3 – MUSICA DEL NOVECENTO – IL JAZZ

La mia escursione nel mondo delle note non sarebbe completa senza qualche cenno a una forma musicale straordinaria, sia per le sue origini, che per la sua natura ed espansione: il jazz.

Continuamente manipolato, commercializzato, confuso con la musica leggera, con le canzoni, il jazz conserva tuttavia la nobiltà di una autentica manifestazione di arte, tra le maggiori del nostro tempo. Alcuni critici hanno affermato giustamente che il jazz esprime qualcosa che sarebbe impossibile rendere con altri mezzi, con la parola, ad esempio, o con la pittura. La sua diffusione internazionale dimostra che esso risponde alle esigenze del pubblico del ventesimo secolo; la sua evoluzione testimonia di un costante tentativo di adeguamento alle trasformazioni dei grandi agglomerati urbani. Perché, come scrive Barry Ulanov nel suo “Manuale del jazz” (ed. Feltrinelli, Milano)…

“…jazz è una musica cittadina. Riflette, come poche arti al giorno d’oggi, la concretezza, la sostanza, il caos e i conflitti, l’andatura frenetica e la natura frammentaria della vita, così come la vivono i milioni di persone che affollano i grattacieli di una metropoli moderna. Ma non si accontenta di riflettere questi aspetti dell’esistenza urbana; esso li seleziona, enucleando dalla folla certi tipi di individui, e dicendo qualcosa su ciascuno di loro. E con tutta l’amarezza di un’arte del nostro tempo che cerchi di dare la cronaca della vita urbana, esso descrive la solitudine di chi vive nella grande città”.
Significativo, a questo proposito, è anche il tipo di influenza che il jazz ha avuto sulle altre arti. Relativamente scarsa sulla musica, dove pure autori come DebussyRavelStrawinsky – quest’ultimo in modo particolare – e, ancora, GershwinWeillKrenekHindemith e Milhaud, hanno sentito il bisogno di accostarsi al jazz e riprodurne le tecniche e l’essenza in alcune loro composizioni; poco consistente nella letteratura, ove si eccettui qualche pagina del francese Jean Cocteau e, successivamente, di scrittori americani come AudenKerouac e Lindsay (più profonda, ovviamente, la suggestione esercitata sugli scrittori negri, come Langston Hughes); praticamente nulla sulla scultura e sulla pittura, l’influenza del jazz si è esercitata su un’altra forma di arte altrettanto “cittadina”: il cinema. In molti film d’ambiente tipicamente urbano – “gialli”, polizieschi, storie di drammi aventi come sfondo la città – si è fatto inevitabilmente ricorso al jazz come al commento musicale più adeguato ed espressivo.
Eppure il jazz, all’origine, nella sua preistoria, non era cittadino. Luogo di nascita furono il Sud degli Stati Uniti, le grandi piantagioni di cotone, dove prima della guerra di secessione i negri lavoravano come schiavi e dove, in seguito, continuarono a lavorarvi in condizioni materiali non molto dissimili, ma tuttavia liberi di andarsene, di convergere sulle città, di emigrare al Nord dove l’industria richiedeva mano d’opera a basso costo.
Matrice musicale del jazz fu appunto il folklore, i canti popolari che nacquero tra i negri d’America. Si è affermato che in questi canti echeggiassero altre, più antiche tradizioni delle originarie terre africane e si è voluto vedere nei ritmi jazz una sopravvivenza di quelli scanditi dai tam tam che segnavano il tempo dei balli “woodoo“. In realtà, pur non escludendo qualche sopravvivenza del genere, il jazz non è una musica africana. Nato in una regione – il delta del fiume Mississippi – che aveva visto la confluenza di correnti culturali europee come l’anglosassone, la francese, l’inglese, il jazz può essere considerato il prodotto di un eterogeneo terreno di coltura (dove fiorivano anche la musica latino-americana, e caraibica, quella franco- caraibica, quella afro-anglosassone) dal quale aveva tratto per condizioni specifiche e irripetibili, una vitalità eccezionale, resa ancora più forte con l’accostamento alle grandi comunità urbane.
Base del folklore negro-americano furono da un lato i “work songs” (canti di lavoro) e, insieme a questi, ma ben distinti, i “plantations songs” (canti delle piantagioni) e i “negro spirituals” o “gospel songs” (canti religiosi), Mentre questi ultimi hanno mantenuto una loro autonoma collocazione e fisionomia, i canti di lavoro si sono trasformati nei “blues” (canti di malinconia). Fu questa la prima componente del jazz. L’altra va individuata, invece, nel modo particolarissimo con il quale i suonatori negri, utilizzando una serie di strumenti (prima il solo piano, cui si aggiunsero poi il banjo, il contrabbasso e la percussione) trascrivevano musiche e balli occidentali (polke, mazurche, quadriglie), adattandoli al gusto negro, attraverso una contrazione dei ritmi: era il cosiddetto “ragtime“, tempo sincopato.

Blues e ragtime furono dunque gli ingredienti base della prima musica jazz. Essa veniva eseguita da orchestre (“band“) che avevano arricchito la propria strumentazione con l’aggiunta degli ottoni (cornette, clarinetti, tromboni) e, qualche volta, dei violini, e che si esibivano dinanzi al pubblico dei locali notturni di New Orleans oppure improvvisavano al seguito di funerali o nel corso di feste nuziali. Il blues, oltre che suonato, veniva cantato, particolarmente nelle case di tolleranza, e le prostitute ne furono le prime interpreti.

  
King Oliver
  
“Jelly-Roll” Morton
  
Sidney Bechet 
  
Louis “Satchmo” Armstrong
  
Bix Beiderbecke

Fu questa la prima età del jazz, o periodo del “ragtime“, che durò qualche decennio, praticamente dal 1900 al 1917. Seguì dal ’17 al ’29 l’epoca del cosiddetto jazz antico, caratterizzata da particolari stili di esecuzione (New Orleans, Dixieland, Chicago, New York) e dai loro favolosi esponenti: King Oliver (Abend, 19 dicembre 1885 – Savannah, 10 aprile 1938)…, “Jelly-Roll” Morton (New Orleans, 20 ottobre 1885 – Los Angeles, 10 luglio 1941)…, Sidney Bechet (New Orleans, 14 maggio 1897 – Garches, 14 maggio 1959)…, Louis “Satchmo” Armstrong (New Orleans, 4 agosto 1901 – New York, 6 luglio 1971)…, Bix Beiderbecke, vero nome Leon Bix Beiderbecke (Davenport, 10 marzo 1903 – New York, 6 agosto 1931).
Era il jazz degli “anni ruggenti“, che faceva da contrappunto alle gesta dei contrabbandieri d’alcool e dei gangsters, nelle turbolente metropoli statunitensi.

Subentrò, tra il 1929 – anno della grande crisi economica – e il 1939, anno del secondo conflitto mondiale, una fase intermedia, distinta soprattutto dalla formazione di gran di e raffinate orchestre ma anche da un’accentuata commercializzazione della musica jazz che veniva in tal modo perdendo la sua struggente carica originaria.

  
“Duke” Ellington 
  
“Count” Basie
 Art Tatum  
Benny Goodman

    

Lionel Hampton, Aquarium, New York, ca. June 1946 (William P. Gottlieb 03811).jpg
Lionel Hampton
Billie Holiday     

È il periodo “swing” e protagonisti indiscussi ne sono “Duke” Ellington (Washington, 29 aprile 1899 – New York, 24 maggio 1974)…, “Count” Basie (Red Bank, 21 agosto 1904 – Hollywood, 26 aprile 1984)…, Lionel Hampton (Louisville, 20 aprile 1908 – New York, 31 agosto 2002)…, Art Tatum (Toledo, 13 ottobre 1909 – Los Angeles, 5 novembre 1956)…, Benny Goodman (Chicago, 30 maggio 1909 – New York, 13 giugno 1986)…, la grande e tragica Billie Holiday (pseudonimo di Eleanor Fagan Gough, nota anche come Lady Day; Baltimora, 7 aprile 1915 – New York, 17 luglio 1959)… e altri ancora.

Va detto che di fronte al fenomeno della commercializzazione del jazz (cui nessuno dei suoi interpreti vuole e può sottrarsi) molti reagiscono, suonando nei locali pubblicico sì come impongono gli impresari e il gusto dei borghesi, ma rifugiandosi poi in luoghi appartati a suonare per se stessi e per pochi appassionati, improvvisando e dando pieno sfogo alla propria esaltazione o estasi creativa: sono le cosiddette “jam session” (sedute jazz).
L’ultimo periodo, che va dal ’40 ai giorni nostri, è quello del “bop”, del “cool jazz” (jazz freddo, in contrapposizione a “hot jazz“, jazz caldo) e del recentissimo “free jazz” (jazz libero). Caratteristica di questa ultima fase è il ritorno all’improvvisazione (abbandonata nell’era dello swing, in cui ogni esecuzione era minuziosamente orchestrata) e ai piccoli complessi, con due diverse tendenze: da un lato, il recupero del jazz antico, dall’altro la spinta a una modifica rivoluzionaria del jazz ( “be-bop“), che in parte è approdata nella scuola del “cool jazz“.
  
Charlie Parker
  
John Birks “Dizzy” Gillespie 
      
 Thelonious Monk
   

Rappresentanti più tipici del be-bop furono giovani musicisti di colore, quali Charlie Parker (Charles “Bird” Parker, Jr.) (Kansas City, 29 agosto 1920 – New York, 12 marzo 1955)…, John Birks “Dizzy” Gillespie (Cheraw, 21 ottobre 1917 – New York, 6 gennaio 1993)…, Thelonious Monk ( Rocky Mount, 10 ottobre 1917 – Weehawken, 17 febbraio 1982). Il bop rap presentava, in sostanza, una specie di rivolta che andava al di là dei limiti musicali per rivestire quasi un carattere politico. Il razzismo, l’ostilità contro i negri, spinse i “boppers” a creare una musica difficile e profondamente negra, tale che i bianchi non potessero impossessarsene. E tuttavia furono proprio gli intellettuali bianchi che compresero e fecero proprio il “bop“, riconoscendovi una carica di ribellione pari a quella che animava loro e assumendolo come la musica più rappresentativa della generazione beat.

Nella borghesia negra e, si può dire, tra i negri in generale, il blues restava invece l’espressione musicale più gradita: un blues “affrettato“, accentuato nel ritmo cosiddetto “jumping” (saltellante), dal quale dovevano derivare il diffusissimo “rock-and-roll” e l’attuale “rithm and blues“.
  
Miles Davis
   Il favore con cui era stato accolto il be-bop stimolò una linea di ricerca che doveva portare al “cool jazz“, cioè a un sostanziale tentativo di fusione tra jazz e musica classica tradizionale e poi, con il free-jazz, a una commistione con la più moderna musica d’avanguardia. Ai compositori negri subentrano i bianchi, come quelli della scuola di California, mentre i negri, da parte loro, propugnano il ritorno al jazz “caldo“.
  
Gerry Mulligan
  
Charlie Mingus
  
“Bud” Powell 
  
Sonny-Rollins
  
Tra gli esponenti delle ultime generazioni jazziste, un posto di rilievo spetta a Miles Davis (Alton, 26 maggio 1926 – Santa Monica, 28 settembre 1991)…, insieme a Gerry Mulligan (New York, 6 aprile 1927 – Darien, 20 gennaio 1996) creatore della scuola californiana…, Charlie Mingus (Nogales, 22 aprile 1922 – Cuernavaca, 5 gennaio 1979)…, “Bud” Powell (New York, 27 settembre 1924 – New York, 1º agosto 1966)…, Sonny-Rollins (Harlem, 7 settembre 1930) e altri.