CANTATA DI UN MOSTRO LUSITANO di Peter Weiss (Milva canta Brecht)

CANTATA DI UN MOSTRO LUSITANO di Peter Weiss

Lavoro di teatro con musiche di Giorgio Strehler

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA

“Cantata di un mostro lusitano” o di un fantoccio lusitano, come è più corretto da un punto di vista di traduzione letterale, è il rovescio della medaglia dei “Lusiadi”, è l’anti-poema della conquista dell’Angola da parte dei colonizzatori portoghesi, dai giorni della scoperta di Diego Cao fino agli anni Settanta del secolo scorso. Ma è soprattutto il j’accuse contro i sistemi adoperati in quella parte di mondo dai fascisti salazariani, come “L’istruttoria” lo era stato del macello sistematico compiuto dai nazisti nei campi di sterminio e più tardi “Discorso sul Vietnam” lo sarà dei metodi della repressione imperialista nel sud-est asiatico. Composto a due anni di distanza da “L’Istruttoria”, il dramma propone la brutalità e l’ipocrisia dell’azione colonizzatrice presentando su piani paralleli la pretestuosità delle intenzioni civilizzatrici, le ragioni dello sfruttamento economico del territorio e delle popolazioni che lo abitano, la perversità degli strumenti adoperati per mantenere una condizione di possesso contraddetta dall’incipiente anelito all’indipendenza nazionale, che si traduce nella lotta armata senza quartiere e da condursi fino al risultato supremo.

Il discorso condotto da Weiss sulla particolare vicenda angolana si dilata, comunque, al di là dei termini stessi della rappresentazione per investire un problema più vasto, un problema che ci riguarda da vicino in quanto europei e ‘bianchi’ e ci coinvolge perché, nella nostra vanità e presunzione, ci chiama correi di uno stato di cose di giorno in giorno più drammatico, della violenza che chiama altra violenza, a causa della nostra collettiva indifferenza, dietro la quale si celano gli egoismi dei popoli ben nutriti, la spocchia dei potenti per disposizione divina, del padrone verso il servo, dei fortunati e forti verso gli inermi e poveri di spirito. Se dimentichiamo per un momento che sul palcoscenico si sta raccontando la drammatica storia di una parte di mondo e trasferiamo narrazione e personaggi da una situazione storica ben precisa ad un’altra metaforizzata, riconosciamo come la voce proveniente dal mostruoso fantoccio possa tranquillamente essere quella dei padroni autentici delle società consumistiche, gli uomini e i mezzi adoperati per la conservazione e per reprimere, quelli che nelle piazze del nostro paese cercano di impedire, con cieca violenza, a operai, studenti, contadini, di esprimere il proprio dissenso; se al negro angolano oppresso da un fascismo volgare sostituiamo i braccianti di Basilicata e Calabria condizionati da forme conservative meno volgari certo ma non meno feroci, avremo il quadro di una situazione che si presenta, in termini più o meno analoghi, dovunque il rapporto padrone-servo si presenti in forma di sfruttamento.

Certo, in Angola – come in Vietnam – si tortura e uccide nella stessa misura e con la medesima freddezza di ieri nei campi nazisti e nelle prigioni francesi in Algeria, e pertanto la vicenda drammatica ci immerge anche spiritualmente in un’atmosfera che ci circonda da ogni lato lasciandoci solo relative possibilità di ‘straniamento’ dal particolare per condurci a constatazioni di ordine più generale. Ricordiamo che il nemico non è il portoghese ma l’uomo bianco, questo essere mistificato che si sente padrone e oppressore quando viene a contatto con le popolazioni di colore, questo mostro spaventoso che è stato capace, nel suo non edificante cammino, di sterminare popolazioni e civiltà con ferocia programmata. Guardiamo il colore della nostra pelle: è il colore che distingue il padrone; guardiamo il colore della pelle del nostro vicino: è il colore del servo. Ma padrone e servo sono due categorie che abbiamo inventate per nostra personale convenienza, il rapporto esiste in quanto la nostra attuale potenza ci consente di istituirlo in una determinata maniera. Per conservarlo, questo rapporto, a suo esclusivo vantaggio, l’uomo bianco, il portatore della cosiddetta civiltà, ha inventato gli strumenti della repressione, ha creato gli Hitler, i Franco, i Salazar, gli Stalin, i colonnelli greci, ha stabilito le norme di un assurdo diritto, invoca i miti di irrazionali credenze, ciò che concorre a nascondere, dietro la facciata della irreprensibilità, il sopruso, la sopraffazione, l’utile personale. Tutto questo potrà aver fine solamente, suggerisce Weiss, quando gli uomini e i popoli sottomessi, avendo preso consapevolezza del proprio diritto, trasformeranno in atto rivoluzionario – a tutti i livelli e secondo gli stati oggettivi di mano in mano verificantisi – la legittima rivendicazione di più consone condizioni di esistenza, la richiesta di autodeterminazione del proprio destino, la partecipazione alla gestione dello Stato. Senza dover finire come il povero angolano del dramma di Weiss, ucciso perché pretende di abitare in un albergo riservato ai bianchi, di entrare in una banca, di non essere tormentato, vilipeso, picchiato dal gendarme che tutto questo vuole impedirgli.

ANTIPOEMA E ANTISPETTACOLO

Anti-poema il testo, la messa in scena può essere considerata sul piano dell’anti-spettacolo. Ma proprio per sgombrare il terreno da equivoci sempre possibili e riferendosi a uria regia di Giorgio Strehler, l’espressione va assunta nel significato più schietto e genuino e senza la possibilità di riferimenti diretti, scolastici ed elementari, nella loro precarietà, tanto facilmente consumati e senza sostanziali vantaggi in alcuni fra i recenti e meno recenti tentativi di innovazione drammatica. Da grande regista, da uomo di cultura qual’è, Strehler non ha trascorso quegli anni in un isolamento dorato, ha girato, ha letto, ha studiato, e assorbendo i diversi orientamenti estetici del teatro moderno, è approdato, dopo non facile viaggio, a questo spettacolo che è la riprova di una vivacità intellettuale freschissima e non logorata da venti e più anni di attività. Partendo dalla constatazione che un testo vive prevalentemente sul palcoscenico e che la Cantata weissiana pretende di essere creata così ed è stata creata così, Strehler ha usato il testo come punto di partenza per un discorso effettuale sul concetto di teatro, smitizzando, in fondo, se stesso e quello che egli è stato nei vent’anni di permanenza al Piccolo. Ma lo ha fatto senza premeditazione, riconoscendo la utilità di antiche scelte personali, chiamando a soccorso le esperienze altrui, sincretizzando sul piano della forma l’atteggiamento ideologico, grosso modo coincidente con quello di Weiss, sussumendo taluni moduli creativi dello spettacolo orientale, parte per diretta esperienza di uomo colto, parte attraverso la lezione brechtiana, del Brecht più sensibile alle ipotesi di recitazione ‘distante’, quello dei Lehrstüke, per intenderci, che tanto segno di sé lascia nello Strehler degli anni sessanta come ebbe in quelli precedenti. Ma gli orpelli e le frange, necessarie per carità, degli spettacoli passati, Strehler li ha lasciati in cantina, ha conservato lo spirito dell’impostazione brechtiana dello spettacolo teatrale, l’anelito didascalico che permea la drammaturgia contemporanea che ha una qualche pretesa di contare. Beck e Grotowski lo interessano per quel tanto che possono suggerirgli, lo sfiorano appena, se è di questo che si intende parlare.

 

Peter Weiss

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Lo spettacolo vive in una certa autonomia rispetto al testo perché è concepito al di fuori degli schemi che Weiss indica, ha uno scopo e una funzione proprio in questa libertà che il regista si garantisce continuamente intervenendo con tagli, sostituzioni, chiamate, improvvisi cambi di atmosfera psicologica, provocazioni, ubbidienti alla primaria intenzione di stabilire un contatto non passivo fra scena e platea. Su questa base egli porta avanti il ragionamento sulla condizione della società oggi, che non riguarda in maniera specifica il rapporto bianco-negro (questo rapporto negli USA, ad esempio, su quali fondamenti si articolava se non su quelli dello sfruttamento economico?) ma in termini più ampi interessa l’antinomia padrone-servo, nella quale si celano significati svariatissimi aventi nel colonialismo l’espressione più dolorosa e drammatica. Strehler non vive di ricordi o di illusioni ma parte dalla constatazione che i cicli estetici, come quelli storici, quando sono conclusi non si ripetono più e inutile, quasi disumano, risulta il perseverare nell’intenzione di farli rivivere a ogni costo. Il punto di vista riguarda anche il ruolo che la regia si è assunta nello spettacolo moderno e il grado di partecipazione del regista appunto, degli attori, degli altri protagonisti dello spettacolo, nella messa in scena. Nei diversi momenti della rappresentazione, specialmente in quelli più complessi sotto la specie della penetrazione psicologica, si avverte il soffio vitale del regista, del Maestro viene fatto di scrivere, che circola nei gangli dello spettacolo, e quasi riconosci il volto e i gesti di Strehler nel volto e nei gesti di questo o quell’interprete. Ma poi ti accorgi e sai, perché lo hai visto alle prove, che Strehler accetta anzi sollecita la partecipazione creativa dei compagni di lavoro, riservandosi una funzione maieutica, nel tirar fuori da ogni individuo-attore la parte più vera di sé, costringendolo a una immedesimazione, che non è il gretto partecipare di stanislavskiana memoria (in buona misura derivato da archetipi mattatoriali tardottocenteschi), ma è la consapevolezza di gettare la propria personalità al di là di naturalistiche inconcepibili barriere, di comunicare un messaggio, di lanciare la parola d’ordine della discussione, per chi vuole raccoglierla, o del dissenso, per i poveri di mente. Il palcoscenico diventa, in tal modo, il luogo dove si racconta la storia, si discute la vita, si suggeriscono le soluzioni esistenziali, e gli attori gli strumenti attivi di questa intensa partecipazione. Visto sotto questo angolo di visuale, lo spettacolo diventa la fase iniziale di un discorso nuovo, articolabile in prospettiva, nel quale riversare gli elementi più disparati della tecnica moderna (dalla musica al canto al gesto al movimento) depurato da inconcepibili ipostasi naturalistiche, dove la finzione scenica viene proposta nella sua interezza e da essa prende pretesto la serie delle considerazioni di ordine politico-morale-sociale sullo stato di una determinata società trasfigurata nell’immagine concreta degli avvenimenti angolani e la messa in discussione dei problemi estetici riguardanti il teatro contemporaneo.

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Giorgio Strehler e Milva (1968)

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IL PALCOSCENICO APERTO

Il palcoscenico, completamente aperto, tradisce i piccoli e grandi segreti che le quinte tradizionali e le costruzioni scenografiche di norma nascondono. La nudità programmatica e veridica della scena aiuta gli attori nel gioco di continuo ricorrente di avvicinare personaggi diversi e distaccarsi subito dopo da loro. Solo, sullo sfondo, un mostruoso fantoccio rivestito della classica divisa dei giocatori di baseball, l’enorme braccio sinistro nel duplice atteggiamento del gioco e della repressione. Dalla cavità che sostituisce la testa la voce lugubre, ora suadente ora minacciosa, del dittatore. In una condizione del genere, priva di ogni convenzionalità, gli attori si muovono liberi da tradizionali remore stilistiche alternando parti recitate ad altre cantate, diluendo situazioni ipotizzabili psicologicamente nelle azioni mimiche di chiaro intento demistificatorio, costruendo, infine, con tante tessere staccate, un unicum rispondente alla linea ideologica, matrice sicura del lavoro di Strehler. L’intercambiabilità delle parti, del resto indicata da Weiss, consente di superare lo stadio dell’identificazione psicologica attore-personaggio e pertanto di proporre criticamente e in funzione quasi dialettica una vicenda così piena dei nostri drammi quotidiani eppure, per tanti aspetti, ignorata e quasi respinta. Dialettica con chi? Degli interpreti con le fasi più acute del dramma, del dramma con il pubblico, degli interpreti con il pubblico. Alcuni di questi momenti, i più intensi, vengono dopo l’inizio abbastanza rapido e di preparazione, e sono concentrati nella descrizione dei modi disumani di vita in cui vengono artatamente lasciati i lavoratori negri, dell’assoluta mancanza di qualsiasi diritto della popolazione indigena, del paternalismo non privo di sostanziale cattiveria che regola certi rapporti umani e di lavoro.

Mi riferisco principalmente alla scena densa di suggestivi echi orientali in cui le attrici Marisa Fabbri, Milena Vukotic, Savina Scalfi, Marisa Minelli, descrivono l’ignominia dei campi di lavoro, all’altra in cui la medesima Fabbri fa un rapido ma significativo esame dello sfruttamento colonialista tradotto in termini di salario, a quella rappresentante la soggezione che degrada a livelli subumani (protagonisti Giancarlo Dettori, Franco Graziosi, Giustino Durano), alla descrizione dei metodi con cui, ancora oggi, gli indigeni vengono tenuti in condizioni bestiali (protagonisti ancora la Fabbri e Giorgio Del Bene) o al drammatico pianto della donna strappata alla casa e alla famiglia e gettata in prigione (interprete Milva), cui fa da contrappunto un suggestivo coro di donne, disperato nella sua pretesa di portarle aiuto. Alcuni momenti vanno esaminati a parte, in quanto essi pertengono alla interpretazione assai libera del testo weissiano. I1 primo di questi si trova quasi al centro dello spettacolo e riguarda le paure, i miti, le angosce che pongono il negro in condizioni di inferiorità di fronte al bianco conquistatore e lo costringono a rifugiarsi molto spesso nella foresta e lì non di rado a soccombere. L’azione è totalmente mimata (il mimo è Massimo Sarchielli): il lavoratore negro messo al bando da leggi irrazionali e costretto, nonostante la fatica, i malanni fisici e morali a forme di attività coatte, disumane, mal retribuite, lascia la comunità che lo sfrutta e respinge e si ritira nelle foreste avite. Ma è oppresso, suggestionato da antichi terrori, inseguito da una muta inferocita, non può trovare l’oasi che cercava perché l’oasi non esiste. La foresta non gli è più amica, lo circondano le voci delle sue paure, quella che gli viene da disagi di ambientazione, l’altra che gli nasce dentro, prodotto di tabù ancestrali e dell’inconsapevolezza. Egli è solo, disperatamente solo con le voci che lo costringono a fuggire conducendolo fatalmente alla morte. Non si salva, non può farlo perché gli fa difetto l’apporto della coscienza e gli manca l’appoggio dei compagni.

Un altro momento particolare riguarda l’interpretazione della scena in cui la serva Aria viene maltrattata e denunciata dai suoi padroni, due operai negri. Qui Strehler suggerisce una soluzione diversa. Operando sulla falsariga delle “Strassenzenen” brechtiane, egli trasferisce la vicenda da un ambito specifico a uno più generale. Gli operai diventano due italiani (Dettori e Durano) e le ragioni che inducono a denunciare la serva altre e forse più banali. Dall’episodio si dipanano considerazioni sulla necessità che gli operai hanno di unirsi per fronteggiare i padroni di tutte le razze e linguaggi, e l’esplicitazione di alcune fra le massime marxiane relative alla soluzione dei problemi economici e morali.

A questo punto lo spettacolo è completamente lontano dalla vicenda, la provocazione non è più soltanto estetica, diviene politica anche estrinsecamente e come tale può o non venire accettata. Terminata la fase dell’analisi sui singoli aspetti della storia angolana, l’autore e il regista traggono la conclusione e lo fanno in maniera inequivoca, rifiutando qualsiasi soluzione di comodo o il compromesso.

Dalle nostre Angole si esce soltanto con l’atto rivoluzionario che sconvolge i rapporti e dà luogo alle nuove strutture. Lo spettacolo si conclude così con la rivolta che nasce dalla disperazione e l’immagine del dittatore travolto dal furore popolare.

Così, in quest’atto di fede, Strehler mette a nudo le sue personali convinzioni in materia di lotta di classe. Lo fa nella misura coraggiosa dell’artista, magari con quel pizzico di ingenua semplicità dei poeti e con sufficiente inventiva. Il coraggio che viene dalla piena consapevolezza intellettuale ed etica di sé, il coraggio che ha trasferito direi gioiosamente nei compagni di lavoro e attraverso il quale noi veniamo in contatto con una pienezza di situazioni politiche ed estetiche, che per convenienza o distrazione tendiamo a nascondere nell’angolo più riposto della nostra coscienza.

CANTATA DI UN MOSTRO LUSITANO di Peter Weiss

Lavoro di teatro con musiche di Giorgio Strehler

Milva

* Milva, nel 1968, con la regia di Strehler, aderisce ad una interessante iniziativa teatrale, che svolgerà un ruolo di rilievo nel panorama culturale italiano: Milva partecipa attivamente al gruppo “Teatro e Azione”, nell’ambito del quale si esibisce con un’opera di forte impatto ideologico e letterario: “La cantata di un mostro lusitano” di Peter Weiss che, radicalizzando in forma estrema le istanze polemiche e didattiche del teatro epico brechtiano, denuncia aspramente la politica coloniale portoghese e qualunque forma di violenza e di imperialismo.

Milva acquista, così, un ruolo significativo all’interno del progetto estetico coordinato da Strehler, che tenta di intrecciare elementi popolari italiani e modelli europei, mettendo sempre in rilievo la dimensione storica del “testo”. … (*Tratto da Milva la Rossa).

VEDI ANCHE . . .

L’ISTRUTTORIA. ORATORIO IN UNDICI CANTI – Peter Weiss

CANTATA DI UN MOSTRO LUSITANO di Peter Weiss – Giorgio Strehler

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