LA MORALE DEI GIUDEI E DEI CRISTIANI

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Il riferimento alla legge è un ingrediente fondamentale della tradizione etica greca: nella trasformazione della civiltà feudale in civiltà cittadina la legge diventa uno degli strumenti fondamentali per mantenere la coesione sociale. La virtù, che nel mondo feudale è costituita dalle imprese e dagli atteggiamenti che si addicono a un giovane guerriero, a un vecchio saggio, a una donna pudica e fedele, nel mondo dominato dalla legge è l’insieme degli atti conformi appunto alla legge.
Il riferimento alla legge non è esclusivo del mondo greco: la trasformazione del mondo ‘eroico’ in mondo contadino, artigianale o mercantile è spesso accompagnata dall’emergenza della legge come canone ultimo di comportamento e di giudizio. Questo processo può essere indirizzato verso la costituzione della civiltà cittadina, come in Grecia, o verso la costituzione di grandi regni con apparati amministrativi, come nei settori sud-orientali del Mediterraneo; ma sempre la legge tende a sostituirsi ai legami personali e parentali del mondo ‘eroico’, sia che l’autorità della legge venga fatta risalire a un mitico legislatore, e tragga la sua forza dalla tradizione e da un certo equilibrio socio-politico, sia che la legge sia vista come il volere del re e tragga la sua forza da un apparato burocratico.

Tuttavia la morale greca nasce da un particolare atteggiamento verso la legge, atteggiamento che ha caratterizzato fortemente e in modo particolare la cultura greca. Per i greci fu sempre difficile fare riferimento a una legge comune unica: il loro mondo politico-culturale fu sempre un mondo pluralistico e particolaristico, e ogni comunità greca ebbe le proprie leggende sulle origini, una propria tradizione religiosa, ordinamenti politici propri.
Ben presto i greci ebbero coscienza della differenza delle leggi e addirittura dei principi legislativi che governano le diverse comunità elleniche; e non fecero nulla, per molto tempo, per superare lo stato di divisione della loro stirpe, che, anzi, le varie comunità entrarono in reciproca competizione e svilupparono una forte tendenza al confronto e alla critica reciproca.
L’ideale panellenico, il tentativo di trovare e proporre qualcosa di comune a tutti i greci, nacque solo nel V secolo a.C. in un’atmosfera culturale nella quale si tendeva a sottovalutare l’importanza delle tradizioni locali.

Una delle tesi della sofistica fu appunto che ovunque tutti gli uomini sono uguali, o almeno non hanno originariamente le differenze sociali e politiche che la legge attribuisce loro. Per la legge gli uomini sono mariti, padri, figli, sudditi, sovrani, plebei, nobili, magistrati, cittadini, schiavi ecc., mentre per natura gli uomini, come gli animali, sono solo migliori o peggiori, più forti o più deboli: le leggi non sono che gli strumenti tipicamente umani con i quali i più forti dominano sui più deboli. La forza della legge non consiste nella tradizione sacra che sta dietro ogni corpo di leggi, non sta nella bontà degli ordinamenti dati dai legislatori mitici, non sta nella parola sacra del re: la forza della legge sta nel dominio di una parte degli uomini sugli altri. Da questo atteggiamento nacque uno dei tratti fondamentali di quello che è stato spesso considerato il razionalismo greco: la cultura greca, cioè, si riconobbe il diritto di criticare la legge vigente e di risalire alle sue spalle, per cercare un contatto diretto con la natura.
Nacque così l’idea che esiste una legge naturale al di là della legge politica, e che la legge politica può essere confrontata con la legge naturale, studiata alla luce di questa e anche giudicata e criticata.

In un rapporto di questo tipo con la legge politica si radicò la nascita della morale come disciplina del comportamento individuale. Nel momento in cui la legge diventa uno dei punti di riferimento del comportamento dell’individuo, ma non l’unico, perché le leggi sono molte, possono essere mutate e nessuna copre la totalità del comportamento del singolo, emerge la domanda di criteri di orientamento che non sono contenuti nella legge.
Molto spesso si è esaltato questo fatto come un progresso dello spirito umano, si è visto nell’etica uno strumento di guida dell’uomo migliore della legge, perché più adatto all’individuo, capace di cogliere sfumature assenti nella generalità della legge.
La storia seria non si occupa di queste questioni.
Tuttavia non bisogna nascondersi che l’etica razionale greca di fatto si configurò spesso come un veicolo di mantenimento di criteri tradizionali di giudizio in un mondo che andava cambiando.

In questa prospettiva anche la religione acquistava una posizione particolare. Nel mondo antico la religione aveva spesso risentito del processo d’instaurazione della legge. Là dove si era stabilita una legge unica le tradizioni e le credenze religiose avevano subito un processo di unificazione più o meno forte e radicale, spesso accompagnato dall’istituzione di una casta sacerdotale variamente legata al potere politico.
Le potenze religiose furono spesso considerate la vera forza della legge, le garanti del loro mantenimento e della forza della comunità, le punitrici dei trasgressori. I sacerdoti divennero gli amministratori di questa forza divina, coloro che conoscevano gli atti da compiere per propiziarne la potenza, coloro che potevano incanalare e anche sospenderne l’azione punitiva.
In Grecia, come non ci fu un processo di unificazione delle leggi, così non ci fu un processo di unificazione religiosa e di costituzione della casta sacerdotale. Questo non deve far pensare ai greci, e tanto meno ai romani, come a un popolo irreligioso o illuminista. Per i greci come per i romani la religione si mescola a tutti gli atti della vita pubblica e privata; indovini e sacerdoti occorrono ogni momento per compiere in modo tecnicamente corretto i riti religiosi o per interpretare i significati dei segni divini.
Ma questo apparato religioso non può essere collegato con un corpo uniforme di regole, e la casta sacerdotale non costituisce un corpo unitario collegato a un potere centrale. In queste condizioni le pratiche religiose sono collegate alle norme di comportamento più diverse: tradizioni, credenze e regole di vita di ambito familiare e contadino convivono con la splendida religione della città, mentre gli intellettuali cercano di utilizzare la potenza divina come garanzia dei corpi ideali di leggi e di regole che propongono nei loro libri.
La religione diventa cioè un termine di riferimento della vita individuale, ma anche essa è un termine di riferimento che non esaurisce, soprattutto in certi strati della popolazione cittadina, i criteri del comportamento.
Il cittadino colto di una città greca, il romano ellenizzato difficilmente disprezzano le pratiche religiose della comunità alla quale appartengono: essi però dispongono anche di altri criteri di orientamento accanto alla pietà tradizionale della loro patria.

Uno dei termini di riferimento dell’etica è la trasgressione della legge o colpa, un fatto che viene assunto, per così dire, come un dato primitivo. La colpa, cioè la trasgressione degli usi, il compimento di un atto disdicevole è una realtà sentita come molto antica. La colpa mette in moto una serie di azioni compensatorie, che possono essere la vendetta, la perdita dello stato sociale da parte di chi l’ha commessa, una pena comminata dai tribunali ecc.
La colpa mette in moto, però, anche una serie di meccanismi religiosi: la religione non solo offre la garanzia che la potenza divina si dirige contro il trasgressore, ma mette a disposizione
una serie di tecniche per liberarsi dalla colpa e talvolta per evitare il castigo divino. La morale assume il concetto di colpa: quasi sempre ammette più colpe di quelle che non ammetta la legge, anche se, talvolta, non riconosce carattere di colpa ad alcune colpe ‘pubbliche’.
Ma la caratteristica fondamentale sta nel fatto che essa si configura come tecnica per evitare le colpe. Se la legge punisce le colpe, se la religione dà modo di liberarsi dalla colpa, la morale insegna a prevenire le colpe.

Un popolo nel mondo antico ebbe fortissimo il senso dell’unità della legge, della sua origine divina diretta, non mediata neppure dal potere dei re, e nell’unità della legge trovò la garanzia della propria unità spesso mortalmente minacciata dalle vicende politiche cui andò incontro.
Fu il popolo ebreo. Il popolo ebreo faceva risalire la propria storia a un patto di alleanza stipulato con la divinità, la quale aveva dato al suo popolo la propria legge La fedeltà alla legge divenne la prestazione del popolo ebraico; la prestazione divina fu la salvezza del popolo di Dio, serrato prima tra i grandi imperi orientali, incluso nell’uno o nell’altro, trasferito da una regione all’altra, poi immesso nell’impero romano e disseminato per tutto il bacino del Mediterraneo.
La vita ai margini dei grandi imperi, che per i greci si trasformò in frantumazione politica e nel pluralismo della legge, per gli ebrei fu motivo di unità intorno alla legge. Il razionalismo che per i greci si manifestò attraverso il relativismo etico e politico, per gli ebrei si manifestò come adattamento dell’unica legge alla varietà delle circostanze storiche.
La religione mantenne il carattere unitario della legge, e un potente sacerdozio non solo illustrò costantemente la legge, adattandola ai tempi, ma elaborò tecniche per garantire l’osservanza della legge e liberare dalla colpa costituita dalla trasgressione.

Nella loro opera di illustrazione della legge i dotti ebraici vennero a contatto con la filosofia greca, soprattutto assorbirono le dottrine stoiche, e le utilizzarono nel loro lavoro. Gli stoici avevano parlato di unità del genere umano, che avrebbe una unica legge, avevano concepito i rapporti tra gli uomini e la divinità come un patto, avevano assorbito molte pratiche ascetiche (cioè di rinuncia ai beni materiali e ai piaceri corporali) che per la religione sono tecniche di liberazione dalla colpa per farne tecniche morali di prevenzione della colpa.
Con questi concetti si poteva interpretare la legge ebraica e le pratiche con questa connesse.
In questa direzione i dotti ebraici cercarono anche di trovare il contenuto essenziale della legge ebraica, al di là della molteplicità delle sue prescrizioni, spesso legate a momenti della storia passata.
Così gli ideali stoici dell’amore tra gli uomini e dell’amicizia universale entrarono nel patrimonio culturale del popolo ebreo. Ma il popolo ebreo non s’identificò mai con il genere umano, rispetto al quale lo distinse sempre il fatto di ritenersi il popolo eletto, governato in modo speciale dalla divinità.
Il problema della purificazione dalla colpa fu sempre, oltre che il problema del ricupero di un individuo e della liberazione del gruppo dalle colpe dell’individuo che aveva peccato, anche il problema della via migliore per tener fede al patto, che avrebbe determinato l’aiuto decisivo della divinità. La purificazione diventa cioè, non solo l’accesso ai beni religiosi dei quali il gruppo dispone già, ma la condizione perché la promessa divina si realizzi.

Su questo sfondo s’inserì il cristianesimo. E’ credenza comune che il cristianesimo abbia portato una nuova morale, più progredita di quella pagana, che abbia dato al mondo pagano il senso del peccato, che abbia aperto la via a una morale capace di tener conto delle esigenze dei poveri e degli schiavi di fronte ai quali era chiusa la cultura greco-romana.
Nessuna di queste affermazioni è sostenibile. Il cristianesimo ha ampiamente attinto dalla letteratura morale e religiosa giudaica e greco-giudaica. Quando si dice che il cristianesimo si è fatto banditore di una morale più progredita, s’intende in generale per morale progredita una morale di tipo stoico, che era già ampiamente diffusa negli ambienti intellettuali giudaici.

Il cristianesimo predicò la salvezza, cioè la liberazione dalla colpa per mezzo della fede, offrendo una nuova tecnica di liberazione dalla colpa che suscitò l’interesse tanto delle classi alte quanto del popolo. Gli ideali di amore, di uguaglianza tra tutti gli uomini, di superamento delle differenze sociali non erano per altro nuovi, né il cristianesimo si fece portatore di programmi di rivoluzione sociale. La vera novità del cristianesimo fu nella tecnica di liberazione dalla colpa che avviene attraverso la fede nella promessa di redenzione.

La soddisfazione della promessa, con la venuta di Dio e l’instaurazione di un regno nel quale avessero riconoscimento adeguato coloro che avevano adempiuto la legge, fu vista via via come un fatto storico e poi come un fatto lontano nel tempo o riguardante la vita dopo la morte.
In ogni caso l’entrata nel regno di Dio era condizionata alla fede in esso, oltre che dall’adempimento degli obblighi della legge.

La dottrina della salvezza attraverso la fede tendeva a far regredire le tecniche di salvezza per mezzo di esorcismi e misteri ampiamente note al mondo religioso antico.
Il cristianesimo accolse pratiche di questo genere, ma pose sempre come condizione imprescindibile di salvezza la fede nella venuta del regno dei giusti.
A questo modo il patrimonio religioso più tipicamente ebraico passò in secondo piano, e la dottrina cristiana si poté presentare, soprattutto per merito di Paolo, come una dottrina universale, aperta anche al mondo pagano.
L’altro elemento importante del cristianesimo era costituito dal fatto che la salvezza per la fede implicava la costituzione di comunità religiose di attesa della venuta del regno dei giusti. In queste comunità si cominciò a considerare la società vigente come una fase transitoria, e molti precetti dell’etica stoica diventarono non più la tecnica per evitare la colpa e assicurarsi la tranquillità, ma la via per entrare nel regno dove non ci sarebbe più stata colpa.

Attraverso il messaggio cristiano le vecchie regole ascetiche, proprie dei greci, dei romani, degli ebrei e presenti nella tradizione religiosa di tutti i popoli dell’impero romano, le regole morali dello stoicismo trovavano un nuovo legame e venivano riproposte come strumento di salvezza collettiva.
In questa atmosfera nascevano le comunità dei nuovi credenti: proprio il sorgere di questi gruppi sociali nuovi, i problemi della realizzazione delle vecchie regole morali entro queste nuove realtà sociali nelle quali erano inseriti saranno le vie più importanti attraverso le quali il cristianesimo si imporrà.


LA TORAH

Isidore Epstein, “Il giudaismo”

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La Torah, che significa “l’insegnamento” per eccellenza, comprende la dottrina e la pratica, la religione e la morale. La Torah è la diretta conseguenza del Patto del Sinai nel suo duplice aspetto universale e nazionale.
Mentre i Dieci Comandamenti indicano la sostanza e la portata della universale “missione sacerdotale” di Israele, gli altri Comandamenti erano intesi a preparar Israele a quella santità che doveva praticare, in quanto nazione chiamata a diventare “santa per Dio”…
La santità doveva essere introdotta nel dominio religioso e morale. Per quanto riguarda la religione, la santità richiedeva “negativamente” il ripudio dell’idolatria e delle sue avvilenti e degradanti pratiche, quali: i sacrifici umani, la prostituzione sacra, la divinazione e la magia; e “positivamente” l’adozione di un culto e di un rituale che erano nobilitanti ed esaltanti.
Per quanto riguarda la morale, la santità richiedeva “negativamente” che si resistesse a tutti quegli impulsi naturali che fanno dell’egoismo l’essenza della vita umana; e “positivamente” che si obbedisse a un’etica incentrata sul servizio del prossimo.

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