GIUSEPPE DI VITTORIO – Sindacalista italiano

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Un bracciante agricolo di otto anni, un bambino, dunque, una sera d’estate, dopo aver fatto anche lui le sue dodici ore di lavoro, si accodò ai compagni più adulti, che, nel dormitorio di una “cafoneria” di Cerignola, sfilavano davanti al camino fumoso in fondo al camerone.

Con il “cravatto” in mano, ossia una ciotola di terracotta grezza riempita di pane a pezzetti, anche lui aspettava di poter versare su quel pane due mestoli d’acqua bollente salata, l’acqua sale: più in là, il capo della masseria, il rappresentante del padrone, avrebbe avaramente aggiunto di sua mano, su quel pastone, come condimento, una filiforme croce di olio di oliva.

Così, per cinque anni, si ripete l’umiliante cerimonia.

“Quanto è poco, quest’olio – dice spontaneamente il ragazzino divenuto tredicenne rivolgendosi agli altri braccianti, ai suoi compagni di lavoro, uomini già fatti, – perchè non ce ne facciamo dare di più? Se glielo chiediamo tutti, mica ci possono dire di no”.

In tal modo, avanzando con questa estrema naturalezza, semplicità e forza una rivendicazione così elementare, Giuseppe Di Vittorio, adolescente, comincia la sua carriera di sindacalista, di difensore degli sfruttati, di vendicatore di ogni sopruso, di ogni ingiustizia contro i lavoratori. Una carriera prestigiosa, che lo vedrà, nel corso di mezzo secolo, capolega dei braccianti di Cerignola, segretario della Camera del lavoro di Minervino Murge e poi di quella di Bari, parlamentare proletario di Puglia, capo dell’Associazione nazionale per la difesa dei contadini, combattente garibaldino per la libertà del popolo spagnolo, militante antifascista in Italia e in Francia, dirigente tra i più popolari del Partito comunista, uomo della Resistenza, presidente della Federazione sindacale mondiale e infine, ma soprattutto, Segretario generale, anzi artefice, della CGIL unitaria.

Una personalità così ricca, traboccante, complessa, non sopporta una definizione che la contenga tutta e la esaurisca: Di Vittorio sfugge alle definizioni. Eppure, c’è un segno inconfondibile, caratteristico della sua opera, un segno per cui Di Vittorio ha fatto storia, nel senso che appartiene e rimane nella storia del paese intero, dell’Italia, e non solo nella storia delle classi subalterne, del movimento sindacale e operaio. E ciò proprio perchè la sua è una figura. di quelle che simboleggiano il passaggio della classe lavoratrice italiana dalla condizione di classe oppressa, confinata nella ribellione subalterna, alla posizione di classe che si fa egemone del processo storico-politico italiano, di classe nazionale, di classe dirigente, di governo. Il segno che egli ha lasciato è quello che ci consente di ricordare oggi Di Vittorio alfiere dell’unità sindacale, dell’unità proletaria, dell’unità delle masse popolari, dell’unità nazionale.

Il grande cerignolano traeva la sua forza principale oltreché dal nativo talento, in primo luogo dalla sua origine sociale – come egli stesso teneva sempre a ricordare; dal fatto cioè di essere un bracciante nato da una famiglia di poveri braccianti pugliesi, sui quali gravava non solo il peso, antico, di una miseria di secoli, ma anche quello, recente, di una politica di oppressione antisindacale, antioperaia e anticontadina, quale quella che era in atto nell’Italia del tempo, l’Italia crispina.

Egli nasce l’11 agosto 1892 a Cerignola, in provincia di Foggia, e la povertà della sua famiglia gli consente di andare a scuola fino alla seconda elementare. Come egli non temeva di ricordare, fu un autodidatta: « Il mio liceo è stato l’esilio – diceva – e il carcere la mia università ».

La Lega contadini del suo paese natio lo elegge nel 1907, cioè a quindici anni, nel Comitato direttivo in rappresentanza dei giovani, e due anni dopo, al congresso costitutivo della Federazione regionale pugliese della gioventù socialista, viene eletto segretario. Ma la sua attività è sempre di natura sindacale, e nel 1911, infatti, i lavoratori di Minervino Murge lo vogliono come segretario della loro Camera del lavoro. In quello stesso anno, nel corso di uno sciopero bracciantile per ottenere le otto ore, viene arrestato e incarcerato per tre mesi nelle prigioni di Lucera.

Di Vittorio comincia dunque a pagare di persona, dall’età di diciannove anni, la sua attività di organizzatore instancabile della lotta di tutti coloro che soffrivano la sua medesima condizione. Una condizione intollerabile, inumana, anticristiana, per chiamarla con gli aggettivi a lui consueti; una condizione contro cui Di Vittorio si ribellava perché, prima di ogni altra cosa, offendeva l’uomo come tale, il lavoratore in quanto uomo, e perchè discriminava la classe lavoratrice sul piano dei diritti civili, dei diritti di natura, condannandola a uno stato di inferiorità rispetto a tutti gli altri cittadini.

Fu questa accesa passione, questa rabbia, questo slancio umano a determinare in Di Vittorio l’insoddisfazione, e poi la critica pratica, verso i metodi, le concezioni, la politica di tipo riformistico e corporativo, che caratterizzavano allora l’azione – per certi aspetti meritoria, tuttavia, come anch’egli sempre riconobbe – della vecchia Confederazione del lavoro; e a fargli ritenere di poterne provocare il rinnovamento o, in caso contrario, di sostituirla, con l’anarco-sindacalismo. Ecco perchè il socialista Di Vittorio tra i diciotto e i venti anni abbraccia le idee di Sorel e di Arturo Labriola, di Salvemini e di De Ambris, diventa sindacalista rivoluzionario, è amico di Masotti, di Malatesta, di Borghi e, più tardi, dello stesso Corridoni. Egli rimane certo un socialista, ma nell’animo è un libertario e fino intorno al 1920 milita nelle file dell’Unione sindacale italiana, l’organizzazione sindacalista rivoluzionaria, portandosi dietro quasi tutto il movimento sindacale pugliese. Ma al momento della costituzione dell’USI, che avviene a Modena nel 1912, appare quel segno inconfondibile di tutta l’opera di Di Vittorio, il segno dell’unità. In quell’anno egli si trovava di nuovo in carcere, e quando apprese della nascita dell’organizzazione anarco-sindacalista, dal carcere fece sapere che in Puglia egli avrebbe seguito questa linea: se la maggioranza dei lavoratori di una lega, di un sindacato o di una Camera del lavoro decidevano di aderire all’Unione sindacale italiana, bene; ma se i lavoratori che volevano uscire dalla CGIL erano una minoranza, allora non si doveva scindere in due l’organizzazione dei confederali riformisti, bensì costituire una sezione autonoma all’interno di essa, senza crearne un’altra. A questo modo, in tutta la Puglia, grazie a Di Vittorio il principio dell’unità sindacale non venne infranto.

L’amnistia politica, che strumentalmente il governo concesse al principio del 1915 in vista dell’entrata in guerra, mette fuori dal carcere Di Vittorio, che era implicato in una serie di processi per le numerose agitazioni sindacali che egli aveva organizzato e diretto o alle quali aveva partecipato (tra cui quella, terribile e cruenta, della settimana rossa, nel giugno del 1914), e gli permette di rientrare dall’esilio di Lugano. Ma appena messo piede in Italia, è chiamato alle armi e assegnato a Roma, al 1° reggimento bersaglieri. Il “senza patria” è mandato in trincea e combatte sul Carso, sull’Altipiano dei sette comuni, nel Trentino, dove, alle pendici del Monte Zebio viene ferito gravemente, tanto da venir dichiarato inabile alle fatiche di guerra. Ma sin dall’ospedale egli è sotto vigilanza, e infine, per la sua precedente attività di oratore e di giornalista contro i capi dell’esercito e contro la politica di guerra della borghesia, la polizia lo segnala come « sovversivo pericoloso » al comando dell’unità d, cui Di Vittorio faceva parte. Egli viene allora trasferito in una compagnia speciale di disciplina all’isola della Maddalena, in Sardegna, di là in Sicilia e poi a Porto Bardia, ultimo presidio italiano in Cirenaica al confine con l’Egitto. Qui rimane fin quando non viene congedato, alla fine del 1918. Tornato « in borghese », Di Vittorio riprende subito il suo posto di dirigente sindacale in Puglia. Sono gli anni 1919-1920, il biennio rosso. In questo periodo più che in ogni altro, il bracciante pugliese, l’anarco-sindacalista Di Vittorio si interroga e cerca la strada della rivoluzione anticapitalistica, la strada della rivoluzione proletaria. Egli si va accorgendo che lo strumento sindacale non basta; sente che il sindacato, anche proteso nella sua azione diretta, è incapace di dare espressione compiuta ed efficace, di aprire uno sbocco positivo e costruttivo a quelle aspirazioni delle masse che sono neglette dal riformismo. Soprattutto, l’agitatore entusiasta, il tribuno generoso avverte il pericolo dell’isterilimento. E si fa così luce via via in lui la virtù politica della prudenza, la quale affina e trasforma la dote – naturale – dell’intuizione pronta, lampeggiante, geniale (ma talvolta troppo rapida e persino frettolosa) nella capacità – acquisita – di verificare, di controllare con acume critico le esperienze fatte e i principi già ritenuti certi, le categorie di giudizio politico credute valide. In questi anni diviene insomma più assidua e più attenta in Di Vittorio la ricerca dell’incontro con una politica rivoluzionaria, a mano a mano che il sorelismo mostra la corda e lo stesso socialismo antiriformista, massimalista, al pari del socialriformismo – come anche i democratici radicaleggianti, l’intellettualità meridionalista e il popolarismo antigiolittiano di Sturzo – fanno naufragio. Nessuno di essi, cioè, sa essere l’avanguardia politica di un movimento popolare e proletario che, dopo la Rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, e immediatamente dopo la fine della guerra, era cresciuto in maniera possente fino ad assumere, nel corso di brevissimi anni, uno sviluppo esplosivo: sul terreno sindacale e su quello politico.

Da queste insufficienze, da questo combinarsi di incapacità e di impotenza politica, venne fuori il caos, venne l’avventura fascista. L’ultima ondata dell’offensiva proletaria, l’occupazione delle fabbriche del 1920, stante tutto ciò, rifluisce: cominciano gli anni del « martirio del proletariato ». Nel febbraio del 1921 Di Vittorio si fa promotore di uno sciopero generale antifascista in tutta la Puglia, che riesce, ma poche settimane dopo egli è arrestato e inviato di nuovo in carcere a Lucera. Vi resta poco tempo però perchè i lavoratori pugliesi alle elezioni politiche del maggio 1921, gli restituiscono la libertà, eleggendolo deputato nella lista socialista appoggiata dai voti del giovane Partito comunista, sorto quattro mesi prima. Di fronte al dilagare delle aggressioni fasciste, tutte le organizzazioni sindacali e politiche del proletariato e della sinistra costituiscono nel 1922 l’Alleanza del lavoro, nel cui comitato dirigente Di Vittorio viene eletto in rappresentanza delle Camere del lavoro di Bari e di altre città pugliesi. Ed è proprio l’Alleanza del lavoro che, per porre una diga al terrore fascista decide lo sciopero generale antifascista dell’agosto. L’iniziativa non ebbe, nell’insieme del paese, il successo che meritava. In talune zone tuttavia la sua riuscita fu plebiscitaria, come a Bari e in Puglia. I fascisti pugliesi concentrati a Bari, con rinforzi emiliani, non riuscirono a penetrare in Bari vecchia e tanto meno a occupare la Camera del lavoro, essendo stati respinti e messi in fuga dagli Arditi del popolo e dalle masse lavoratrici baresi. La Camera del lavoro di Bari fu tra quelle poche che le squadre fasciste non riuscirono mai a occupare, prima che il fascismo s’impadronisse del potere. E quando questo evento si compie, Di Vittorio è ormai maturo per compiere il suo passo politico decisivo.

Quanto gli avevano insegnato la sua opera e la sua esperienza di dirigente sindacale; quella ribellione netta e radicalissima contro le iniquità e le prevaricazioni insite nel sistema sociale borghese; quell’impulso inesauribile a dare una battaglia senza quartiere, senza patteggiamenti di comodo e compromessi servili, contro l’aspetto capitalistico; tutto ciò aveva bisogno della mediazione della politica, e però di una determinata politica, cioè di una politica effettivamente rivoluzionaria e di una organizzazione politica che la incarnasse. Di Vittorio, ormai, sa che solo a questo patto il suo impulso a sostenere le rivendicazioni dei diritti irrinunciabili dell’uomo, i suoi richiami al principio di giustizia, la nobiltà della sua protesta, possono venir armate, possono acquistare mordente, possono aver presa e divenire forza storica concretamente operante, senza più perdersi nell’indignazione moralistica, senza più cedere alle tentazioni acceleratrici dell’impazienza anarchica, e al tempo stesso senza più esaurirsi nel piatto opportunismo e venir mortificate e spente nell’esangue prassi riformistica. E fu appunto negli anni tra il 1921 e il 1923 – in quel periodo cioè cruciale e tremendo per le sorti della classe lavoratrice e del paese – che Di Vittorio scioglie alfine, positivamente, il complesso intreccio e il risultato delle sue meditazioni, dei suoi contatti politici, dei suoi legami con i lavoratori entrando nel nuovo partito della classe operaia, nell’organizzazione politica rivoluzionaria fondata su una teoria politica rivoluzionaria, nel Partito comunista. Certo, con questo evento scompare dalla scena politica italiana l’ultima vera figura di libertario.
Con l’ingresso di Di Vittorio nelle fine comuniste, seguito dalla parte sana della corrente anarchica e sindacalista rivoluzionaria, quest’ala intransigente e generosa del movimento operaio italiano trova l’accoglimento e l’inveramene storico delle giuste esigenze di cui essa si faceva portatrice, di quei valori positivi che aveva nel suo seno, ma di, cui sapeva soltanto ergersi o a corrucciata vestale o a vendicatrice disarmata. Ma non significò soltanto questo l’ingresso di Di Vittorio nel Partito comunista: esso significò anche, per così dire, l’incontro tra giusnaturalismo e politica, cioè
tra le aspirazioni incoercibili dell’uomo come tale – il diritto alla vita, alla giustizia, alla libertà, al lavoro – e la forza, lo strumento che possono realizzare quelle aspirazioni in concreto, sul terreno storico, sul piano dello Stato. L’entrata di Di Vittorio nel PCI simboleggia anche il congiungersi e il collegarsi delle masse lavoratrici e del popolo degli umili e degli oppressi con una organica avanguardia politica, con quel partito proletario, che le libera dalla loro indistinzione di agglomerato sociale e le costituisce in una ben definita forza sociale e politica, raccogliendole attorno a quella classe rivoluzionaria, la classe operaia; perno e motore del rinnovamento complessivo della società nazionale. Allorché Di Vittorio diviene comunista si suggella, ancora, il confluire della rivoluzione contadina nella rivoluzione proletaria, si ha la libera accettazione da parte delle genti delle campagne della funzione egemonica, nazionale, della classe operaia, si ha l’alleanza delle plebi meridionali con il proletariato del triangolo industriale.

Ma se la storia personale di Di Vittorio è come l’emblema, lo specchio, di quello che fu il processo storico dal quale; con il cresce re del movimento operaio, maturarono le fortune del paese, non si può dimenticare che Di Vittorio era il sindacato, in uria misura e in un modo con cui nessun altro lo è stato in questi cinquant’anni. Come giocò, allora, sulla natura così schiettamente e ininterrottamente sindacale dell’opera di Di Vittorio, il suo incontro con la politica, con la politica rivoluzionaria, con la politica comunista? Giocò nel senso, ci sembra, di filtrare, di rendere limpido e netto, ma per ciò stesso di ridimensionare, di ricollocare entro i suoi giusti confini, il sindacalismo; di fargli superare, cioè, quel carattere rigoristico, ma velleitario, che aveva animato l’azione di Di Vittorio in gioventù; giocò, in una parola, nel senso di fargli criticare e superare l’errore del pansindacalismo, gli permise di cogliere, oltre al requisito primordiale di ogni autentico sindacato, l’unità, anche l’altro requisito coessenziale al primo, cioè l’autonomia del sindacato, che nasce dall’acquisita distinzione tra sindacato e partito, tra azione sindacale e azione politica. Certo questo processo di chiarificazione è lento e faticoso, in Di Vittorio come in tutto il movimento sindacale di classe. È un processo che subisce delle pause e anche delle involuzioni, in ragione delle circostanze storiche in cui si compì, e durante il fascismo e nel periodo del postfascismo: è un travaglio che non avvenne solo nelle coscienze dei singoli, ma che investì i rapporti fra le varie formazioni politiche antifasciste, i rapporti tra i tre grandi partiti di massa e poi la stessa complessa dialettica che ha caratterizzato nel dopoguerra, le relazioni tra il Partito socialista e il Partito comunista. Ma questo riconoscimento della distinzione dei rispettivi compiti istituzionali del sindacato e del partito è senza dubbio il punto d’approdo, la percezione chiarissima a cui giunge Di Vittorio negli ultimi anni della sua vita, proprio in base all’esperienza fatta sotto la tirannide fascista, nell’emigrazione, e nella clandestinità, nella Resistenza, nel periodo dell’unità della CGIL e, soprattutto, dopo le scissioni sindacali dal 1948-’49.

Dal 1923 al 1925 Di Vittorio si dedica specialmente all’organizzazione dei lavoratori della terra. Chiamato a far parte della sezione agraria del Partito comunista insieme a Ruggero Grieco, viene poi nominato segretario dell’Associazione nazionale dei contadini, voluta da Gramsci, la quale però ebbe breve e contrastata vita fino a che non venne sciolta con decreto fascista. Nello stesso anno, è nuovamente arrestato e processato. Messo in libertà provvisoria per scadenza di tutti i termini, alla vigilia della promulgazione delle leggi eccezionali e della costituzione del tribunale speciale, ripara in Francia per disposizione e con l’aiuto del suo partito. La famiglia – la moglie e i figli piccolissimi – lo seguono abbandonando Cerignola, all’alba di un mattino, nascosti dentro un carro di fieno. La magistratura fascista intanto in contumacia Di Vittorio a dodici anni di carcere.

A Parigi, assunto il nome di Mario Nicoletti, è fra i dirigenti del movimento antifascista degli italiani emigrati in Francia, ma partecipa attivamente alla direzione e all’organizzazione dell’attività sindacale clandestina in Italia, dove la Confederazione generale del lavoro – dichiarata sciolta dai suoi dirigenti nel novembre del 1926 – viene ricostituita illegalmente nel febbraio del 1927, seguitando a vivere e a combattere. In questi anni Di Vittorio pianta le lontane radici, che daranno i loro frutti diciotto anni più tardi; dell’unità sindacale anche con le organizzazioni sindacali « bianche », le cui vicende storiche e la cui attività sindacale solo raramente avevano trovato in passato delle convergenze con la Confederazione « rossa ». Si intensificano infatti da parte di Di Vittorio tra il 1923 e il 1928 i contatti, i colloqui, gli incontri con gli esponenti della Confederazione « bianca »: egli ha discussioni con Rapelli, con Miglioli, con Grandi e i suoi sforzi e i suoi argomenti sono tutti incentrati sull’obiettivo di gettare le basi di una unica organizzazione sindacale, tanto più necessaria per resistere e difendere i lavoratori sotto il fascismo.

Nel 1928 si reca a Mosca quale rappresentante per l’Italia nell’Internazionale dei contadini, affiliata al Profintern (la Internazionale sindacale rossa), dove si incontra anche con Miglioli, presente come osservatore a titolo personale. Due anni dopo, rientrato a Parigi, dove scrive un opuscolo in lingua francese, Il fascismo contro i contadini, è eletto membro del Comitato centrale e dell’Ufficio politico del Partito comunista, e in quello stesso anno, nel 1930, assume la direzione della Confederazione del lavoro clandestina.

Sotto l’infuriare della bufera fascista e contemporaneamente all’avvento del nazismo in Germania, si fanno più forti le spinte al l’unità antifascista e all’unità fra socialisti e comunisti. Nel 1934, tra i firmatari del primo Patto di unità d’azione tra i due partiti c’è Giuseppe Di Vittorio; e al grande comizio parigino, in celebrazione del duplice Patto di unità d’azione tra socialisti e comunisti italiani e francesi, furono oratori Marcel Cachin e Léon Blum per la Francia, Pietro Nenni e Di Vittorio per l’Italia. Il nazifascismo intanto, mentre va costruendo la sua macchina di guerra, arma i traditori interni della Repubblica democratica spagnola. La risposta degli antifascisti di tutta Europa è pronta, anche se si dimostrerà impari, nel suo eroismo, alle forze della reazione internazionale. La terra di Spagna si arrossa del sangue degli operai, dei contadini, degli intellettuali che resistono alle falangi franchiste. Accorrono volontari nelle file repubblicane da ogni parte del mondo: fra essi si arruola anche Mario Nicoletti, che, come commissario politico della la brigata internazionale « Garibaldi » partecipa anche alla difesa di Madrid.

Tornato nuovamente a Parigi dopo la sconfitta della Repubblica spagnola, è direttore dell’unico giornale che si pubblica in lingua italiana, La voce degli italiani; un foglio di larga unione democratica e antifascista, da dove conduce una incessante opera di chiarificazione contro la politica bellicistica, autarchica e di affamamento del popolo condotta dal governo fascista. Quando scoppia la seconda guerra mondiale e la Francia viene occupata dalla Wermacht e dalle SS, Di Vittorio è obbligato a ritornare al lavoro clandestino. La polizia francese, al servizio dei tedeschi, nel febbraio del 1941 riesce a scovarlo e ad arrestarlo. Di Vittorio peregrina per cinque mesi fra le carceri della Francia e della Germania, finché, nel luglio del 1941, manette ai polsi, viene consegnato al governo fascista italiano, che dapprima lo invia ancora una volta al vecchio carcere di Lucera e quindi al confino, nell’isola di Ventotene, dove rimane fino alla caduta della dittatura fascista.

 

Foto segnaletica di Di Vittorio

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Nell’agosto del 1943 insieme a Bruno Buozzi, Achille Grandi, Giovanni Roveda, Oreste Lizzadri e altri, tornato libero a Roma viene nominato dal governo Badoglio tra i commissari delle disciolte Confederazioni sindacali fasciste, e precisamente segretario della Federazione nazionale dei lavoratori agricoli. Gli avvenimenti dell’8 settembre costringono Di Vittorio di nuovo alla clandestinità. Mentre infuria la bestiale occupazione nazista, Di Vittorio dedica la sua attività principale nell’ambito della Resistenza a tessere le fila dell’unità sindacale, a far nascere la Confederazione generale italiana del lavoro unitaria. Con Buozzi, con Grandi, con Gronchi, con Lizzadri, con Rapelli, con Pastore e poi con Nenni, De Gasperi, Amendola, ai giardini di piazza Mazzini, nel chiostro della chiesa della Minerva, nei rifugi clandestini di questo o quel compagno, da Ponte Lungo al quartiere Prati, sfuggendo alle trappole dei tedeschi e dei fascisti repubblichini, Di Vittorio costruisce insieme agli altri colleghi di ogni parte politica il testo del Patto di Roma di unità sindacale che viene finalmente messo a punto e approvato da tutti il 3 giugno 1944, un giorno prima della liberazione di Roma.

Chi minò alla base, e poi fece crollare, il regime delle camicie nere? Quale forza sociale, interpretando una coscienza e una volontà che avevano ormai conquistato l’intero corpo della nazione, si mise alla testa della Resistenza, fece dà guida alla lotta per la libertà, alimentò le formazioni partigiane, abbandonò le fabbriche con quei memorabili scioperi che nel marzo del 1943 costituirono l’inizio inarrestabile della nostra riscossa popolare e patriottica, e dettero all’Italia la liberazione? Fu la classe operaia, furono i lavoratori, i quali, così agendo fecero ciò che non poteva più, nè sapeva più fare la borghesia: salvarono il paese.

Dunque, da folla di estranei e di esclusi dal potere, da respinti ai margini dello Stato i lavoratori – tutti i lavoratori, in quanto classe – divenivano la pietra angolare e il fondamento del nuovo Stato, libero e democratico, diventavano la nuova classe dirigente. La politica che consentì questa svolta storica nella vita nazionale fu la politica unitaria, fu la politica dell’unità delle forze antifasciste e delle masse popolari. Evidentemente un simile indirizzo politico generale del paese non poteva non avere le sue ripercussioni positive e innovatrici anche nello specifico campo sindacale, nel senso di determinare un mutamento del vecchio rapporto, che nell’Italia prefascista e fascista era esistito, tra le organizzazioni sindacali – allora divise e concorrenti, – tra i lavoratori e lo Stato, tra i sindacati e i partiti.

La rottura della grande alleanza di guerra tra i popoli e gli Stati liberal-democratici e socialisti che avevano, uniti, schiacciato la bestia nazista; l’avvento della guerra fredda; la rottura dell’alleanza politica e di governo, che aveva unito in Italia i tre grandi partiti di massa e aveva dato al paese la Repubblica e la Costituzione; il conseguente riaffiorare di antichi esclusivismi ideologici, fecero maturare le scissioni sindacali del 1948 e del 1949. Per evitarle, dapprima, e, poi, per risanare i danni da esse provocati, Di Vittorio, come tutti sappiamo, fece il possibile e l’impossibile. A un giornalista che alla fine del primo congresso della CGIL nel giugno del 1947 gli chiedeva: “Ma se la corrente cristiana se ne va dalla CGIL e costituisce un altro sindacato, lei, onorevole, che cosa farebbe”? Di Vittorio rispose: “Respingo il suo malaugurio, ma, se ciò dovesse avvenire, proporrei immediatamente al nuovo sindacato l’unità d’azione, il fronte unico di tutti i sindacati contro tutti i padroni”.

Malauguratamente le scissioni si produssero e Di Vittorio, la CGIL, risposero offrendo e ricercando tenacemente l’unità d’azione con la CISL e con la UIL. Ma poiché la politica unitaria e il riavvicinamento tra i sindacati, specie nei primi anni dopo le scissioni, stentavano a realizzarsi, nel 1949 dalla genialità e dalla sensibilità sindacale e politica di Di Vittorio nacque quella proposta, che spostava sul terreno della politica economica gli sforzi per la ricostruzione dell’unità, afferrandosi a un’esigenza nazionale di progresso e di civiltà, impossessandosene e interpretandola in quanto leader sindacale: il Piano del lavoro. Una proposta, questa, che, mentre partiva, presupponeva e si fondava sull’intento di realizzare l’unità dei sindacati e della classe lavoratrice (divisi da una esiziale polemica interna), faceva al tempo stesso tornare il movimento sindacale a essere il protagonista centrale, di primo piano, della ricostruzione economica del paese e del suo sviluppo sociale; e, per di più, costituiva l’idea forza trascinatrice e mobilizzatrice di tutte le energie sane della nazione su obiettivi di rinascita e di progresso. Il grido con cui Di Vittorio, concludendo i lavori della Conferenza economica per il Piano del lavoro, che si svolgeva al Teatro Quattro Fontane di Roma nel febbraio 1950, fu l’Italia al lavoro, unita!

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Palmiro Togliatti e Giuseppe Di Vittorio ai funerali delle vittime dell’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena

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Per Di Vittorio, dunque, l’unità sindacale non corrisponde solo ad una esigenza interna della classe lavoratrice, a un bisogno che essa perennemente vuole soddisfare per acquisire più forza sul mercato del lavoro, più potere contrattuale verso i padroni: oltre a questa funzione primordiale l’unità del sindacato è per Di Vittorio uno strumento potente e insostituibile per lo sviluppo della società nazionale, un’arma di affermazione e di sviluppo della libertà e della democrazia, un mezzo per ottenere la applicazione dei principi della Costituzione repubblicana. Le sue proposte, le sue battaglie per la difesa dei diritti sindacali e delle libertà dei lavoratori nell’azienda, le sue proposte costruttive nel campo della politica sociale per lo sviluppo dell’occupazione e del reddito, della cultura del popolo, il suo senso della misura e dell’equilibrio nella composizione delle vertenze più spinose e di fronte agli eccidi proletari – ossia le tappe e i modi che caratterizzano la sua opera e la sua azione fino all’ultimo giorno della sua esistenza alla testa della CGIL, – stanno a provare l’inscindibile nesso tra la funzione di classe e la funzione nazionale che un autentico sindacato deve assolvere nella vita del paese. E dalla autenticità del sindacato, dallo sforzo per trovargli una collocazione specifica nella dialettica democratica e sociale, e nell’intento di sottrarlo a ogni pericolo o tentazione di delegare i compiti e i poteri che gli sono propri ad altri organismi, ovvero di subire o ammettere indebite supplenze nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali da parte di altri organismi, Di Vittorio, nel 1955-1956, perviene a un nuovo arricchimento della concezione che aveva dell’unità del sindacato.

Per giungere ad essere stabilmente unitario, il sindacato, e dunque la CGIL, oltre a essere indipendente dal padronato, deve essere autonoma anche dai partiti, da tutti i partiti, anche dai partiti dei lavoratori. Questa è l’affermazione che egli esplicitamente fa il 1° agosto 1956 quando, nell’articolo di fondo dell’Unità  di quel giorno, Fermenti di unità sindacale, egli afferma che è ormai giunto il momento di porre fine alla vecchia concezione che considera il sindacato « cinghia o leva o strumento di trasmissione dei partiti ». In questo modo Di Vittorio, da un lato indicava la necessità e poneva le premesse della liquidazione e del superamento del vecchio errore della apoliticità del sindacato e, dall’altro, riscopriva, indicava ed esaltava la nuova verità dell’autonomia del sindacato: autonomo e non autarchico, autonomo e non autosufficiente, autonomo ma aperto all’incontro con la politica, con i partiti democratici, costituzionali, progressivi, nella riconquistata distinzione delle rispettive finalità, dei differenti compiti, obiettivi, mezzi e strumenti di azione. E’ questo il messaggio attualissimo che egli ha lasciato ai lavoratori e ai sindacati italiani, oggi positivamente impegnati in una fraterna, comune ricerca delle condizioni che permettano di realizzare l’obiettivo, che è nel cuore di tutti: l’unità sindacale organica.

“L’unificazione sindacale non avrà nè vinti nè vincitori – disse Di Vittorio allo Esecutivo della CGIL dell’ottobre 1956, un anno prima di morire -: Essa sarà vittoria di tutti i lavoratori contro le forze che ostacolano il progresso sociale del paese”. I lavoratori e i sindacati italiani, ai quali tutti egli appartiene, e non solo a una parte di essi, siamo certi che sapranno tener fede a questa consegna, per poter essere, oggi, nelle condizioni attuali nuove, gli eredi, i moderni continuatori e gli interpreti di Giuseppe Di Vittorio, alfiere dell’unità.

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