IL RINASCIMENTO DI MACHIAVELLI

Ritratto di Niccolò Machiavelli
Santi di Tito (1536–1603)
Palazzo Vecchio – Firenze
Olio su tavola cm 104 x 85
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Fare i conti con Machiavelli non è mai stato facile, ma non è mai stato possibile ignorarlo. Le sue opere e le sue idee ebbero una fortuna immensa, entrarono come componente fondamentale della cultura europea, e tuttavia provocarono sempre una sorta di disagio. Atei e libertini, come venivano chiamati nel Seicento i rappresentanti della cultura non conformista, accolsero le dottrine di Machiavelli, che sembravano il quadro fedele della realtà politico-sociale dell’Europa seicentesca; ma contemporaneamente Machiavelli diventò uno dei bersagli preferiti della cultura tradizionalistica e apologetica, uno degli autori maledetti. E anche quando la cultura moderna inglobò molti degli insegnamenti machiavelliani nelle grandi sintesi della filosofia politica del Seicento, le idee del segretario fiorentino vennero sempre incluse in una cornice sistematica, che in qualche modo doveva renderle più accettabili, smorzarne la forza polemica.
L’idealismo e lo storicismo, nel secolo scorso e in questo, tentarono il « ricupero » di Machiavelli, la comprensione diretta del suo pensiero al di là di qualsiasi mediazione. Eppure l’ombra proiettata su Machiavelli da una tradizione sfavorevole non fu cancellata. Una cultura impregnata di moralismo, ispirata al rigorismo vittoriano o all’ordine guglielmino non doveva poi riuscire tanto facilmente a intendere il pensiero di Machiavelli, che della società moderna aveva messo in luce proprio gli aspetti che la morale « borghese » tra Ottocento e Novecento tendeva a nascondere. Era imbarazzante riconoscersi allo specchio impietoso offerto dallo scrittore fiorentino. Spesso gli schemi dello storicismo servirono ad attutire l’urto. Machiavelli venne attribuito a un’epoca diversa da quella moderna. Il mito del Rinascimento pagano, ingenuamente ed esteticamente naturalistico, funzionò benissimo in questa operazione. Machiavelli avrebbe considerato lo Stato come un’opera d’arte: aveva dinnanzi agli occhi la vita delle signorie italiane, spietate e ricche di cultura, creazioni personali di uomini dall’intelligenza sottile, non impedita da nessun pregiudizio, capaci di muoversi, nella creazione del proprio potere, con la stessa libertà con la quale un artista crea la propria opera. Il Machiavelli della tradizione proibita e maledetta veniva accettato e legittimato, ma anche esorcizzato, confinato in un periodo ormai concluso, oggetto semmai soltanto di una nostalgia estetizzante.

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UN PERSONAGGIO INCOMODO

Ma non era tutto qui: non era così facile sbarazzarsi con l’estetismo dell’incomoda” figura di Machiavelli. Il momento della forza, della violenza, della intelligenza-astuzia non era assente dalla vita sociale e politica dei grandi Stati contemporanei, e non era più coperta neppure dall’ambiguo mito retrospettivo dell’opera d’arte. Vennero elaborati altri modi di evasione. Nella tradizione italiana e risorgimentale si vide in Machiavelli un profeta sfortunato dell’unità della patria, un predicatore inascoltato della necessità di costituire anche in Italia un grande Stato nazionale. Perché al mito dello Stato opera d’arte si sostituì il mito dello Stato nazionale; l’unico in grado di riscattare la forza, che costituisce un aspetto ineliminabile della vita politica, l’unico in grado di conciliare ragion di Stato e morale, forza e diritto. Quando e dove la tradizione risorgimentale, sempre così avida di precursori e profeti, non fu invocata, rimase un Machiavelli scopritore del momento astuto e violento della vita politica, un momento reale, ma bisognoso di essere integrato nel momento superiore della vita morale.
Il travaglio nel quale consiste la comprensione di Machiavelli è stato quasi sempre imputato all’unilateralità di Machiavelli stesso, che avrebbe visto nella vita politica solo l’aspetto naturale, quando non addirittura ferino. Ma forse è possibile capovolgere questa impostazione, e dire che tutta la difficoltà della comprensione storica di Machiavelli è dovuta all’unilateralità degli interpreti, che non hanno mai dubitato che esista una morale universale, espressione di un ordine razionale, con la quale la politica dovrebbe fare i conti. In fondo dalla Controriforma cattolica e dalla cultura religiosa dominante nei paesi protestanti dopo le guerre di religione fino alla cultura risorgimentale, vittoriana e guglielmina del secolo scorso, il presupposto di una morale unica, universale e razionale rima-ne inalterato in alcuni suoi tratti essenziali. Con questa morale Machiavelli non è conciliabile: questo deve esser detto subito. Ma bisogna anche aggiungere che questo fatto non costituisce un problema insolubile o incomprensibile, perché quella morale non è una realtà assodata e incontrovertibile, ma una formazione storica, mezzo mito e mezzo realtà, come tutti gli ideali morali che la storia conosce. Il problema della conciliazione di Machiavelli con quella morale è un problema serio per la Controriforma, per le chiese protestanti seicentesche, per certi nostri intellettuali del Risorgimento, per i grandi storici e filosofi della cultura tedesca dell’Ottocento e per i loro epigoni; ma non è mai stato un problema per Machiavelli.

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DALLA PRASSI ALLA TEORIA

Sulla data esatta della composizione delle grandi opere politiche di Machiavelli, le “Istorie fiorentine”…, “Il Principe”…, “Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio”, i filologi hanno sollevato discussioni e difficoltà, ma non c’è dubbio che solo dopo il 1512, anno della caduta della repubblica fiorentina e del ritorno dei Medici a Firenze, Machiavelli, ritiratosi dalla vita politica attiva, si dedica alla composizione dei grandi lavori politici e storici. Nel momento in cui intraprendeva la vita un po’ amareggiata dello studioso, Machiavelli aveva alle proprie spalle una vasta esperienza di politica attiva. Sotto la repubblica aveva ricoperto incarichi importanti e svolto funzioni militari e diplomatiche di rilievo. Le sue missioni gli avevano permesso di osservare da vicino la vita politica di molte signorie e repubbliche italiane, ma lo avevano anche portato alla corte del papa, dell’imperatore e del re di Francia. Si era fatta così una visione europea (dati i tempi, si potrebbe dire mondiale) dei problemi politici, conosceva direttamente í grandi centri effettivi del potere politico. Caduta la repubblica fiorentina e costretto alla vita privata, poteva vedere la propria vicenda e quella della sua città sullo sfondo di quel panorama più ampio, e poteva cercare di capirne le ragioni. Tra il 1512 e il 1513, quando già la repubblica era caduta, scrivendo a quello che ne era stato il gonfaloniere, Pier Soderini, Machiavelli tracciava un bilancio amaro ma lucidissimo della politica fiorentina sotto Soderini, culminata nel disastro. Per capire quello che era accaduto, bisognava abbandonare del tutto la prospettiva nella quale l’ex gonfaloniere si era sempre collocato…

«Io credo, non con lo specchio vostro, dove non si vede se non prudenzia, ma per quello de’ più, che si abbia nelle cose a vedere il fine come le sono fatte e non il mezzo come le si fanno».

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IL FINE E I MEZZI

Ingresso in una città italiana di Carlo VIII

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Non sarebbe difficile ricavare di qui la celebre formula con la quale prima o poi si scontra ogni discorso su Machiavelli: che il fine giustifica i mezzi. In realtà nella lettera a Pier Soderini Machiavelli non fa nessun discorso sul fine, ma insiste piuttosto sulla possibile varietà dei mezzi per raggiungere uno stesso fine. Scipione e Annibale, Lorenzo de’ Medici a Firenze e Giovanni Bentivogli a Bologna, e altri personaggi grandi e piccoli hanno raggiunto gli stessi fini con mezzi diversi. Perché questa varietà di esiti nelle vicende umane? Machiavelli non ha una teoria in proposito, ma qualche opinione da esprimere sì
«Credo che – scrive a Soderini – come la natura ha fatto all’uomo diverso volto, così gli abbia fatto diverso ingegno e diversa fantasia. Da questo nasce che ciascuno, secondo lo ingegno e fantasia sua si governa; e, perché dall’altro canto i tempi son vari e gli ordini delle cose sono diversi, a colui succedono ad votum i suoi desideri: e quello è felice, che riscontra il modo del procedere suo col tempo; e quello, per opposito, è infelice, che si diversifica con le sue azioni dal tempo e dall’ordine delle cose ».
La repubblica di Pier Soderini aveva seguito solo sempre la « bussola » della prudenza, senza preoccuparsi di adeguare gli strumenti di navigazione ai mari da attraversare. Ma la prudenza non serve sempre.
«Giova a dare reputazione a un dominatore nuovo la crudeltà, perfidia ed irreligione in quella provincia, dove l’umanità, fede e religione è lungo tempo abbandonata; non altrimenti che si giovi la umanità., fede e religione, dove la crudeltà, perfidia ed irreligione è regnata un pezzo».
La lettera al Soderini può esser presa come il programma delle ricerche che Machiavelli condurrà nelle opere maggiori. L’appello al corso dei tempi, alle circostanze, a quella che già qui chiama « la fortuna », la quale « varia e comanda agli uomini, e tiengli sotto il giogo suo », gli serve per introdurre nel discorso il riferimento al teatro internazionale nel quale la repubblica fiorentina conduceva la sua politica con i metri di un’angusta amministrazione provinciale. La repubblica era stata restaurata quando Carlo VIII aveva cacciato i Medici, e i Medici erano tornati con la protezione degli spagnoli: la repubblica era nata e morta per vicende di carattere internazionale. Machiavelli aveva conosciuto da vicini i nuovi grandi Stati nazionali, le monarchie che si andavano costituendo, i grandi eserciti moderni. La prudenza soderiniana, devota e comunale, non serve in questo contesto. Quando si tratta di governare gli uomini bisogna tenere conto di quello che religione, crudeltà, umanità, perfidia, buona fede significano di fatto in situazioni determinate, non appellarsi a quello che esse dovrebbero esser in generale. Machiavelli aveva visto con i propri occhi che cosa di fatto erano le istituzioni religiose, le norme della morale tradizionale, i mezzi di dominio dei quali si avvalevano le nuove forme di potere. E non era questione di decadenza; il fatto è che gli uomini sono spiritualmente così diversi come lo sono le loro fattezze. La morale universale, alla quale apparteneva la prudenza paziente e costante di Soderini, è non il quadro generale entro il quale si collocano tutte le azioni umane, ma un mezzo di governo degli uomini in certe circostanze.

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UN FIGLIO DEL RINASCIMENTO

Ritiratosi dalla vita politica attiva e diventato studioso, Machiavelli doveva ora portare a termine il tentativo di comprensione delle vicende politiche lungo le linee tracciate nella lettera a Soderini. Lontano dalle legazioni diplomatiche e dalle missioni militari, non poteva più mescolarsi alle grandi trame politiche nel loro nascere, anche se conservava una profonda conoscenza della vita politica italiana ed europea; ma ora il suo campo di osservazione, il terreno sul quale fare e mettere alla prova interferenze politiche sarebbe stato la storia. In questo Machiavelli era davvero figlio del Rinascimento: la storia era il grande campo dell’esperienza umana, perfettamente conoscibile e ricuperabile, lo strumento per risalire all’origine dei fenomeni umani e per comprenderli. La storia non era più considerata come il teatro d’azione della divinità, una serie di vicende ordinate secondo un piano provvidenziale, ma era intesa come un intreccio di vicende umane, guidate dai moventi buoni e cattivi che sempre spingono gli uomini ad agire.
Il primo grande ricupero storico che la cultura umanistica aveva fatto era stata Roma antica. Gli storici, i filologi, i letterati, gli antiquari del Quattrocento avevano incominciato a penetrare la realtà della storia romana, a capire che Roma antica aveva qualcosa di diverso dalle nazioni cristiane nate dalla dissoluzione dell’impero romano.
In fondo anche i cronisti medievali avevano fatto risalire le loro narrazioni al mondo antico; ma per essi mondo antico e mondo medievale sono tutt’uno, episodi di un’unica grande vicenda divina. E tuttavia Machiavelli si distingue anche dagli umanisti, dei quali impara la lezione. La continuità tra mondo antico e mondo moderno è dovuta al fatto che le vicende di Roma antica sono anch’esse frutto degli stessi moventi che stanno dietro ai più modesti delitti politici di un piccolo signore italiano del Cinquecento.
Nel proemio delle “Istorie fiorentine”, scritte per incarico del cardinal Medici, affidatogli nel 1520, Machiavelli riconosceva negli umanisti Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini i due maggiori storici di Firenze che lo avevano preceduto, ammetteva anche di aver voluto in un primo tempo imitarli; ma in seguito aveva « trovato come nella descrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con í principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte del tutto taciuta e quell’altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno ».
Prima delle Istorie fiorentine Machiavelli aveva già scritto i “Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio”, e aveva già corretto il classicismo umanistico che aveva ispirato le storie di Firenze di Bruni e di Bracciolini. Per questi umanisti Roma antica non era certamente più quella che poteva essere per i Villani o per Compagni: essi sapevano che tra Roma repubblicana e Firenze del ‘400 c’erano stati l’impero romano, le invasioni barbariche, l’affermarsi del cristianesimo, l’impero carolingio, l’età dei comuni; e tuttavia essi vedevano ancora in Roma repubblicana un momento ideale al quale in qualche modo intendevano ricollegare la loro Firenze, roccaforte della libertà comunale, in lotta contro la tirannide dei Visconti. Questi miti politici e storiografici sono caduti per Machiavelli, che non crede più alla florentina libertas degli umanisti e alla loro visione un po’ edificante di Roma antica. La descrizione che essi hanno dato della storia di Firenze gli sembra inaccettabile, perché non mette il dito sul nodo essenziale dei problemi politici: i contrasti interni di una società. Di fronte a questo problema gli umanisti avevano un atteggiamento medievale, « dantesco »: conoscevano i contrasti e li deprecavano, come se ci potesse essere una società senza contrasti interni. Il problema è invece, per Machiavelli, quello di capire i contrasti interni, senza scandalizzarsi di essi. Anche la storia romana, l’augusta storia romana, è storia di contrasti interni, di lotte civili, e questa è la ragione per cui meditare sulla storia può aiutare a capire la realtà presente, soprattutto quando l’esilio ha tagliato i legami con i grandi centri politici del presente. Il legame tra il presente e l’antico, tra Firenze e Roma è non tanto il legame tra uno stato di grazia, sia pure in qualche misura ricuperabile, e uno stato di decadenza, quanto il legame tra due situazioni confrontabili, perché fatte della stessa materia umana, instabile e difficile. Roma è un caso, storicamente legato all’Europa moderna, di disciplinamento e incanalamento di quel materiale umano, un esempio di successo nel governo politico degli uomini.

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SULLA STORIA DI ROMA ANTICA

Caterina Sforza – Ritratto di Marco Palmezzano

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Dallo studio di Tito Livio (ma alla luce di molti altri storici e filosofi dell’antichità, da Aristotele a Polibio) in questa prospettiva, nasceva un’interpretazione originale della storia di Roma. Le considerazioni di Machiavelli sono dominate dalla preoccupazione per la storia costituzionale romana vista sullo sfondo della storia sociale. I grandi contrasti tra plebe e patriziato sono stati la principale salvaguardia della libertà e della potenza della repubblica romana, perché quei contrasti finiscono con il determinare la creazione di un ordinamento politico che prevede la partecipazione della plebe alla vita dello Stato, ma come plebe distinta dal patriziato. Solo se la plebe resta tale, e come tale partecipa al governo, lo Stato evita di diventare una piccola oligarchia chiusa e timorosa come Sparta nell’antichità e Venezia nei tempi moderni. Ma questo tipo di sistemazione interna è strettamente legato alla politica esterna dello Stato. L’equilibrio tra patriziato e plebe può essere mantenuto solo dando una forte spinta espansionistica allo Stato; d’altra parte solo la disponibilità della forza anche militare costituita dalla plebe è il presupposto di una politica espansionistica reale.
Nei “Discorsi” queste considerazioni sulla storia romana sono continuamente condotte in corrispondenza ai grandi temi della politica moderna, e molto spesso Machiavelli introduce contrapposizioni tra Roma e Firenze o le altre potenze italiane. Le condizioni che hanno permesso a Roma di crescere e di mantenersi per tanto tempo sono in fondo le condizioni nelle quali operano i grandi Stati nazionali moderni, e che non hanno saputo realizzare gli Stati italiani. Roma ha saputo stabilire rapporti di equilibrio tra patrizi e plebei avviando una politica di espansione; così hanno fatto gli Stati nazionali moderni, mentre Venezia ha preferito lo sterile modello di Sparta e Firenze ha oscillato tra il modello spartano-veneziano e quello ateniese.

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IL PROBLEMA DELLO STATO UNITARIO

Il fallimento italiano in generale, e fiorentino in particolare è dovuto al fatto che in Italia son venute a mancare le condizioni che hanno permesso a Roma di formare un grande Stato unitario equilibrato all’interno e dotato
di una forte spinta verso l’esterno. Se non ci sono queste condizioni non si può realizzare il modello romano, e non si possono neppure applicare le norme di comportamento generale e individuale che hanno elaborato i romani. Gli uomini sanno sempre giudicare i fatti particolari, presi uno per uno; ma i giudizi generali, dai quali dipendono i grandi orientamenti politici, sono relativi alle condizioni specifiche di equilibrio sociale, e le norme generali che vanno bene in certe condizioni non vanno bene in altre. La religione, la morale, le virtù tradizionali, le istituzioni politiche funzionano in presenza di condizioni sociali opportune, e non possono essere applicate a situazioni nelle quali quelle condizioni non si verifichino. Se questo è vero, nulla di più sterile dell’idoleggiamento delle forme antiche dove queste non son più possibili. Il legame tradizionale tra storia italiana e storia romana è rovesciato da Machiavelli. Certamente un legame esiste, ma proprio perché i potentati italiani son nati in un certo modo dalla dissoluzione dell’impero romano, la politica romana non può più essere ripetuta in Italia. Ora l’Italia può semmai tentare altre forme di riorganizzazione, tenendo conto che in essa esistono potenze sterili come Venezia, abnormi come il papato, che essa è diventata la regione nella quale s’intersecano le sfere d’espansione degli Stati nazionali. “Il Principe” addita proprio una delle vie lungo le quali l’Italia potrebbe trovare ancora spazio nella politica internazionale. L’Italia non presenta le condizioni di equilibrio sociale delle quali godeva Roma o delle quali godono gli Stati nazionali. In Italia esistono repubbliche oligarchiche che tendono a chiudersi in se stesse, piccoli potentati violenti, sfere d’influenza straniere, il papato: in nessuna di queste condizioni si può avviare un processo di partecipazione della plebe (in termini di storia romana) o del contado alla vita politica; al contrario s’instaurano oligarchie e tirannidi. Ma allora la via da battere può essere proprio questa: sfruttando gli interstizi, che sempre il corso non razionale degli eventi storici offre, è possibile, con concentrazioni di potere piccole ma forti, creare situazioni di fatto in grado di crescere, di decollare politicamente. L’ Italia non ha altra strada.

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LA LOGICA DELLA STORIA

La diagnosi storica dell’umanesimo fiorentino quattrocentesco è capovolta. Il legame tra Firenze e Roma, così caro a uomini come Salutati, Bruni, Bracciolini, è per Machiavelli uno dei freni della politica fiorentina, ex dominio dell’impero romano. E l’avvenire dell’Italia non sta certo nella “florentina libertas” cara ai padri. In Machiavelli sembra piuttosto di sentir risuonare gli accenti degli umanisti lombardi timorosi, ma ammirati, della signoria viscontea. L’umanesimo fiorentino ha dato a Machiavelli un altro contributo: da Poggio a Poliziano gli ha insegnato a guardare alla storia più della repubblica che dell’impero romano, a diffidare dell’immagine che nell’universalismo trionfale dell’impero romano aveva foggiato di sé, a vedere nel diritto romano più uno strumento di dominio che di giustizia, a guardare con interesse ai conflitti interni che forniscono a Roma la grande molla dell’espansione. Inoltre il ritorno all’antichità classica, che Machiavelli riprende dalla cultura rinascimentale, è intrapreso alla luce dell’esperienza del mondo moderno e con la capacità di distruggere l’immagine edificante che certa cultura umanistica aveva costruito. Il ritorno all’antichità serve a Machiavelli come strumento per allargare il discorso sulle vicende alle quali egli stesso aveva partecipato, per intenderne la logica segreta. In questa prospettiva egli scopre che gli uomini non sono guidati dai principi con i quali interpretano poi le loro azioni, che gli Stati non dipendono dalle virtù dei governanti. Ci sono situazioni oggettive, difficoltà naturali, condizioni sociali, precedenti storici che reggono le sorti degli Stati e alle quali gli strumenti di governo devono essere adattati. La morale e la religione sono sempre anche mezzi di governo, e come tali non sempre funzionano bene.

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UN PENSIERO VOLTO VERSO L’AVVENIRE

Il papa Giulio II (Giuliano della Rovere)

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Si è parlato di Machiavelli naturalista, di Machiavelli primo scienziato della politica, il Leonardo o il Galileo della politica, di Machiavelli freddo e oggettivo come un medico di fronte alle vicende degli uomini. Possono esser tutte formule vere; ma spesso non sono più che metafore, che rivelano l’imbarazzo del quale parlavamo all’inizio. Machiavelli segna in realtà la presa di coscienza del nuovo assetto europeo e il tramonto definitivo degli ideali universalistici del Medioevo e di certo umanesimo. Questa presa di coscienza viene proiettata nell’interpretazione del passato e dei legami tra il passato classico e il presente. Avvalendosi in parte delle scoperte della filologia umanistica e forte delle esperienze del presente Machiavelli riesce a tracciare una nuova interpretazione della stessa storia di Roma antica. Ma, poiché mantiene fermo il postulato rinascimentale del continuo riferimento all’antichità classica, e poiché ha abbandonato l’idoleggiamento del passato, Machiavelli stabilisce í rapporti tra presente e passato guardando al modo in cui Roma antica ha saputo padroneggiare una materia così difficile e indocile come la natura umana.
Attraverso queste complesse mediazioni, attraverso la diagnosi precisa del presente, attraverso la ricostruzione di una storia antica non idoleggiata, Machiavelli perviene alla formulazione del problema politico in termini di rapporti di forze sociali; e questo costituisce l’aspetto più caratteristico della sua opera. È un punto che non può esser offuscato da nessun compromesso o aggiustamento. Machiavelli non rappresenta il momento naturalistico, da superare in quello spirituale, o il momento politico da superare in quello morale, o il momento tecnico da superare in quello filosofico. Machiavelli ha voluto proprio negare tutti questi superamenti, ha voluto proprio negare l’esistenza di quella morale universale stoico-ciceroniana-cristiana che aveva sempre impedito la presa di coscienza della realtà politica presente e che aveva ingannato anche gli umanisti fiorentini sulla vera essenza della storia antica e sui rapporti tra presente e passato. La morale dipende anch’essa dalle condizioni della società, dai rapporti di forza che in esse operano. La prudenza ciceroniana di Pier Soderini in un contesto politico nel quale non si prendono più grandi decisioni autonome e nel quale perciò occorre l’astuzia, provoca la caduta di Firenze. L’intelligenza politica diventa violenta e astuta quando i termini del problema politico sono i piccoli potentati al margine dei grandi Stati; diventa )a forza che fonda )e morali e le religioni storiche, come in Mosè o in Romolo, quando fa i conti con i grandi equilibri sociali e porta popoli interi a governarsi da sé.

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L’INSEGNAMENTO ATTUALE DI UN GRANDE REALISTA

Il quadro delle condizioni elementari della vita politica tracciato da Machiavelli sarà arricchito nei secoli successivi di molti tratti; del resto esso è stato modellato su una realtà politica storicamente determinata. Ma il pensiero di Machiavelli non sopporta nessun cappello edificante, che ne copra pudicamente i) messaggio. Egli ha dato alla nostra cultura la critica più stringente della concezione provvidenzialistica della storia e universalistica della morale. Ogni tentativo di edulcorare la diagnosi machiavelliana è un modo edificante e ipocrita di cancellare un aspetto fondamentale del problema politico e rientra tra i mezzi di governo che consistono nell’adulterare agli occhi degli uomini gli aspetti reali delle forme di governo, un mezzo che il cancelliere fiorentino già conosceva.

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