LA COSCIENZA DI ZENO (Il pessimismo giovanile di Zeno Cosini) – Italo Svevo

Statua di Italo Svevo in Piazza Hortis
di fronte al Museo di storia naturale di Trieste File originale di Lucas Aless (Wikipedia)

Il pessimismo giovanile di Zeno Cosini

Il terzo romanzo, La coscienza di Zeno nasce in un momento in cui il pessimismo di Italo Svevo ama piuttosto vestirsi di giovialità che di cordoglio.

La biografia di Zeno è la storia di tanti fallimenti successivi che poi, per un caso ironico, o per un capriccio, la vita si incarica di rendere vantaggiosi.

Zeno è l’uomo che, non sapendo guarirsi con una semplice rinunzia dal vizio di fumare, arriva alla più grave rinunzia di farsi chiudere in una casa di cura (con tutte le comiche e paradossali conseguenze: corruzione della infermiera per avere sigarette, evasione notturna, sospetti sulla fedeltà della moglie che forse in quel momento lo tradirà col dottore). E’ l’uomo che conserva la sua prosperità economica, proprio perchè è sempre deluso nei suoi disastrosi tentativi di fare affari. Per incapacità di esimersi da un vago impegno, sposa la seconda delle sorelle Malfenti, che non amava, dopo di essere stato rifiutato dalla prima e dalla terza, che amava: e trova in costei la moglie ideale. Egli è il malato che accompagna al cimitero molti sani; è l’inetto che salva la posizione finanziaria del brillante cognato Guido, stupendo animale meravigliosamente dotato per il successo. Non ha, o crede di non aver tatto, e riesce a tradire la moglie senza destare il minimo sospetto, mentre il cognato, nelle stesse condizioni, fa nascere un finimondo di gelosie, Zeno è la conseguenza degli altri personaggi di Svevo, per i quali tuttala vita è un male; conseguenza rincarata dall’ulteriore, ironica constatazione che non tutto il male viene per nuocere.

Zeno Cosini malato immaginario

Zeno Cosini, il protagonista più che cinquantenne, è, dunque, un malato immaginario, sempre attento ad analizzare la sua malattia. A scrivere la sua autobiografia è indotto da uno psicanalista che, così, pensa di guarirlo dalla nevrosi. Per questo, nel romanzo sembra venga proposta l’indagine psicanalitica secondo il metodo di Freud, la cui teoria Svevo aveva studiato intorno al 1918, poco prima cioè della stesura del romanzo (1923). Ma contrario al metodo di Freud è già il tentativo del protagonista di auto-psicanalizzarsi.

Dal “preambolo” del romanzo, peraltro, si evince la sfiducia di Svevo nei confronti della psicanalisi, a cui in fondo egli non riconosce alcuna possibilità sul piano della terapia e, anzi, ne ironizza le istanze (“il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivare a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perchè dovrei essere io quello?”), confermandosi nella convinzione che lo stato di “malattia” è un dato permanente nell’uomo e che si manifesta come sentimento alienato della vita (“La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione”). Prova ne è il fatto che nel romanzo la malattia non si risolve. Ad ogni modo, il sentimento della malattia Zeno lo vive in uno stato di continua tensione verso la “salute”, che proprio quando pare stia per raggiungere e tenere, invece gli sfuma e svanisce.

La psicoanalisi come metodo d’indagine

In questa condizione, la psicanalisi vale, se non come terapia, almeno come metodo di indagine dei sintomi della malattia. La quale è coscienza della precarietà e relatività della vita, e resta sempre attuale.

Zeno, in tal modo, è come dissociato dalla sua coscienza: o meglio, il movimento del suo pensiero non coincide con quello dei sentimenti. Questi sono convenzionali e conformistici, il pensiero è spregiudicato ed eversivo. Lo scompenso interiore si rivela nei gesti con cui egli esprime proprio quello che non vorrebbe. Così, mentre agisce per conseguire un risultato, ne ottiene un altro. Quando si dedica tutto in un impegno è la volta che sbaglia; e quando non s’interessa alle cose e alle persone è la volta che tutto gli riesce. Sicché si perde ogni criterio di comportamento, poichè Zeno stesso non sa giudicare se vale più la “furberia” o la “bestialità”.

Risulta, così, evidente la irrisione delle abitudini borghesi di vita (e, ancora, delle istituzioni, come ad esempio il matrimonio): apparentemente manifestazioni di equilibrio e di saggezza; di fatto, segni di pochezza interiore, viltà spirituale, di alienazione.

Nella narrazione si intrecciano due piani, quello del ricordo e quello dell’analisi: il “ricordo” propone i fatti, che però la “analisi” provvede subito a corrodere.

Con questo procedimento il romanzo naturalistico è definitivamente messo in crisi e superato. Il “monologo interiore” è lo strumento narrativo con cui Svevo scardina la sintassi del romanzo ottocentesco e, in ciò, la sua operazione è simile a quella che, ad un livello superiore, fa James Joyce.

La “malattia” consiste nella disposizione a vedere la realtà ridotta a frammenti e a vedere come irrimediabile la stessa scissione della propria coscienza. La “salute” è, invece, la capacità di vivere ogni esperienza con la volontà di farne un momento decisivo della vita, in modo da assolutizzarla in condizioni (o forme o valori) eterne e universali. Così riesce a fare la moglie di Zeno, Augusta che opera sempre la riduzione del reale alla dimensione univoca del “presente”, per potere assumere ogni dato, ogni evento, come esperienza totalizzante. Augusta può in tal modo realizzare interezza di coscienza, poichè in questa aderisce e si adegua pienamente alle cose del momento.

Zeno non riesce a sistemarsi nella dimensione del “presente” perchè la sua coscienza non si accorda mai con la realtà. Ma è evidente che Augusta è “sana” perchè nella sua coscienza ridotta, sente come naturali sentimenti che, invece, sono di fatto distorti e alienati.

Ed è come dire che ella, in fondo, è più ammalata di Zeno, perchè vive da alienata ma senza che la sfiori neppure il sospetto della sua alienazione. In questa ambivalenza della “verità” (“comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire”), in questa possibilità di rovesciare ogni proposizione, ogni pensiero, nel suo contrario è la coscienza della precarietà dell’esistenza che, qui, però scatta in rilievi umoristici più che patetici (“Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva alla vita eterna”, ecc.).

La commistione dei due piani diversi, del comico e del patetico, deriva dall’uso “patetico” che Svevo fa della “allegoria” il nuovo strumento operativo con cui in questo ultimo romanzo compie l’indagine della realtà per meglio penetrarne la sostanza e dissolverne le strutture utilitarie o le incrostazioni moralistiche, e denunciarle come sintomi della “malattia” universale.

Dopo aver “praticato assiduamente per sei mesi interi” la terapia psicanalitica, Zeno si avvede che la cura l’ha reso “squilibrato e malato più che mai”. Anche perchè, per concentrarsi tutto nella cura, per “un anno” aveva smesso di scrivere.

Constatato il fallimento della cura, per ovviare alla noia e rimpiazzare la psicanalisi, decide di riprendere a scrivere, fiducioso che questo impegno possa liberarlo “più facilmente del male che la cura gli ha fatto”.

Naturalmente scrive “la storia” di quella esperienza, che è come una vera e propria parodia della psicanalisi e dello psicanalista che l’ha curato. La psicanalisi risulta, in definitiva, “una sciocca illusione” e il dottore un “uomo ridicolo”. Tanto che fra lui e il paziente, è questo che la sa più lunga e inventa, ma solo per illudere il dottore, confessioni che quello presume di essere lui, con la sua terapia, a suggerirgli. Non passa neppure per la mente all’ingenuo dottore la mistificazione che ci può essere nelle confessioni, tanto più in quelle scritte (specie se chi confessa, parla il dialetto e non lo sa scrivere). La sua specializzazione professionale, anziché utile, gli riesce nociva, perchè lo induce ad affidarsi alle formule (le “benedette confessioni”) e a schematizzare.

Giunge, così, ad attribuire a Zeno la malattia “diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre” (con ciò, ovviamente, è preso di mira lo stesso Freud che nella psiche infantile aveva individuato la presenza del complesso di Edipo).

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L’alienazione professionale

Così, tra i due quello che appare più bisognoso di cure (perchè non sospetta neppure la sua alienazione professionale) appare proprio il dottore. Il paziente si presta, ossequioso, ad illuderlo inventando “immagini che avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive”. “E il dottore registrava. Diceva: Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello”.

Finché non dichiara la guarigione, proprio quando quelle immagini (sui suoi rapporti col fratello, con la madre, col padre) cominciano ad assumere sostanza di autenticità per lo stesso paziente che le ha inventate.

“La vita attuale – scrive Svevo nell’ultima pagina del romanzo – è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinato l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza…,

nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà della mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!”.

“Ma non è questo, non è questo soltanto”.

“Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.

Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi l’inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è I’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati”.

La visione catastrofica del futuro

“Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e si arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.

In realtà, ed è questa la conclusione del romanzo, la malattia non è solo dell’uomo, ma è della vita, la quale è mortale e non “sopporta cure”. Per riportate la salute nella vita, occorrerebbe forse distruggere gli ordigni costruiti per la sua maggiore potenza dall’uomo, che però ha così creato “la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra creatrice”.

Di qui le profezie della distruzione universale che Svevo avanza con raccapricciante lucidità.

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Italo Svevo

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