LA MADONNA DEL PARTO – Piero della Francesca

La Madonna del parto (1455-1460 circa)
Piero della Francesca (1416/1417–1492)
Monterchi (Arezzo), cappella del cimitero
Affresco staccato, cm 250 x 203

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L’affresco, una delle opere più celebri di Piero, venne staccato nel 1910, applicato ad un nuovo supporto, e quindi, ricollocato nella sede originaria. Mentre la parte superiore del baldacchino è una ricostruzione dovuta ad un pesante intervento di restauro, l’immagine della Vergine e dei due angeli, realizzati attraverso il medesimo cartone rovesciato, è da ritenersi completamente autografa.
Il tema di Maria gestante, raro nella pittura italiana, è più diffuso in area francese e spagnola.

Controversa è la cronologia del dipinto, assegnabile, secondo la maggior parte della critica, al 1460 circa.
Piero si colloca al centro della storia artistica del Rinascimento con la fatalità e la semplicità di un fenomeno della natura, eppure dovessimo dire qual è il vero carattere distintivo della sua arte ci troveremmo in imbarazzo. Ci accorgeremmo anzi, rivedendo con qualche attenzione la sua fortuna critica, che l’universale consenso raccoltosi in questo secolo intorno al nome di Piero della Francesca, si sostiene su una serie di antinomie critiche tanto più paradossali in quanto tutte legittime, tutte felicemente coesistenti. L’artista che è l’immagine stessa della pura felicità creativa, che è sinonimo di pittura luminosa, appagata, senza contrasti e quasi senza storia – come molte volte è stato detto – contiene in sé, a ben guardare, tutte le possibili contraddizioni.
Piero è il pittore della forma al punto che nel primo Novecento egli è nell’alone di Seurat, di Cézanne e quell’orientamento di gusto contribuì non poco a renderlo celebre. Ad un certo momento egli è sembrato l’esempio perfetto, la dimostrazione antica e perciò profetica, di un concetto che ha dominato la critica d’arte fra XIX e XX secolo: di come la pittura cioè, prima di essere discorso, sia armonia di colori e di superfici.
Eppure Piero è anche il pittore della pelle delle cose, delle armi splendenti, del pulviscolo d’oro sui capelli degli angeli, dell’ansa del Tevere nella quale si riflettono gli alberi e il cielo, delle nebbie argentee stagnanti nelle valli del Montefeltro; il pittore dei minima di verità e di natura. Piero è il grande teorematico, “miglior geometra che fusse ne’ tempi suoi” secondo il Vasari, “monarca” della pittura per Luca Pacioli e i suoi libri teorici contribuirono assai per tempo a circondare il personaggio di un alone di alta e quasi esoterica scientificità; “divino” lo definisce Giovanni Testa Cillenio alla fine del’400 e “antiquo”, negli stessi anni, Giovanni Santi dove l’aggettivo sembra evocare suggestioni di arcana sapienza.
Eppure egli è un prospettico che accetta (e non sembra proprio soffrirne, come ha notato il Battisti) l’idea che il sacro violi le leggi naturali così che le proporzioni della Madonna della Misericordia sono doppie rispetto a quelle dei suoi devoti, o che la luce possa essere di provenienza miracolosa, come avviene nella pala di Brera.
Di fatto, in pochi artisti come in lui la teoria si piega alle esigenze dell’arte, diventa duttile e relativa, e pochi artisti “teorici” sono stati più di lui opportunisti, disponibile com’era a servirsi di collaboratori anche modesti, ad usare gli stessi disegni e a duplicare il medesimo spolvero, ad accettare situazioni anche di compromesso (polittici già montati e strutturati da altri, prescrizioni iconografiche antiquate).
Egli è certo pittore aristocratico, di “frequentazione cortese” e non solo perché erano suoi clienti i signori di Urbino e di Rimini, il papa e il marchese di Ferrara. Il ritratto di Sigismondo Malatesta nel tempio dell’Alberti, in tutto il Quattrocento è un esempio insuperato di sublimazione araldica del potere assoluto e nulla appare più elitario, cerimoniale e rituale (aristocratico quindi nella accezione comune del termine) di scene come la Flagellazione di Urbino o l’Incontro fra Salomone e la regina di Saba.
Ma egli è anche il pittore del Cristo risorto di Borgo Sansepolcro o della Madonna del Parto di Monterchi, opere che hanno sempre sollecitato commenti sulla rusticità innata, sulle radici contadine, sulla natura popolare della sua arte.
Ecco allora, riassumendo, un elenco delle principali contraddizioni che distinguono I’opera e la persona di Piero della Francesca. Che risulta essere, insieme, teorico ed artigiano; profondamente classico e indifferente all’archeologismo antiquario; aristocratico e popolare; massimo artefice, dopo Giotto, dell’unità della lingua figurativa italiana ma anche caratterizzato in senso locale e provinciale uomo del medioevo e protagonista della più grande mutazione in senso progressivo conosciuta dalla pittura quattrocentesca; alfiere del nuovo e nostalgico di antichi valori sociali e religiosi; poeta della forma astratta, “geometra” e prospettico, ma anche testimone impareggiabile dei minima di verità e di natura.
Eppure la pittura di Piero della Francesca è lì a dimostrarci che tutte le antinomie vengono di fatto superate in un universo figurativo e cromatico splendidamente armonioso che è la negazione stessa di qualsiasi irrisolta tensione.
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