ARNALDO DA BRESCIA – Contro la corruzione della Chiesa

Il monumento a Arnaldo da Brescia è un monumento bronzeo situato all’estremità est di Piazzale Arnaldo a Brescia, dedicato al frate predicatore del XII secolo Arnaldo da Brescia. Modellato dallo scultore Odoardo Tabacchi nella statua e nelle altre parti bronzee e da Antonio Tagliaferri nel basamento, è stato inaugurato nel 1882 ed è oggi uno dei monumenti più noti e caratteristici della città.
  
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UNA FORZA RIVOLUZIONARIA

Nel cupo e tormentato periodo di storia medioevale che va dagli ultimi secoli del primo millennio dell’era cristiana ai primi secoli del secondo – un periodo che gli storici intitolano a nomi di famosi papi e imperatori (soprattutto quando esso sfocia nelle guerre per le investiture) – v’è un protagonista di cui, generalmente, quegli storici non fanno parola.
Quel protagonista è il popolo, è la più umile gente schiacciata dalla piramide feudale, che costituisce una forza rivoluzionaria animatrice dei movimenti ereticali: è un moto religioso politico sociale: quell’umile gente, contadini o lavoratori manuali, sfruttati dall’economia feudale a pro del castello o del monastero o del palazzo vescovile, si rivolgeva, nella sua ingenua fede religiosa, alla Chiesa come quella che avrebbe dovuto proteggerla contro l’esosità sfruttatrice, attuare un minimo di giustizia sociale, amministrare onestamente (quindi anche e, vantaggio dei bisognosi) le grandi ricchezze accumulate per le decime e per le donazioni e i lasciti ammassati dalla pietà dei fedeli. Si ricordi la lordura che aveva insozzato il papato nel secolo, detto di ferro, o di piombo, della Chiesa ( * ), una lordura che non si era limitata ai vertici della gerarchia ecclesiastica; essa si era diffusa in tutto il corpo della Chiesa e aveva continuato, nei secoli che seguirono, la sua azione di disfacimento: preti ammogliati (com’è giusto che siano), concubinari, simoniaci, incoraggiati dal tristo esempio dei vescovi.

La corruzione della Chiesa – L’aspirazione ad una riforma

L’episcopato, il quale aveva già avuto figure di eccelsa levatura morale come Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, era rappresentato ormai da uomini che, diventati padroni di un feudo, gareggiavano coi feudatari laici, avevano voluto anch’essi,il castello, le guardie armate, le cacce, i paggi, i giullari, le donne e, per mantenersi nelle ricchezze indispensabili alla loro vita dispendiosa, esercitavano le più prepotenti angherie sulle classi sottoposte.
Contro la vita scandalosa degli ecclesiastici si schieravano gli uomini delle più umili condizioni sociali, il popolo più minuto che, ligio nella sua semplicità alla religione dei padri, soffriva dello spettacolo sacrilego offerto dai papi al centro e dai vescovi e dal clero alla periferia, e in vari modi, da paese a paese, reclamava non solo drastici provvedimenti contro i corrotti ma una riforma nel campo stesso delle strutture religiose, che avesse favorito un ritorno all’originaria purezza cristiana.
Così Gioacchino Volpe (Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana: secoli 11.-14. Firenze: Vallecchi, 1922) descrive lo stato psicologico della massa minuta dei fedeli, in questi decenni, nei paesi più battuti dalla tempesta, l’Italia media e settentrionale, la regione renana, l’Olanda e il Belgio, la Francia settentrionale ed orientale:
“Passione religiosa, eccitata sino al fanatismo settario; visione e aspettativa di una Chiesa migliore, più madre e meno matrigna al popolo, più sollecita della sua salute spirituale e del suo bene terreno, più onesta amministratrice e dispensiera dei beni ecclesiastici, delle decime, delle offerte volontarie; più misericordiosa a farne parte ai poveri, agli infermi, agli orfani, secondo le prescrizioni evangeliche e dei Padri e dei Pontefici primitivi; coscienza anche nei più umili di esser parte viva ed essenziale della Chiesa, di avervi dei diritti accanto agli obblighi, di poter e dover aver voce nella amministrazione del suo patrimonio, nella elezione dei suoi rettori, espressione diretta della comunità dei fedeli, più che imposti dal di fuori; odio al cattivo clero e disconoscimento del suo ufficio e del suo carattere sacerdotale…”

I movimenti religiosi

C’era, al fondo di questi movimenti religiosi, la ribellione contro l’iniquità delle strutture (feudalesimo laico e feudalesimo ecclesiastico) e questo contenuto rivoluzionario non poteva sfuggire alla classe dominante laica ed ecclesiastica. Il monaco Sigeberto di Gembloux, legato alla stessa, combatté, ad esempio, verso il 1074-1075, i movimenti religiosi popolari come “nuove perfidie di servi contro i padroni” e “dolose macchinazioni contro la potestà ordinata da Dio” cioè la proprietà privata feudale.
Con la più umile gente oppressa si mescola non di rado il basso clero che è tenuto in condizione servile o di semilibertà.
Occorre, peraltro, dire che in questo periodo (all’incirca secolo XI) ed ancora per qualche tempo dopo, fin quando, cioè, la borghesia comunale sarà rigogliosa, l’accezione di “popolo” non comprenderà solo gli infimi lavoratori di campagna e di città ma accoglierà anche i primi elementi della nascente borghesia, gli artigiani intenti a creare un’economia nuova, diretta a compiere, attraverso le conquiste dei Comuni, la prima rivoluzione antifeudale. Lavoratori e primi borghesi non apparivano ancora come due classi distinte ma come una classe sola, il popolo, il quale non sempre si conterrà nel sotterraneo lavoro di setta ma attiverà talvolta, come a Firenze o a Milano ad aperte rivolte, opponendosi con la forza al fatto che Vescovi e Canonici e preti corrotti esercitino poteri religiosi. Allorché nel corpo stesso della Chiesa sorgeranno uomini di notevole elevatezza morale a propugnare la riforma, questo popolo ne fiancheggerà l’azione.
Anselmo di Baggio, per esempio, che sarà papa Alessandro II, proverrà dai milanesi patari o patarini (ossia, secondo alcuni, rigattieri; secondo altri, pezzenti) che insorgono contro l’alto clero e l’aristocrazia. Ed anche s€e, nel 1046, l’elezione del papa sarà, per volontà dell’imperatore Enrico III, sottratta al popolo e demandata al Concilio sotto beneplacito imperiale, il popolo, a Roma, il 21 aprile 1073 scatterà durante i funerali del papa Alessandro II ed acclamerà il riformatore Ildebrando che sarà Gregorio VII.
Nel secolo XI l’eresia catara, proveniente dal manicheismo di antichissima origine, si diffonde in Francia e in Italia, assumendo, con varianti locali, diversi aspetti e nomi (catari , ad esempio, saranno gli Albigesi, così detti da Albi, nella Linguadoca); si diffonde in Francia fra i lavoratori della lana col nome di “tixerands” (texitores); centri della setta in Italia sono in Asti, in Alba (donde il nome di Albanesi), a Concorezzo presso Monza (donde il nome di Concoreziani) ed il movimento che nel campo religioso nega parecchi dogmi del cattolicesimo, acquista carattere economico-politico, allorché, ribellandosi al “comandamento” ecclesiastico, rifiuta l’odioso pagamento delle decime, che grava nelle città ed ancor più nelle campagne su ogni genere di lavoro, e tanto più pesantemente quanto più povero è chi paga.
Si apprestano i roghi per gli eretici; dei catari astigiani sono trascinati a Milano e gettati alle fiamme, fra il 1028 e il 1010, per ordine dell’arcivescovo Ariberto.
Eresia è quella di sostenere che la Chiesa è “spirituale” e deve rinunziare ai beni terreni.
I patarini sorti in Milano verso la metà del secolo XI, pur avendo qualche punto di contatto con la dottrina dei catari (dal secolo XII in poi gli uni e gli altri e più tardi gli eretici in genere – saranno sinonimi) e pur rispondendo a una tendenza diffusa specialmente in Francia ed in Italia, avevano caratteristiche proprie animatrici di un’attiva azione rivoluzionaria contro l’alto clero e l’aristocrazia feudale ed imperiale a cui esso era legato.
Pataria era chiamato, a Milano, il mercato degli stracci e questo nome dispregiativo, dato dall’alto, esprime la natura sociale del movimento.
Siamo, ormai, nel secolo XII, in piena età comunale; e, con l’affermarsi del sistema economico corporativo, col consolidarsi della borghesia mercantile (la “gente nova” dai “subiti guadagni”) quello che ho chiamato indiscriminatamente “popolo” nel secolo precedente si differenzia, nelle città, in due classi, quella dei Maestri delle corporazioni e quella dei garzoni, ossia salariati (nonché degli artigiani esclusi dalle corporazioni), antagonisti nella lotta di classe, oppressori ed oppressi; questi costretti a miserabili condizioni di vita (anche se qualche storico antico e moderno abbia parlato di un periodo di benessere), sfruttati, angariati, anelanti ad una vita migliore; l’una e l’altra classe, comunque, sono unite nella lotta antifeudale ed in questa lotta la nascente borghesia porta una forza viva e, spesso, travolgente.
Chiusasi, nel 1122, col concordato di Worms, la guerra per le investiture e iniziata, a breve distanza, la lotta fra Papato ed Impero, fra Guelfi e Ghibellini, nulla, nel frattempo, era mutato in seno della Chiesa, dove permaneva lo scandalo che aveva invano mosso , da Pier Damiani a Ildebrando, il movimento della riforma.
“Intorno al papato, che nulla aveva ormai di sacro, continuavano le ambizioni più audaci. Seguendo un sistema che datava dal “secolo di ferro”, veniva fatto papa l’esponente della famiglia dell’aristocrazia romana che, nella lotta con le altre famiglie aristocratiche, riusciva ad avere il sopravvento. Nel volgare arrembaggio al potere ed alle ricchezze, ogni elezione si risolveva o in un turpe mercato o nel fragore di armi e di armati, di tumulti e di risse; la violenza brutale non di rado si abbatteva sulla stessa persona fisica del papa o dell’antipapa eletti. Alla morte di Onorio II le famiglie Frangipane e Pierleoni crearono ognuna il proprio papa (Innocenzo II l’una e Anacleto II l’altra) e per otto anni vi fu un’aspra lotta, vinta in ultimo, dai sostenitori di Innocenzo II.
(Questo e i brani che seguiranno tra virgolette appartengono alla Storia d’Italia di Giulio Trevisani e Stefano Canzio, vol. I, Milano, ed. La Pietra, 1961).

L’anarchia nello Stato della Chiesa

Monumento di Arnaldo da Brescia – Brescia
Uno sguardo all’anarchia esistente nello Stato della Chiesa è necessario per rendersi conto della lotta e del martirio di una delle più fulgide figure della nostra storia: quella di Arnaldo da Brescia.
Per la sua caratteristica di sede del capo della Chiesa cattolica, Roma aveva sempre vissuto una vita direttamente o indirettamente legata al papato.
La classe dominante era rappresentata dalle famiglie dell’aristocrazia latifondista del Lazio che risiedevano gran parte dell’anno in Roma e fornivano i loro membri alla corte papale. L’alta organizzazione ecclesiastica, che costituiva il centro di questa corte, e le famiglie dell’aristocrazia terriera del Lazio – in continuo conflitto tra loro per la conquista del papato – erano al vertice della piramide.
Più sotto stava la nascente borghesia ma la classe mercantile romana non raggiungerà mai uno sviluppo nazionale e tanto meno cosmopolita; avrà, ciò nondimeno, una sua particolare caratteristica ed importanza.
Dopo il Mille, infatti, a mano a mano che a Roma confluiscono pellegrinaggi e si sviluppa il movimento delle Crociate, si rivelano ogni giorno di più le esigenze di una civiltà che progredisce per i contatti con altre civiltà; crescono i bisogni della produzione, nascono e si sviluppano alcuni settori ed entro certi limiti, artigianato e commercio. Sorgono e si incrementano la fabbricazione e lo smercio di oggetti sacri, che vedranno specializzarsi soprattutto gli ebrei.
Solo una minoranza dei numerosi coloni emigrati dalla campagna era riuscita a crearsi una posizione mercantile o artigiana. La massima parte veniva ad ingrossare le file di una plebe numerosa ed affamata che viveva alla giornata. Molti si creavano attività subalterne, entrando a far parte della “servitù” degli alti ecclesiastici e dei nobili: altri si davano al mestiere delle armi, mettendosi a disposizione di questa o di quella fazione aristocratica o entrando nelle soldatesche papali.
Una siffatta composizione sociale non tarderà a dare una violenta spinta alla lotta tra la classe feudale (ecclesiastica e laica) e la giovanissima, sia pur modesta, classe mercantile. Anche a Roma, quindi, v’è una borghesia che aspira, attraverso il Comune, alla libertà. Questa borghesia troverà appoggio nel popolo minuto, che comincerà a insorgere contro La classe dirigente papale non solo per una vaga e ancora inconsapevole ragione d’interesse, e per la naturale speranza che ogni moto sociale ha sempre ispirato ai più poveri, ma anche per le offese portate al suo schietto sentimento religioso dal comportamento delle alte gerarchie della Chiesa.
Fra il 1140 e il 1142 si svolse una viva lotta tra Tivoli e Roma. Ebbe origine dal tentativo di Tivoli di sottrarsi al dominio romano e proclamare la propria indipendenza, e si concluse con la vittoria di Roma.

Rivolte popolari

Papa Lucio II
Per il papa la questione poteva essere risolta attraverso una pace che ripristinasse e consolidasse il suo dominio e con un giuramento di fedeltà alla Chiesa; per la numerosa classe mercantile invece ciò non bastava. Bisognava addirittura distruggere la città che minacciava di diventare una rivale. Contro il papa e la casta papale-feudale – estranei a questi interessi e quindi contrari alla distruzione di Tivoli – scoppiò una rivolta che espresse gli interessi della nascente borghesia romana contro il potere teocratico e feudale del papato e reclamò un proprio ordinamento democratico.
Il papa e il suo prefetto furono scacciati (a Innocenzo II, morto nel 1143 , era successo Celestino II e, dopo pochi mesi, Lucio II). Impossessatisi del Campidoglio, i rivoltosi dichiararono decaduto il governo pontificio, proclamarono il Comune di Roma, con forma repubblicana, e istituirono un senato di 56 membri e un patrizio. Questi fu Giordano, figlio di Pietro Leone e fratello del defunto papa (o antipapa) Anacleto II.
La nobiltà fu accanita nemica della Repubblica: si pensi, tra l’altro, che tanto la famiglia di Giordano, i Pierleoni, quanto i nemici di essa, i Frangipane, si schierarono d’accordo contro la Repubblica a favore del regime papale. Non meraviglierà, quindi, se il 15 febbraio 1145 una spedizione armata del partito papale, capeggiata dal papa Lucio II in persona, si avviò per ritogliere il Campidoglio al governo comunale.
La spedizione fu respinta a sassate e un sasso finì sulla testa del papa che, pochi giorni dopo, morì per quelle ferite.

Le correnti cristiane di sinistra

Busto di Arnaldo da Brescia
Campo Marzio, Pincio – Roma
(Vedi qui file originale)
Nelle lotte contro il papato la nuova classe, la borghesia comunale, trovava l’alleanza delle correnti cristiane di sinistra, sorte fra i più umili ceti ansiosi di un rinnovamento della Chiesa: ed è ora che c’incontriamo con l’alta figura di Arnaldo da Brescia (Brescia, 1090 – Roma, 18 giugno 1155) che è stato un religioso italiano. Allievo di Abelardo, fu un riformatore religioso caratterizzato da notevole eloquenza e forte avversione per l’istituzione tradizionale ecclesiastica.
Arnaldo da Brescia, nato fra la fine del secolo XI e l’inizio del XII, fu chierico, di cui non conosciamo con precisione la giovinezza: sappiamo solo che nel 1139, combattendo egli fieramente in Brescia contro la politica papale e la disonestà degli ecclesiastici, fu denunziato a Innocenzo II , venne condannato da un Concilio Lateranense e costretto ad abbandonare l’Italia.
Arnaldo esulò in Francia. Qui era in corso una polemica teologica fra l’abate di Chiaravalle (Bernardo, rappresentante della corrente di destra ligia alla chiesa di Roma) e il filosofo Pietro Abelardo che rappresentava un movimento rinnovatore e, quindi, all’opposizione.
Naturalmente Arnaldo si schierò subito dalla parte di Abelardo. Nelle idee di Abelardo egli vedeva rispecchiate le proprie, e cioè il desiderio di ritorno alla purezza della prima Chiesa ed alla dottrina di Cristo.
Un nuovo Concilio nel 1140 scomunicò entrambi. Bernardo ottenne l’espulsione dalla Francia di Arnaldo, che continuò attraverso la Svizzera, la Moravia e la Boemia la sua predicazione in favore di Cristo e contro la Chiesa di Roma.
Nel 1145 Arnaldo da Brescia giunge a Roma e cerca, con la predicazione, di eccitare gli spiriti verso una più elevata comprensione del conflitto. Egli è contro gli interessi mondani degli ecclesiastici e nega il diritto di possedere, propugna il ritorno della Chiesa alla povertà ed alla purezza evangelica, sostiene la netta separazione tra il potere temporale e quello spirituale.
Egli propugnava, così, l’esistenza del Comune di Roma come potere laico ed autonomo; ed auspicava il ritorno del papato al solo potere spirituale.
La predicazione di Arnaldo si proietta dal piano religioso a quello politico. La sua parola infiamma gli animi e apre orizzonti di luce: essa è resa ancora più efficace dall’integrità della sua vita di apostolo. Il basso clero è con lui.

La predicazione di Arnaldo da Brescia

Predicazione di Arnaldo nella piazza di Brescia
Arnaldo è insieme la voce dei Patari lombardi dell’XI secolo, dei mistici che il suo fiero avversario Bernardo di Chiaravalle commuove, della borghesia italiana che nel XII secolo getta le basi dello Stato laico e compie le prime consapevoli rivendicazioni a danno dell’enorme patrimonio e delle giurisdizioni della Chiesa. Egli vuole la povertà evangelica della Chiesa e del clero; fulmina la cattiva vita dei chierici; disconosce la efficacia dei sacramenti somministrati da chi è in peccato, negando ad essi di poterli dare, agli altri di riceverli, e preferendo alla propria attività sacramentale quella dei laici: “non deve il popolo aver i sacramenti dai cattivi sacerdoti, nè comunicare ad essi i suoi peccati, ma piuttosto confessarseli l’un l’altro”. Riusciva in tal modo come ad eliminare l’opera degli intermediari, se impuri, ed a ravvicinare l’anima dei fedeli a Dio, facendo di essi un elemento attivo della Chiesa, anzi la Chiesa stessa, poichè “la Chiesa come è ordinata non è Chiesa di Dio, ed i suoi capi non sono i Vescovi” nè il popolo è tenuto ad obbedirli.
In tutte queste aspirazioni e condizioni che sono anche un crescendo verso l’eterodossia, anzi addirittura l’eresia, è il patarino, il monaco della severa ascesi, l’ispirato del Vangelo che parla in Arnaldo. Ma egli ha pure altre voci e chiede ancora:
“Vescovi e prelati rinuncino alle regalie, per la libertà loro e dei laici; ripetano dallo Stato e dai laici i beni immobili, l’Imperatore mandi rappresentanti a Roma per istituire col popolo un regno indipendente dal Papa, poichè è un’eretica favola che Costantino abbia ceduto a Silvestro i diritti imperiali su Roma”.
Viene un momento nel quale, per un’abile mossa politica, di fronte al Comune di Roma ed agli attacchi di Arnaldo, le varie famiglie a cui faceva capo l’organizzazione ecclesiastica sentirono la necessità di non porre, come al solito, le proprie candidature al potere, ma di nominare un papa estraneo all’aristocrazia. I cardinali il 15 febbraio 1145 (cioè lo stesso giorno della morte di Lucio II) elessero papa non un cardinale ma un monaco, che si chiamò Eugenio III.
Il Senato dichiarò che avrebbe permesso l’entrata del papa in San Pietro solo se egli avesse rinunziato al potere temporale e riconosciuto la Repubblica. Il rifiuto del nuovo eletto rese più violento il tumulto popolare ed Eugenio III fu costretto, dopo tre giorni, a scappare da Roma.
Per un po’ Arnaldo da Brescia sperò in un rinsavimento di Eugenio III e si tenne lontano. Ma quando constatò che la sua era un’illusione riprese il suo posto di combattimento che tenne tenacemente per dieci anni.

I seguaci di Arnaldo

Presso chi trovò credito la predicazione di Arnaldo?
Risponde a questo interrogativo il Volpe (Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana: secoli 11.-14. Firenze: Vallecchi, 1922):
“…Sappiamo dove e presso quali persone Arnaldo trovò seguito, destando eco nei cuori. A Brescia, nel popolo che egli sollevò contro il Vescovo e in quella frazione delle famiglie consolari che non gli eran legate da vincoli feudali; poichè gli altri, i militi, aiutarono il signore ecclesiastico. A Roma, a Zurigo, nel medio ceto che voleva restaurare la Repubblica antica contro l’aristocrazia e il Papa; nei “cives” o “burgenses”, già uomini del Capitolo e dei monasteri zurighesi, ora agiati e aspiranti a libertà politica dopo raggiunta quella personale ed economica. A Parigi, presso gli scolari poveri, i soli ascoltatori suoi di Santa Genoveffa, che mendicavano di porta in porta per sè e per il monastero, se racconta il vero l’inglese Giovanni di Salisbury. A Roma ancora lo seguono i cappellani delle chiese filiali che schernivano i prelati ed ascoltavano Arnaldo; i popolani minuti ed i Lombardi; una accolta semiereticale di poveri uomini formatasi in Roma, ai quali egli parlava della Chiesa di Cristo e della povertà evangelica. Infine, trovò lieta accoglienza e forse orecchio intento il profugo di Brescia nelle case di quei nobili signori di Alemagna che egli conobbe a Zurigo, e che, passando la lor vita ma mille brighe con Vescovi e conventi per terre e giurisdizioni, apparvero poi a Roma, a lui ed ai suoi discepoli, strumenti adatti per una rivendicazione imperiale e laica. Son elementi sociali e aspirazioni diverse che fanno capo a quest’uomo. E forse in pochi altri riformatori si vide mai tanta unità e molteplicità di intenti e di vedute, come in Arnaldo”.
Nell’ottobre 1154 Federico Barbarossa compie la sua prima discesa in Italia e nel dicembre dello stesso anno, alla morte di Eugenio III, è eletto papa l’inglese Nicola Breakspear che prende il nome di Adriano IV.

Imperatore e papa contro il popolo

 Ritratto ottocentesco di Federico Barbarossa
Violenta fu la lotta del nuovo papa, chiuso nella città Leonina, contro i Romani.
“Adriano domandò al Senato che Arnaldo fosse scacciato e che fosse prestato al Pontefice l’omaggio consuetudinario. Non ottenne nè l’una nè l’altra cosa; anzi un cardinale veniva mortalmente ferito per via come un predone qualsiasi, e il Papa stesso non poteva liberamente entrare in Laterano. Uomo di acceso temperamento, non tollerò più, oltre siffatte “ingiurie” e fulminò la scomunica contro la città, nella quaresima del ’55. Il colpo fu veramente mortale, anche perché i Romani non avevano fatto l’abitudine agli interdetti; il mercoledì santo, costretti da un tumulto di popolo, i Senatori implorarono pietà e scacciarono Arnaldo, mentre giungevano gli echi sinistri delle gesta di Federico nell’Italia settentrionale. Il dramma precipita: il profeta, inerme ed abbandonato, rivive l’antica esperienza della inguaribile viltà delle grandi masse umane, fugge per la campagna romana, penetra in Toscana e finisce in Val d’Orcia, dove i signori di Campagnatico lo accolgono onorevolmente, fino a che Federico sopraggiunto non lo ghermisce per consegnarlo al Prefetto di Roma, vittima propiziatoria del furore papale e delle cupidigie imperiali”.

Già il papa Eugenio III aveva promesso a Federico la corona imperiale, perchè egli ristabilisse in Roma l’autorità papale. Federico aveva sceso le Alpi per la vallata di Trento, si era rivolto contro Novara, Vercelli, Torino, incendiando Chieri ed Asti e Tortona, città, questa, fedele a Milano. Scendeva, ora, verso Roma e Adriano IV gli mandò incontro a San Quirico di Orcia, tre cardinali per rinnovare la promessa della corona in cambio dell’aiuto che egli avrebbe dato a soggiogare i Romani.

Mosaico di papa Eugenio III 
Imperatore e papa si incontrarono a Sutri e poco mancò che l’incontro diventasse uno scontro “perchè, respingendo il cerimoniale già praticato da Lotario con Innocenzo II, il Barbarossa non intendeva prestare al papa l’omaggio dello scudiero (tenergli la briglia del cavallo e regger la staffa). I cardinali e il seguito di Federico discussero su questo argomento un’intera giornata e all’indomani , finalmente, una forma conciliativa fu trovata e Barbarossa riportò il papa a Roma, restaurando l’autorità papale in odio ai ribelli romani, con cui rifiutò di trattare. È chiaro che egli, potenza feudale, preferiva la conservazione di un’altra, quanto mai consolidata, potenza feudale, anche se sua antagonista, al sorgere di una forza nuova ed avversa al feudalesimo”.
E quanto il Barbarossa fosse ostile alle libertà comunali apparve subito dall’accoglienza fatta ai rappresentanti del Senato che gli andarono incontro. Questa non venne a pregare, bensì a esigere, e non invocava tanto la propria devozione quanto si appellava alle sue “antiche consuetudini e nuove istituzioni ” , che il re doveva preventivamente riconoscere. Poneva talune condizioni, compreso il pagamento di un grosso tributo. Se Federico avesse giurato di ratificare tali pretese, avrebbe ricevuto la corona dal popolo romano e non da un principe degli Apostoli, “la cui folle presunzione si arrogava al tempo stesso il potere temporale e quello spirituale” ; e con tale incoronazione da parte del popolo sovrano, il re “che ha valicato le Alpi in qualità di ospite straniero” , sarebbe stato eletto primo cittadino dell’Urbe.
Federico respinse violentemente le richieste.
Spaventati ma frementi di sdegno, i Romani abbandonarono il campo. Questo fermo contegno di Federico fece la più profonda impressione su Adriano. Finalmente c’era qualcuno che aveva dato agli odiati ribelli la risposta che si meritavano! Ma un conflitto sanguinoso era ormai inevitabile ed imminente. Conveniva dunque che l’incoronazione avesse luogo in tutta segretezza, perchè la sacra funzione non soffrisse ostacoli o disturbi.
Nonostante la grande diffidenza nutrita da Adriano verso l’orgoglioso sovrano tedesco, egli aveva ormai dovuto convincersi che Federico non sarebbe mai venuto a patti con elementi sediziosi. Un’amichevole collaborazione con lui doveva dunque essere possibile anche per il futuro, purché si usassero i dovuti riguardi alla sua suscettibilità.
Occorreva agire con la massima prontezza per prevenire i Romani.
Il 17 giugno l’esercito aveva preso posizione su Monte Mario, in immediato cospetto delle mura di Roma. Si decise di procedere all’incoronazione già il mattino seguente, un sabato, invece che la domenica, come voleva la consuetudine. Durante la notte un cardinale introdusse per una piccola porta nella Città Leonina i Tedeschi, i quali occuparono subito San Piero.
Il 18 giugno 1155, di primo mattino, nella basilica di cui era stato sbarrato l’accesso, ebbe inizio il rito dell’incoronazione col suo cerimoniale tradizionale. Tutto si svolse con tale segretezza che i Romani non si accorsero di nulla.
Non udirono nemmeno “il grido di giubilo dei Tedeschi simile al fragore d’un tuono”, che echeggiò nella chiesa quando Federico, prestato giuramento di concedere alla Chiesa romana aiuto e protezione con tutte le sue forze, ricevette le insegne della dignità imperiale.
Soltanto verso mezzogiorno, quando il papa e il re, spossati dalla calura e dalle fatiche dei festeggiamenti, sedevano a banchetto nell’accampamento tedesco davanti alla città, il Senato venne a conoscenza degli avvenimenti. Preso alla sprovvista e sentendosi giocato, chiamò i Romani alle armi. Questi si precipitarono a San Pietro, uccisero le sentinelle tedesche, catturarono due cardinali ed avrebbero certamente messo a sacco Castel Sant’Angelo se Federico non fosse prontamente intervenuto. Scossi di soprassalto dal rumore della mischia, i cavalieri tedeschi riuniti a festino impugnarono le armi ed incalzarono da ogni parte i ribelli. Ne seguì una sanguinosa carneficina, in cui si distinsero particolarmente Enrico il Leone e i suoi Sassoni, liberando Federico che correva già grave pericolo. Al calar della notte i Romani si ritirarono.
Suonò, quel giorno stesso, l’ultima ora di Arnaldo da Brescia, forse mentre infuriava la battaglia tra cittadini e milizie germaniche. L’Anonimo autore delle Geste di Federico I, probabilmente un bergamasco, ci ha lasciato degli ultimi istanti del profeta una narrazione semplice e commossa…..
“Mentre si preparava al supplizio a cui era stato condannato e si appressava il momento di porgere il collo al laccio, gli fu domandato se volesse abiurare le sue prave credenze e, a mo’ dei sapienti, confessare le sue colpe; ma egli, mirabile a dire!, intrepido e fedele a se stesso, rispose che gli sembravano salutari le sue credenze, che non esitava ad affrontare la morte per la sua fede, poichè nulla vi scorgeva di assurdo e di dannoso, e che domandava soltanto qualche istante per confessare a Gesù Cristo le sue colpe. Genuflesso, con gli occhi e le mani levate al cielo, forte sospirando, ma senza parole, volse il pensiero supplice a Dio, raccomandando a lui l’anima sua; poi risolutamente s’abbandonò al carnefice, pronto a subire fieramente la morte. Piangevano i presenti, e il cuore dei littori era mosso a pietà. Finalmente, penzolò , dal laccio tenace…”.
Mente il sacrificio orrendo non placava nè il Papato nè l’Impero, e restavano immutati i termini del problema eterno che divideva le due supreme autorità del mondo cattolico, il pensiero del martire restava nelle istituzioni comunali di Roma non sommerse nel sangue versato il 18 giugno, e restò poi lungamente nelle tradizioni pauperistiche del secolo decimoterzo, nel movimento francescano e nella sua devozione fraticelliana, fin che l’umanesimo trionfante non spense gli ardori delle fedi eroiche in una più serena e meno tragica concezione della vita e dei suoi problemi fondamentali. Divenne più tardi un simbolo, una bandiera, auspicio e protesta; ma non questo egli voleva, povero frate, non questo: credette fortemente, combatté gli scandalosi spettacoli della Chiesa corrotta in tutti i suoi organi, sognò possibile la fusione dei turbinosi interessi comunali con i superiori interessi della vita dello spirito, e pagò con la vita questo fatale e generoso errore.
Secondo alcuni, Arnaldo fu bruciato vivo in Piazza del Popolo; secondo altri prima impiccato e poi bruciato. Le sue ceneri furono gettate nel Tevere per impedire, attestano le fonti, che il popolo le venerasse come reliquie di un santo.

Con Arnaldo da Brescia si apre la schiera di quei martiri illustri della libertà che morirono sui roghi, ma i cui spiriti arditi sempre resuscitarono come la fenice dalle fiamme, per vivere di continua vita attraverso i secoli. Egli può chiamarsi profeta, a buon diritto, tanto chiaramente seppe discernere l’indole del suo tempo, tanto lontano seppe prevedere una meta che Roma e l’Italia potevano raggiungere soltanto settecento anni dopo di lui.

 Giovan Battista Niccolini
Così, nella tragedia del Niccolini, Arnaldo da Brescia impreca contro la corrotta Roma pontificia:
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Voce dall’Oriente,
Voce dall’Occidente,
Voce dai tuoi deserti,
Voce dall’eco dei sepolcri aperti.
Meretrice t’accusa. Inebriata
Sei del sangue dei santi, e fornicasti
Con quanti ha re la terra. Ahi! la vedete!
Di porpora é vestita; oro, monili,
Gemme, tutta l’aggravano: le bianche
Vesti , delizia del primier marito
Che or sta nel Cielo, ella perdé nel fango.
Però di nomi e di blasfemi è piena,
E nella fronte sua scrisse: Mistero.
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Il poeta e patriota Giovan Battista Niccolini, autore della tragedia “Arnaldo da Brescia “, che ebbe grande rinomanza nel clima risorgimentale (frontespizio di un’edizione ottocentesca).
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* II soglio papale è ormai oggetto della più turpe lotta tra le famiglie dell’aristocrazia romana., ansiose solo di arraffare il potere di ingrandirsi, di predare e di arricchirsi. Vi sono papi che pontificano anche per pochi mesi, o giorni, e sono scacciati da tumulti di fazioni avverse.
Non molti sono quelli che muoiono di morte naturale; e non v’è alcuno che non risulti macchiato di azioni nefande. Basterà citare Stefano VI (896-897 ) il quale, per odio contro il papa Formoso morto nove mesi innanzi (odio legato alla lotta delle due avverse fazioni tedescofila e antitedesca), ne fece dissotterrare il cadavere, lo fece vestire da papa e deporre sopra un trono nella sala del Concilio, dove inscenò un processo. Il cadavere fu dal Sacro Sinodo condannato a morte: prima gli furono tagliate le tre dita della mano destra, con cui aveva, in vita, impartito le benedizioni; poi fu gettato fuori dall’aula, trascinato per le vie e, fra le urla della plebaglia gettato nel Tevere. Stefano VI fu poi, sotto il suo successore Romano (897) e per opera della fazione a lui avversa, gettato in carcere e strozzato.
Il papa Cristoforo (901-904) fece assassinare il suo predecessore; ecc. ecc….
Le sorti del papato furono per lungo tempo nelle mani di donnacce, Teodora I, Teodora II, Marozia. Questa nel 904 pose sul seggio papale il suo favorito Sergio III, da cui ebbe un figlio e per molto tempo padre e madre furono raccomandati nelle preghiere ufficiali della Chiesa.
Il secolo X vedrà, fra tante ignominie che continuano il secolo precedente, quelle di Giovanni XII (955-964).
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