono combattere il fascismo in modo efficace. È questo, per noi, un criterio fondamentale il quale vale non soltanto per la situazione odierna, che è’ quella in cui si inizia la lotta dalle forme più , elementari, ma vale per tutti i momenti successivi di essa, sino al momento supremo, quello della insurrezione antifascista”.

Questa piattaforma di lotta unitaria (che sarebbe stata ripresa negli anni successivi) fu però lasciata cadere a causa degli sviluppi della situazione, soprattutto per l’impostazione che le altre forze antifasciste, raccolte nella “Concentrazione” di Parigi, pretendevano di dare alla lotta, con il rifiuto di continuare la lotta clandestina in Italia dove ormai – si diceva – non c’era più nulla da fare. Il deciso spostamento a destra della socialdemocrazia provocò nel campo comunista internazionale uno spostamento a sinistra che portò all’identificazione di fascismo e socialdemocrazia con la discussa dottrina del socialfascismo.

Dopo aver concordemente epurato il partito dagli elementi liquidatori di destra (Tasca, che sarebbe finito ignominiosamente collaborazionista a Vichy) e settari di sinistra (Bordiga, il quale, liberato dal confino; visse tranquillamente nell’Italia fascista senza mai tentare di opporsi al regime mussoliniano), il gruppo dirigente del partito si spaccò sul problema del rapporto con le altre formazioni antifasciste e sulla analisi della situazione italiana che la maggioranza .- tenendo conto di un accentuato risveglio delle masse e della crisi generale che stava sconvolgendo il mondo capitalistico – definitiva, forse troppo ottimisticamente, rivoluzionaria. Togliatti guidò ancora una volta la lotta contro l’opposizione che venne estromessa dal partito (Leonetti, Ravazzoli, Tresso, e, successivamente, Tranquilli-Silone). Oggi si può discutere quale fosse allora la posizione più aderente alla realtà. È però certo che ancora una volta la scelta di Togliatti avvenne nel senso dello sviluppo storico. In quella situazione accettare le tesi dell’opposizione avrebbe significato, certamente, l’estromissione dal partito e dall’Internazionale e Togliatti sapeva troppo bene che fuori del movimento internazionale non esistevano possibilità di lotta per la causa dell’emancipazione del proletariato. D’altra parte che la scelta dell’intensificazione del lavoro in direzione dell’Italia fosse giusta, al di là della validità dell’analisi su cui veniva fondata, è dimostrato dal fatto che è proprio in quel periodo che, con la sua presenza segnata dal sacrificio di centinaia di quadri e di migliaia di militanti, il partito si radica profondamente nella realtà del nostro paese e pone le condizioni indispensabili per diventare un partito di massa, il partito di avanguardia della classe lavoratrice e di tutto il popolo italiano.

Alcuni sostengono che la linea scelta da Togliatti e dalla maggioranza del Comitato centrale non fosse condivisa da Gramsci. Su questa base si è cercato in tempi recenti di montare una speculazione anche su questo « dissidio ». La testimonianza resa da Gennaro Gramsci, che venne incaricato dal partito di informare il fratello dei termini del dibattito, è però sufficiente a far crollare la speculazione. Gennaro Gramsci, infatti, tornato a Parigi, dichiarò a Togliatti che Antonio era pienamente d’accordo con la linea della maggioranza. La certezza di avere l’adesione di Gramsci rafforzò in Togliatti la convinzione che la sua linea fosse quella giusta. Un ulteriore rafforzamento alle posizioni di Togliatti venne dal IV Congresso del partito che si svolse nel 1931 in Germania: Comunque, quando le tesi prevalse nel dibattito del 1930 si dimostrarono sostanzialmente errate, Togliatti fu tra i primi che seppe rimediare agli errori del passato portando avanti con indomabile energia la politica dei fronti popolari della quale divenne il più acuto ed autorevole teorico. Questa nuova politica – che era stata inaugurata ne: 1934 con il patto d’unità d’azione tra comunisti e socialisti (questi ultimi si erano venuti riqualificando in senso classista e rivoluzionario per merito soprattutto del “Centro interno socialista” diretto da Morandi) – divenne indispensabile quando più pericolosi si fecero i sintomi di guerra imminente. « Nella lotta per la pace, contro la guerra imperialista, per la difesa dell’Unione Sovietica – dirà nel rapporto tenuto nel ’35 al VII congresso del Comintern -, il nostro compito politico immediato, fondamentale, consiste nel creare il più largo fronte unitario delle masse operaie e contadine, della piccola borghesia, degli intellettuali. È precisamente in questo campo, è nel campo della lotta per la pace che la nostra politica di fronte unitario può registrare i maggiori successi ».

Ma gli avvenimenti precipitano: l’Italia invade l’Etiopia, i generali traditori appoggiati dal nazifascismo insorgono contro il governo legittimo della Repubblica spagnola. Dal luglio 1937 al luglio 1939 Togliatti è in Spagna, rappresentante del Comintern presso il Partito comunista spagnolo. Cessata l’eroica resistenza del popolo spagnolo, Togliatti riesce -a sfuggire all’internamento in Francia e raggiunge l’Unione Sovietica da dove, durante la guerra, rivolgerà i famosi “discorsi agli italiani” sotto il nome di Mario Correnti. I1 27 marzo 1944 sbarca a Napoli.

La situazione politica nell’Italia liberata è estremamente caotica, e le sue ripercussioni si fanno risentire anche sulla conduzione della guerra di Liberazione nelle zone occupate dai nazisti. Ogni forma di collaborazione tra il governo in carica e i gruppi antifascisti era impedita dall’irrigidimento sulla questione istituzionale. Togliatti taglia questo nodo dichiarando che l’imperativo del momento è la lotta contro il nazifascismo e che le responsabilità della monarchia sarebbero state giudicate a liberazione avvenuta dall’intero popolo italiano. La svolta di Salerno apriva la strada ad una utile collaborazione tra tutte le forze antifasciste. Il Partito comunista, in tal modo si imponeva come il partito dirigente di tutto :1 popolo italiano, come il partito capace di rappresentare le istanze politiche e sociali più avanzate non solo della classe operaia ma di tutto il popolo lavoratore nel suo complesso.
“Nessuna politica – scriveva Togliatti, nel primo numero di “Rinascita”, la rivista da lui fondata nel giugno 1944 – può essere realizzata senza un partito il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nel popolo, di guidare tutto il popolo a realizzarla”. Per assolvere a questo compito era necessario un partito di  tipo nuovo capace di raccogliere in un solo organismo tutte le correnti politiche proletarie attualmente esistenti. Partito nuovo – preciserà in un altro articolo su “Rinascita” – è un partito della classe operaia e del popolo il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda, ma interviene nella vita del paese con una attività positiva e costruttiva la quale, incominciando dalla cellula di fabbrica e di villaggio, deve arrivare fino al Comitato centrale, fino agli uomini che deleghiamo a rappresentare la classe operaia e il partito nel governo… un partito il quale sia capace di tradurre nella sua politica, nella sua organizzazione e nella sua attività di tutti i giorni quel profondo cambiamento che è avvenuto nella posizione della classe operaia rispetto ai problemi della vita nazionale. La classe operaia, abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico… Il partito nuovo che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema della emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione”. Un partito di questo tipo avrebbe dovuto essere un grande partito di masse, una grande organizzazione “la quale abbia nelle proprie file tutti gli elementi che sono necessari per stabilire dei contatti con tutte le categorie del popolo italiano e per dirigerle tutte verso gli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere”.

Questa impostazione che permise al Partito comunista di diventare un grande partito nazionale di lavoratori, fu alla base della strategia politica del movimento comunista, non solo durante la lotta di liberazione ma anche negli anni successivi ed è tuttora la principale direttrice dell’azione comunista nel nostro paese.

La linea politica di Togliatti trova la piena consacrazione al V congresso nazionale del partito (gennaio 1946) che lo elegge segretario nazionale (sarà confermato in tutti í successivi congressi: ’48, ’51, ’56, ’60, ’62). Nel 1946 viene eletto all’assemblea costituente (sarà rieletto deputato in tutte le successive consultazioni politiche: ’48, ’53, ’58, ’63). Il 14 luglio 1948 a conclusione di una forsennata campagna terroristica dei democristiani e dei socialdemocratici, un criminale attenta alla vita di Togliatti. Il moto spontaneo di protesta che in tutto il paese si alza contro il governo della guerra civile, dimostra quanto profondamente sia amato il capo del Partito comunista.

Negli anni che vanno dalla Liberazione alla morte, tre sono i principali filoni attorno ai quali si concentra l’interesse politico e teorico di Togliatti: la ricerca di una via italiana al socialismo con l’elaborazione di una conseguente strategia che tenga appunto conto delle particolarità nazionali del nostro paese; il problema dei rapporti con le masse cattoliche e con la Chiesa; il problema della pace e della lotta per allontanare il pericolo di una guerra totale che si concluderebbe con la fine di ogni forma di civiltà. Questi temi, acutamente elaborati ed approfonditi soprattutto dopo il XX congresso del Pcus e l’VIII del Pci, hanno trovato una sistemazione organica nell’ultimo scritto di Togliatti, alla cui stesura attese nei suoi ultimi giorni di vita. Il  memoriale di Yalta rappresenta in un certo senso il punto d’approdo di una lunga elaborazione nella quale i diversi elementi si sono venuti intrecciando fino a costituire una totalità organica.

Il problema centrale della nostra epoca, che è caratterizzata dal passaggio dal capitalismo al socialismo – argomenta Togliatti – è quello di evitare una guerra generale perché “noi sappiamo che oggi un conflitto mondiale significherebbe la totale devastazione della maggior parte dell’odierno mondo civile”. Di fronte a questo fatto “la storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto. E una dimensione nuova acquista, di conseguenza, tutta la problematica dei rapporti tra gli uomini, le loro organizzazioni e gli Stati, in cui queste trovano il culmine”. Per contrastare il pericolo di guerra e battere l’aggressività dell’imperialismo, che rappresenta il pericolo più serio per la pace mondiale, è una « imprescindibile necessità » « l’unità di tutte le forze socialiste in una azione comune, anche al di sopra delle divergenze ideologiche, contro i gruppi più reazionari dell’imperialismo ». Questa unità d’azione sui problemi concreti deve comprendere anche forze e gruppi politici che non si riconoscono nel socialismo, ma che tuttavia condividono le nostre stesse preoccupazioni per la pace mondiale. Nel nostro paese la più importante forza che può essere conquistata alla causa di un’azione comune è il mondo cattolico, che opera alle volte contrapposto, ma alle volte intrecciato in modo originale con il mondo comunista. Fin dal 1954, quando già si disegnava la nuova situazione, Togliatti aveva rivolto un appello al mondo cattolico chiedendo se – pur restando nettamente distinte le due ideologie (la comunista e la cattolica), “nel loro punto di partenza diverse” – fosse possibile « trovare la via di un contatto non solo occasionale per risolvere questioni politiche contingenti, ma di un incontro più profondo, da cui possa uscire un decisivo contributo alla creazione di questo ampio movimento per la salvezza della nostra civiltà, per impedire che il mondo civile venga spinto sulla strada della distruzione totale ». Questo incontro può essere proficuo di risultati anche nella edificazione della società socialista: « l’aspirazione a una società socialista non solo può farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma tale aspirazione può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa stessa, posta di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo ». Nel nostro paese si assiste ad uno spostamento a sinistra delle masse cattoliche che devono essere perciò comprese e aiutate. “A questo scopo – scrive Togliatti nel memoriale di Yalta – non ci serve a niente la vecchia propaganda ateistica. Lo stesso problema della coscienza religiosa, del suo contenuto, delle sue radici tra le masse, e del modo di superarla, deve essere posto in modo diverso che nel passato, se vogliamo avere accesso alle masse cattoliche ed essere compresi da loro. Se no avviene che la nostra” mano tesa ai cattolici “viene intesa come un puro espediente e quasi come una ipocrisia”. In Italia esistono condizioni oggettive favorevoli per una avanzata comunista sia nella classe operaia, sia tra le masse lavoratrici e nella vita sociale, in generale. “Ma è necessario saper cogliere e sfruttare queste condizioni. Per questo occorre ai comunisti avere molto coraggio politico, superare ogni forma di dogmatismo, affrontare e risolvere problemi nuovi in modo nuovo, usare metodi di lavoro adatti a un ambiente politico e sociale nel quale si compiono continue e rapide trasformazioni”.

“Il punto di partenza per una avanzata verso il socialismo nel nostro paese è rappresentato da un esame approfondito delle specifiche condizioni della società italiana, della sua struttura, delle sue tradizioni, e da un movimento che, partendo da queste condizioni, abbia la sua originalità storica e politica. La dottrina della via italiana al socialismo, approfondita dopo il XX Congresso ha portato Togliatti a formulare la teoria del ‘policentrismo’ (già abbozzata durante la guerra), secondo la quale  “in ogni paese governato dai comunisti possono e debbono influire in modo diverso le condizioni oggettive e soggettive, le tradizioni, le forme di organizzazione del movimento. Nel resto del mondo, vi sono paesi dove ci si vuole avviare al socialismo senza che i comunisti siano il partito dirigente. In altri paesi ancora, la marcia verso il socialismo è un obiettivo per il quale si concentrano sforzi che partono da movimenti diversi, che però spesso non hanno ancora raggiunto né un accordo né una comprensione reciproca. Il complesso del sistema diventa policentrico e nello stesso movimento ‘comunista non si può parlare di una guida unica, bensì di un progresso che si compie seguendo strade spesso diverse”.

Un posto centrale nella elaborazione togliattiana della via italiana al socialismo occupano i problemi della democrazia e della libertà della cultura.

Per quanto attiene alla democrazia egli ha decisamente respinto la pretesa di identificare la democrazia (la sola democrazia possibile!) con le forme politiche (formali) elaborate dalla società capitalistico-borghese, pur riconoscendo che alcune di queste forme, riempite di un nuovo contenuto, possono essere proficuamente utilizzate sia nella fase della conquista del potere che in quella successiva della sua gestione. Ma la democrazia del socialismo è qualcosa di diverso e di superiore alla democrazia borghese: essa è innanzitutto democrazia sociale e comporta l’eliminazione del potere assoluto di ristretti gruppi di capitalisti e la partecipazione cosciente alla vita politica ed alla gestione della casa pubblica di masse sempre più ampie di lavoratori e di cittadini. Non quindi una democrazia che si manifesti solo nel fatidico giorno delle elezioni in cui la sovranità torna al popolo che la esercita solo per delegarla ai « suoi » rappresentanti, ma una continua e diretta partecipazione del popolo all’effettivo esercizio del potere.

Per quanto si riferisce alla libertà della cultura nel suo rapporto al X congresso del partito Togliatti ha detto: “Il marxismo è dottrina così ricca e sicura, che non teme, anzi sollecita il confronto con le altre correnti del pensiero moderno, così come non respinge, anzi sollecita, nelle correnti del pensiero premarxista, la ricerca dei germi e delle condizioni del proprio affermarsi e della propria verità. Il confronto con le altre correnti di pensiero non si può ridurre a una dogmatica precostituita condanna. Deve dar luogo a un dibattito di contenuto, a un dialogo, nel quale non può mancare la ricerca di quei momenti nuovi e positivi che vengono alla luce attraverso sviluppi di pensiero che aderiscano alle nuove realtà umane, sociali. Quanto più si è forti nei principi, tanto più si deve essere capaci di condurre questo dialogo e questa ricerca. Grande è quindi la responsabilità dei nostri compagni che sono uomini di studio e di cultura. Si tratta di responsabilità verso se stessi e verso tutto il partito, anche perché non riteniamo che spetti agli organi dirigenti politici risolvere con loro decisione suprema questioni specifiche dibattute nel campo degli studi, degli indirizzi e delle realizzazioni artistiche, letterarie, cinematografiche e così via. Il pensiero marxista, su questi problemi, fornisco un indirizzo generale, che si afferma nella lotta sul vasto terreno della cultura, contro tutto ciò che tende a negare il valore dell’uomo nella vita sociale e nella lotta per un mondo nuovo; ma che si afferma anche nella comprensione di tutti i termini in cui si pongono le questioni concrete e nella tolleranza verso chi sinceramente, per uno sviluppo e con una sofferenza interna e non per servire potenze retrive, si tormenta nella ricerca della verità”. E, nel memoriale di Yalta, ha ribadito: “Nel mondo capitalistico si creano condizioni ‘tali che tendono a distruggere la libertà della vita intellettuale. Dobbiamo diventare noi i campioni della libertà della vita intellettuale, della libera creazione artistica e del progresso scientifico. Ciò richiede che noi non contrapponiamo in modo astratto le nostre concezioni alle tendenze e correnti di diversa natura, ma apriamo un dialogo con queste correnti e attraverso di esso ci sforziamo di approfondire i temi della cultura, quali essi oggi si presentano. Non tutti coloro che, nei diversi campi della cultura, nella filosofia, nelle scienze storiche e sociali, sono oggi lontani da noi, sono nostri nemici o agenti del nostro nemico. È la comprensione reciproca, conquistata con un continuo dibattito, che ci dà autorità e prestigio, e nello tempo ci consente di smascherare i veri nemici, i falsi pensatori, i ciarlatani dell’espressione artistica e così via. In questo campo molto aiuto ci potrebbe venire, ma non sempre è venuto, dai paesi dove già dirigiamo tutta la vita sociale”.

Queste parole erano ancora fresche sulla carta quando Palmiro Togliatti veniva colpito dal malore che, nonostante tutti gli sforzi per salvarlo, lo avrebbe condotto alla morte il 21 agosto 1964. Il suo funerale, al quale ha partecipato un milione di italiani ha dimostrato quanto profondamente egli fosse amato dal suo popolo e quanto fortemente siano radicati in esso gli ideali per i quali ha combattuto per tutta la vita.

Senza essere un santo, Togliatti non ha peccato dell’unico peccato di cui possa macchiarsi un militante rivoluzionario. Egli ha tenuto per tutta la sua vita “quel posto che a lui era affidato da un intreccio quasi fatale di fattori oggettivi e soggettivi che erano la storia del suo Paese, del movimento delle classi oppresse e della sua stessa persona”.
Questi fattori, che pure lo trascendevano, egli ha conosciuto a fondo e fino all’ultimo si è sforzato di dominare nel corso di una lunga, intensa, esemplare vita di militante rivoluzionario interamente dedicata alla causa della liberazione degli uomini e del socialismo.

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