GIACOMO LEOPARDI – Vita e opere

Al di là dei limiti del tempo entro i quali la sua opera si compì, oltre i confini di una pur evidente sua collocazione nell’ambito della ideologia e della poetica del Romanticismo, Giacomo Leopardi fu uno dei maggiori creatori di poesia che la nostra storia letteraria abbia mai avuto.

Nacque a Recanati, nelle Marche, il 29 giugno 1798, dal conte Monaldo e da Adelaide Antici. Una famiglia nobile ma dissestata nelle finanze e un paese, Recanati, appartenente a una provincia sotto la giurisdizione del più arretrato tra gli Stati italiani, quello pontificio.

Un ambiente familiare difficile e privo di vero affetto, un ambiente sociale stantio, inerte culturalmente…, entrambi peseranno sui primi anni della formazione di Giacomo. Questi, che aveva avuti per maestri il padre e due sacerdoti senza trarne motivi di particolare soddisfazione, si getta sui libri della biblioteca paterna e inizia “sette anni di studio matto e disperatissimo”, che incidono assai negativamente sul suo fisico ma che fanno di lui un autentico prodigio di precoce erudizione. Oltre al latino e al francese, appreso da maestri, affronta da solo e con successo lo studio del greco e dell’ebraico, si dedica agli studi filosofici, traduce testi latini e greci, approfondisce complesse questioni di filologia. Scrive, in questo periodo, numerosissime opere, saggi, traduzioni… prive forse di valore ma assai importanti perchè attraverso di essi acquista padronanza della tecnica letteraria, matura un proprio stile, coltiva e prepara un terreno sul quale sboccerà in seguito la poesia dei canti più belli.

Non vi è dubbio, tuttavia, che in questi scritti eruditi egli trasferisce concezioni estetiche e politiche che rispecchiano il carattere retrogrado della provincia pontificia.
La formazione sua è di tipo settecentesco…, vi prevale l’azione, però, non fine a se stessa ma destinata a divenire sempre più l’elemento portante di un impegno ideale, di una volontà di intervento, di una tensione da “battaglia culturale” che approderanno, infine, a quella che Leopardi stesso definisce la sua “conversione” letteraria.
È il 1815, Giacomo non ha che 18 anni…, avverte l’angustia degli studi filologici, e il suo interesse si sposta dalla erudizione al “bello poetico”.
Egli scopre, cioè, la poesia, nella lettura che compie… per la prima volta… dei grandi poeti del Trecento ( Dante, Petrarca ) e del Cinquecento, intesi come modelli da studiare. Legge le opere dei neoclassici che hanno per lui il senso di una precisa lezione stilistica.

Alla conversione letteraria, segue, dopo qualche anno la “conversione filologica” …, se il primo passaggio era stato dall’erudizione alla poesia, al “bello”, il secondo sarà dal “bello” al “vero”. Giacomo, in questa ulteriore personale evoluzione del Leopardi, l’amicizia con Pietro Giordani, l’ammirazione per l’Alfieri, la conoscenza e la polemica intorno alle idee romantiche. Emergono i segni di quella penosa inquietudine, di quel profondo pessimismo che lo tormenteranno per tutta la sua breve esistenza. In una nota dello “Zibaldone” Leopardi confessava…- “La mutazione totale in me e il passaggio dallo stato antico al moderno seguì, si può dire entro un anno, cioè nel 1819 dove, privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in modo assai tenebroso, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose… a divenir filosofo di professione ( da poeta ch’io era ) e a sentire l’infelicità del mondo… “.

Alle due conversioni un’altra se ne aggiunge, di ordine politico e civile, infatti nel 1818 compone, tra le prime liriche, due canzoni ispirate a sentimenti patriottici.

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Geltrude Cassi Lazzari con i figli, illustrazione di Giuseppe Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi (1905)

Intanto si manifestano concretamente in Leopardi i segni d’un progressivo decadimento fisico, insieme all’intolleranza per la vita recanatese, accentuata forse da una sua prima esperienza di vita… l’amore per la cugina Geltrude Lazzarie nella quale scrive… – “Sono stordito dal niente che mi circonda… Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte… La noia mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolore gravissimo, e sono così spaventato dalla vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione…”.

Matura così in Leopardi l’idea di fuggire da Recanati, proposito che cerca di mettere in atto nel 1819, senza riuscirvi però, a causa dell’intervento del padre. Il fallimento della fuga, alla quale tendeva non solo per ricercare un ambiente più moderno e vivo culturalmente ma per un bisogno insopprimibile di libertà e di azione, aggrava il suo pessimismo, la sua profonda, amara stanchezza.

L’occasione di fuggire di nuovo… e con tranquillità… gli si offre, tuttavia, nel 1822 quando il padre gli consente di compiere un viaggio a Roma. Qui rimane un anno, ma l’esperienza lo disinganna e ritorna a Recanati, convinto ormai che la realtà è cosa ovunque triste e dolorosa. Per due anni resta nel suo paese e vi conosce un periodo di intensa e felice attività creativa. Compone le OPERETTE MORALI, mentre già hanno visto la luce i primi “idilli” (scritti tra il 1819 e il 1821) tra cui, stupendo, L’infinito. Nel 1825 può ancora una volta lasciare Recanati… l’editore Stella di Milano gli propone di dirigere una collezione di classici latini e greci.
Leopardi accetta volentieri ma incontra una grave difficoltà nel clima milanese, estremamente dannoso alla sua salute, sempre più cagionevole. Cerca di porvi rimedio soggiornando ora a Bologna, ora a Firenze e Pisa.

Trascorrono così tre anni, durante i quali scrive (a Pisa, dove gli era sembrato di rifiorire un poco dai suoi malanni) il canto “A Silvia” e la canzonetta “Il Risorgimento”. Ma nel 1928 le sue condizioni si aggravano, il male agli occhi si fa più acuto… è costretto a rinunciare al lavoro e a ritornare a casa. E’ un ritorno disperato, che apre forse il periodo più cupo e tormentoso della vita del poeta, “sedici mesi di notte orribile” come dirà. Eppure da questa angoscia sorgeranno i canti più alti, i “secondi idilli”… “Le ricordanze”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio”, “Il passero solitario”, “Il canto notturno d’un pastore errante dell’Asia”.

Nel 1830, grazie all’aiuto economico di un gruppo di amici toscani… qualcosa che seppur compiuta con le migliori intenzioni appare assai vicina all’elemosina… si reca a Firenze e vi cura l’edizione dei suoi “Canti”. Rimane nella città toscana per tre anni, in piena sofferenza fisica e morale. Frequenta circoli letterari e politici fiorentini, anche se con chiaro scetticismo nei confronti delle speranze e degli ottimismi patriottici dei liberali…, stringe amicizia con un giovane esule napoletano, Antonio Ranieri…, conosce Fanny Tozzetti, di cui s’innamora senza fortuna. Nel 1833, Leopardi accetta di accompagnare a Napoli Ranieri, che era stato richiamato dalla famiglia.
Il poeta pensa che il clima della città partenopea possa giovargli, ma anche questa speranza si risolve in una delusione. A Napoli, stringe nuove amicizie che non valgono tuttavia a confortarlo. Fisicamente provatissimo, si ritira in una località ai piedi del Vesuvio, nei pressi di Torre del Greco, dove continua a lavorare e a scrivere. Compone, tra l’altro, la maggior parte dei suoi scritti satirici e due canti… “La ginestra” e “Il tramonto della luna”. Quest’ultima non riesce a concluderla…, a trentanove anni, il 14 giugno 1837, Giacomo Leopardi cessa di vivere.

IL PENSIERO DI LEOPARDI

“Il fondamento del pensiero leopardiano è offerto dalla filosofia settecentesca… vivere significa soffrire e l’origine di questa sofferenza è riposta nella ragione, che ci dà l’assillo di conoscere la verità, in contrasto con la natura provvida la quale s’adopera invece a nascondere agli uomini appunto la verità. Più tardi il poeta doveva giungere a una negazione ancora più cruda e totale, superando la fase sentimentale, o fantastica, con una affermazione freddamente razionale…, egli aveva concepito… gli uomini come creature della natura. Ora, se propria dell’uomo un’ansia continua di felicità, in contrasto con la ferrea legge del destino umano che nega ad ogni creatura la possibilità di essere felice, poiché l’uomo è stato creato dalla natura, si deve concludere che la natura stessa non è la madre benigna e pia che amorosamente provvede a celare il dolore di cui è contesta la vita, ma è anzi la matrigna crudele la quale ci ha fatti con questa inesausta sete di bene e di bello nel cuore, e poi ha finito per toglierci una a una tutte le illusioni e tutte le speranze. da questo pessimismo estremo discendono le conseguenze… di un pensiero irrimediabilmente desolato…, la vita, anche quando non è infelicità, è tedio, noia…, le creature umane non potranno mai giungere a intendere il tutto, e perciò il loro adoperarsi per sapere e conoscere, è spettacolo quanto mai triste e mortificante…, poiché la vita è più ricca di dolori e di delusioni che di conforto, vale meglio non viverla, considerando la morte come l’unico bene di cui sia dato all’uomo di poter disporre”.

Nonostante questa fosse la profonda convinzione di Leopardi… una convinzione che spalancava dinanzi al poeta un abisso di disperazione… egli tuttavia reagì con grande vigore, avendo il coraggio di guardare la realtà a viso aperto e cercando di salvare i diritti del sentimento, della bellezza, della poesia.

LEOPARDI E IL ROMANTICISMO

Ho posto in evidenza le linee fondamentali del pensiero leopardiano, che per quanto legato alla filosofia razionalistica del ‘700, appare tuttavia pervaso dalla sensibilità tipica di un romantico costretto a vivere in una realtà dalla quale dispera ormai di evadere. Sul piano più specifico delle sue concezioni estetiche, Leopardi accoglie le idee romantiche che si oppongono alla retorica del Classicismo, alla imitazione, al ricorso ai temi mitologici e che esaltano l’importanza del sentimento. Non è d’accordo, invece, con la tendenza del Romanticismo all’evasione nello strano e nell’orrido. D’altra parte egli non considera come novità la polemica dei romantici contro la tradizione classicista… “L’avere queste cose in dispregio – scrive – non ce l’hanno insegnato i romantici”. Per Leopardi la poesia vera nasce dalle “rimembranze” e dall'”infinito”, da una lontananza di tempo e di spazio che toglie alle cose la rigida struttura della realtà e le pone in un’atmosfera sospesa ed indeterminata, come quella dei sogni. Vera poesia è quella che rievoca in ciascuno qualcosa di primordiale, appartenente alla fanciullezza della umanità, un’epoca in cui lo spirito guarda con la tristezza e la nostalgia che si prova per ciò che è irrimediabilmente perduto. Una poesia che non deve raccontare dei fatti, che non deve imitare, ma solo cantare questi sentimenti.

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Manoscritto autografo de L’infinito. (Visso, Archivio comunale)

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LE OPERE

ZIBALDONE” – L’opera che merita per prima una citazione credo sia lo “Zibaldone”, un diario in sette volumi che Leopardi scrisse nel periodo compreso tra il 1817 e la fine del 1832, Non è un lavoro letterario, ma una raccolta assai vasta di annotazioni filosofiche, di appunti di critica letteraria, di filologia, di storia e di pensieri, tra i quali sono inframezzati abbozzi di versi che Leopardi poi utilizzò, inserendoli nelle “Operette” e nei “Canti”. L’importanza dello “Zibaldone” sta nel fatto che esso fornisce una preziosa testimonianza delle inquietudini e della ricchezza intellettuale del poeta.

I primi “CANTI” – A partire dal 1818 Leopardi inizia la sua produzione poetica, rappresentata da quarantuno componimenti che egli raccolse sotto il nome di “Canti”. I primi cinque di essi sono le cosiddette “canzoni civili” ispirate a sentimenti patriottici… “All’Italia”, “Sopra il monumento di Dante”, “Ad Angelo Mai”, “Nelle nozze della sorella Paolina”, “A un vincitore nel gioco del pallone”. Tra queste la migliore è la canzone “Ad Angelo Mai”, meno enfatica rispetto alle altre e dove più acuta è la costruzione psicologica.
Comunque la grande poesia non è lontana…, essa si preannuncia in un gruppo di liriche, che la critica è solita definire “piccoli idilli” del periodo 1829 – 30. Sono cinque brevi poesie composte tra il 1819 e il 1821… – “L’infinito“, “La sera del dì di festa”, Il sogno”, “La vita solitaria”. Si tratta di visioni campestri sulle quali incombe una sconfinata solitudine…, esse si riflettono nella fantasia e nell’animo del poeta, evocandovi ricordi, suggestioni, sogni. Un distaccarsi dalla realtà, un dimenticare per un momento le vicende dolorose della vita, l’accendersi di un barlume di speranza.

OPERETTE MORALI –  Dal 1823 al 1825, scrisse la maggior parte delle “Operette morali” (dialoghi o prose di riflessioni sulla condizione dell’uomo), che costituiscono il suo più serio tentativo di elaborazione ideologica. Sono ventiquattro composizioni (diciannove delle quali scritte nel 1824), alcune in prosa, altre dialogate, qualcuna mista. Non si tratta ovviamente di una esposizione sistematica delle idee del Leopardi, ma piuttosto di una enunciazione di temi, dell’approfondimento di problemi che le sue meditazioni suggerivano, affidati a uno stile completamente libero da pesantezze retoriche. Lo stimolo maggiore al compimento dell’opera derivò probabilmente dalla convinzione maturatasi in Leopardi che “vero poeta è colui che medita filosoficamente l’anima, la natura, il mondo”.

Le principali operette sono… “Storia del genere umano” (storia dell’infelicità umana)…, “Dialogo di un Folletto e di un gnomo” (dove si afferma che l’uomo non è indispensabile alla terra)…, “Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare” (la noia e il dolore nella vita degli uomini)…, “Dialogo della Natura e di un Islandese” (la natura indifferente e nemica dell’uomo)…., “Il Parini o della gloria” (esaltazione della gloria letteraria e dimostrazione della sua vanità)…, “Il Dialogo di Tristano e di un suo amico” (una specie di testamento filosofico dell’autore).

I “grandi idilli” e gli ultimi “Canti” – Dopo un lungo periodo di “silenzio poetico”, durato praticamente sei anni (dal 1822 al 1828), il poeta si ridesta e nell’aprile del 1828, in pochi giorni, scrive “Il Risorgimento” e “A Silvia”. Quest’ultima apre di fatto la serie dei cosi detti “grandi idilli”, la più alta manifestazione del genio leopardiano…,con “A Silvia”, sono le “Ricordanze”, la “Quiete dopo la tempesta”, “Il sabato nel villaggio”, “Il passero solitario”, il “Canto notturno d’un pastore errante”. Il tema degli idilli è lo stesso dei primi canti, la manifestazione del destino dell’uomo, ma più intensa è la commozione lirica che li anima, maggiore è la compostezza del messaggio, coraggiosamente distaccato dalla triste realtà quotidiana, semplice e solenne in forza del valore universale che il poeta attribuisce alle sue affermazioni.

L’ULTIMO LEOPARDI

Dopo i “grandi idilli”, a misura che la vicenda umana del Leopardi si fa più aspra, cresce la sua forza morale, la sua ansia di ribellione, la coscienza orgogliosa del proprio ingegno. Il poeta è animato ora dalla volontà di lasciare un messaggio, sente di voler comunicare le sue convinzioni. Sa che nella filosofia senza speranza che egli propone, può esservi la molla capace di far scattare negli uomini l’eroismo, la capacità di affrontare senza viltà il destino, il germe di una solidarietà che affratelli tutti coloro che l’infelicità prima e la morte poi rende uguali. Non sono più i ricordi il tema della nuova poesia leopardiana, ma il presente, le sue difficoltà, le sue passioni. In questo quadro si collocano le ultime poesie, “Il pensiero dominante”, una meditazione sull’amore, e “A se stesso”.
Scrive ancora opere satiriche (“Palinodia a Gino Capponi” ) e, infine, le due conclusive grandi liriche… “Il tramonto della luna”,… e “La ginestra”. Quest’ultima rappresenta un estremo messaggio di solidarietà umana, verso quegli uomini che a Leopardi avevano riservato solo inimicizia e sofferenza, avendone in cambio il dono generoso d’una poesia destinata – ieri come oggi e per il futuro – a commuovere profondamente gli animi…

LA GINESTRA

Nobil natura è quella
ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato frale…
tutti fra sè confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune….
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Leopardi in un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola)
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