MASANIELLO

LA RIVOLUZIONE DI MASANIELLO
Quadro di Domenico Gargiulo
detto Micco Spadaro, secolo XVIII

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Fino a qualche anno fa, nello studio della rivoluzione napoletana che prende nome da Masaniello, ha fatto testo un’opera di Michelangelo Schipa, il quale, dopo aver ricostruito con attenta precisione le complesse vicende che si svolsero a Napoli in quegli anni, mettendo in sufficiente rilievo le ragioni sociali della rivolta urbana, definì poi la rivoluzione, nella pagina conclusiva della sua ricerca, un “ciclo di utopie e di scompigli”. Questo giudizio negativo fu esteso dallo Schipa anche agli obbiettivi raggiunti dai rivoluzionari, giacché egli scrisse che il periodo si chiuse « con non altra conquista positiva che la riduzione a metà delle gabelle imposte da Carlo V e l’abolizione definitiva della gabella sulle frutta, sui legumi, sulla spelta e sul granone, più sensibile alla povera gente ».
In realtà, se la rivoluzione di Masaniello fosse stata solo un “ciclo di utopie e di scompigli”, un risultato del genere avrebbe costituito per essa un grosso successo. Ma la rivoluzione del 1647 fu invece un avvenimento assai più complesso ed importante di una ribellione della plebe urbana, svoltasi confusamente e tragicamente conclusasi. Ed anche gli effetti negativi della sconfitta furono assai più gravi di quanto non sia apparso allo Schipa, perchè videro il rafforzarsi del baronaggio, l’arresto della lotta antifeudale, la dispersione e la disgregazione delle forze che vi avevano preso parte. Le ragioni della limitatezza del giudizio che lo Schipa diede della rivoluzione va cercata nel fatto che egli portò la sua attenzione quasi esclusivamente agli avvenimenti che si svolsero a Napoli, trascurando quelli che si ebbero nelle campagne.

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UN VASTO MOTO ANTIFEUDALE
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Un altro storico, Ludovico Pepe, aveva già da tempo, con un suo notevole lavoro, richiamato l’attenzione degli studiosi sulle vicende della rivoluzione nella Terra d’Otranto, ma lo Schipa non raccolse le indicazioni contenute nell’opera del Pepe e preferì accentrare l’attenzione su Napoli e, di conseguenza, sulla figura di Masaniello. La rivoluzione appare perciò nella sua ricerca come una rivolta del sottoproletariato urbano e di altri strati cittadini, causata soprattutto dal malcontento prodotto dal malgoverno spagnolo, con obbiettivi, in fondo, limitati e con uno svolgimento assai confuso. Si trattò invece di un vastissimo moto antifeudale, che si sviluppò sia a Napoli sia nelle campagne, mettendo in serio pericolo il dominio del baronaggio e destando, perciò, la sua più dura reazione.

Il rinnovamento degli studi sulla rivoluzione del 1647 è merito soprattutto di Rosario Villari il quale, in alcuni saggi che sono un’anticipazione di una più vasta opera, ha messo in rilievo la complessità del movimento antifeudale, studiandolo in relazione alla crisi della società europea e spagnola ed estendendo l’indagine alle rivolte che vi furono nelle campagne. In tal modo, quella che era apparsa come una ribellione della plebe napoletana e di altri gruppi della popolazione urbana, appare ora come un grande moto antibaronale, che diede un significato ed una direzione ai moti isolati che già in passato avevano scosso le strutture del Mezzogiorno. Nella grande crisi del 1647, le rivolte contadine e le sommosse locali, fino a quel momento frammentarie e disperse, acquistarono un peso che non avevano mai avuto in passato e che non avrebbero più avuto fino al 1799: le varie spinte si sommarono e diedero un forte colpo all’edificio del feudalesimo. La sconfitta ebbe effetti gravi: il movimento antifeudale subì un riflusso, si frantumò in una serie di episodi isolati e disorganici, privi di efficacia.

LA SOCIETÀ EUROPEA DEL TEMPO

Nella ricerca dello Schipa non solo era stata trascurata l’analisi del rapporto esistente tra città e campagna, tra la grande capitale e province sfruttate ed immiserite, ma era stato anche scarsamente studiato il rapporto tra la crisi della società napoletana e quella che in quegli anni investì la società europea e, in particolare, la monarchia spagnola.

Sulle ragioni che, verso la metà del Seicento portarono l’Europa ad una crisi generale che vide lo scoppio delle rivoluzioni di Napoli, della Sicilia, della Catalogna e della Polonia orientale sono state avanzate diverse ipotesi e ciascuna di esse ha un suo fondamento.
Anzitutto, si possono ricordare le costanti cause di crisi che minavano le strutture della società europea del Seicento: le gravi epidemie che di tanto in tanto spopolavano le campagne e città, riducendone fortemente il numero degli abitanti…, le carestie, i cui effetti devastatori erano quasi altrettanto gravi di quelle delle epidemie…, ed infine le guerre.
Quella dei trent’anni soprattutto gravò in modo assai serio sulle finanze degli stati europei, costringendo i governi ad intensificare la pressione fiscale, che veniva a colpire in maniera più grave gli strati popolari, rendendone più acute le condizioni di miseria. È stato però osservato dall’Hobsbawn che epidemie, carestie e guerre erano elementi esterni alle strutture della società europea del Seicento. In realtà anche in passato esse avevano esercitato la loro azione devastatrice, ed era perciò difficile vedere in esse la causa più importante della crisi della seconda metà del seicento. L’Hobsbawm ha richiamato invece l’attenzione soprattutto sulle ragioni ‘interne’ alla società europea, riguardanti cioè le contraddizioni del suo sviluppo. La prosperità dell’Europa occidentale e centrale era stata costruita infatti su basi piuttosto fragili, che ponevano al suo sviluppo dei limiti oltre i quali era difficile andare.

Lo sviluppo economico aveva riguardato infatti soprattutto alcune parti dell’Europa occidentale e centrale, mentre nelle regioni orientali (ed anche in alcune zone interne all’area di sviluppo) si era rafforzata l’economia fondata sulla coltura estensiva e, di conseguenza, si erano rafforzate le strutture feudali. Le possibilità di un’evoluzione della società europea in senso capitalistico venivano ad essere perciò fortemente limitate: il processo di sviluppo di alcune zone si accompagnava ad un processo di rifeudalizzazione in molte altre, con la formazione di forti squilibri e di linee di frattura. L’incremento demografico, assai notevole nonostante le epidemie e le carestie, non si era inoltre accompagnato ad un aumento altrettanto notevole della produzione agricola.
Nella ricerca dello Schipa non solo era stata trascurata l’analisi del rapporto esistente tra città e campagna, tra la grande capitale e le province sfruttate ed immiserite, ma era stato anche scarsamente studiato il rapporto tra la crisi della società napoletana e quella che in quegli anni investì la società europea e, in particolare, la monarchia spagnola.

L’ECONOMIA SPAGNOLA

Per quanto riguarda l’economia spagnola, va poi ricordato che l’arricchimento della Spagna era avvenuto soprattutto mediante la spoliazione dei territori coloniali. Il commercio con le terre d’oltreoceano si era svolto a senso unico: di conseguenza esso non aveva stimolato la formazione di nuove forze borghesi, interessate ad uno sviluppo delle strutture economiche e sociali della società in senso capitalistico, ma aveva rafforzato le forze feudali. Si deve anche ricordare, per la Spagna, che la stessa vastità dell’impero costituiva una ragione di debolezza. Le diverse parti che lo componevano, infatti, avevano strutture economiche e sociali assai differenti ed il solo elemento di coesione era dato dalla persona del sovrano. In quegli anni il problema di un rafforzamento del potere centrale si pose in modo assai acuto, ma alla consapevolezza dell’esistenza della questione non si accompagnò la capacità di trovare dei rimedi veramente efficaci. La linea politica seguita dai sovrani spagnoli nei rapporti con le province dell’impero mirò infatti, più che a creare dei solidi legami per il futuro, a sfruttare nel momento presente tutte le loro risorse, e se si considera anche il fatto che la pressione fiscale si fondava su calcoli troppo ottimistici per quanto riguardava le effettive risorse su cui si poteva fare affidamento, si comprenderà come la politica spagnola abbia suscitato un malcontento assai vasto e profondo. La monarchia spagnola, inoltre, per attuarla, non si servì di una burocrazia efficiente, che avrebbe dato vita alle prime strutture di uno stato centralizzato, limitando così il potere dei gruppi feudali delle province, ma si appoggiò alle forze locali che meglio erano in grado di garantire l’accoglimento delle richieste di carattere finanziario. Man mano che si andarono accentuando le necessità finanziarie del governo spagnolo si ebbe così un rafforzamento dei gruppi privilegiati e, di conseguenza, delle strutture feudali e semifeudali su cui essi fondavano il loro potere. Le rivoluzioni di quegli anni, esclusa quella della Catalogna, furono perciò opera soprattutto delle masse popolari, che maggiormente sentivano il peso dell’oppressione fiscale e baronale. La classe dei feudatari (a parte le posizioni assunte da singoli nobili) si trovò accanto agli spagnoli, perchè i suoi interessi vitali venivano minacciati dalle insurrezioni contadine e non dalla politica spagnola.

LA CLASSE BARONALE NEL NAPOLETANO E I MOTI CONTADINI

Nel corso dei primi decenni del Seicento c’era stata nel Napoletano una forte ripresa nobiliare. Anche se la classe dei baroni aveva subito delle trasformazioni interne, giacché speculatori e finanzieri, con l’acquisto di privilegi feudali, erano venuti ad affiancarsi ai nobili di più antica origine, nel suo complesso essa non solo aveva mantenuto ma aveva anche rafforzato il suo dominio. I feudatari si erano serviti del loro potere politico per aumentare nelle campagne il peso della loro potenza economica. Avevano cercato di sfruttare più intensamente i loro possedimenti fondiari, servendosi sia dei loro diritti feudali, sia delle loro posizioni di forza locali; avevano accresciuto l’ampiezza delle loro terre, usurpando quelle comuni o costringendo i piccoli proprietari alla vendita; avevano infine accentuato la pressione sui contadini, utilizzando le prestazioni personali. Per ottenere questi risultati i baroni avevano dovuto rafforzare il loro potere privato, con un più intenso e continuo ricorso alla forza. Erano aumentate, di conseguenza, le bande poste al diretto servizio dei feudatari e si era venuta così ancor più indebolendo l’autorità del governo vicereale.
Nella sua “Storia del paesaggio agrario italiano”, E. Sereni, esaminando una mappa rinascimentale di Nardò, in cui durante il 1647 ci furono avvenimenti di rilievo che ricorderemo ampiamente più avanti, osserva…

“Anche nel Mezzogiorno ( … ) si possono rilevare nel paesaggio gli effetti di una iniziativa individuale, grazie alla quale i contadini più agiati o esponenti di ceti medi cittadini vengono moltiplicando gli acquisti di terre, i dissodamenti e le piantagioni nel territorio suburbano. Persino in Terra d’Otranto, ove pure prevaleva la dottrina dell’universale feudalità, la colonia perpetua consente certi sviluppi di tale iniziativa (…)”.

Ma questi processi, negli anni successivi, avevano subito un arresto o un regresso, mentre si era andata rafforzando sempre più la feudalità. Le chiusure di terre, ad opera dei baroni, non venivano fatte per trasformare distese incolte in campi a cultura ma, al contrario, per estendere i pascoli, con la conseguente degradazione e disgregazione del paesaggio agrario e con l’impoverimento dell’economia. Al fenomeno del deterioramento delle strutture economiche nelle campagne si era legato quello dell’urbanesimo. A Napoli vi fu un periodo di forte incremento demografico, che venne ad accentuare la sua posizione parassitaria nel regno, rendendo più grave lo squilibrio tra città e campagna.
Nel corso del processo di rifeudalizzazione la resistenza delle masse contadine all’offensiva baronale fu episodica e frammentaria. Nelle campagne del Mezzogiorno, data anche la frattura esistente tra esse e la capitale, dove il sottoproletariato si sentiva, in una certa misura, legato ai baroni che spendevano a Napoli la rendita agraria, i moti di ribellione si esaurirono quasi sempre in scoppi isolati di furore, in rivolte brevi e sanguinose oppure nel fenomeno del brigantaggio. Nella storia del Mezzogiorno, in realtà, soltanto nei periodi di crisi generale della società í moti contadini hanno potuto assumere un significato politico. Nel 1647 le rivolte contadine isolate, sebbene prive di una direzione unitaria, vennero oggettivamente ad avere un peso unitario e vennero oggettivamente a collegarsi anche con la rivolta di Napoli. La ribellione del sottoproletariato napoletano e degli altri ceti cittadini venne infatti a rompere il fronte urbano, ad evitare la contrapposizione tra città e campagna ed a togliere ai feudatari l’appoggio di Napoli. Di conseguenza essi dovettero fare affidamento soltanto sulla forza delle loro bande e sull’alleanza con gli spagnoli, isolandosi dal resto della popolazione.
Lo studio della rivoluzione del 1647, perciò, se non può essere centrato soltanto sulla città di Napoli e sulla figura di Masaniello, non va nemmeno spostato esclusivamente alle campagne. Si tratta invece di considerare gli avvenimenti di quegli anni in tutta la loro complessità: le possibilità di successo della rivoluzione furono infatti costituite dalla sua totalità, dal fatto che essa vide muoversi, nella stessa direzione se non sulla stessa strada, sia la città che le campagne. Nello stesso tempo, l’assenza di un legame organico tra l’una e le altre fu una delle ragioni che portarono il movimento antifeudale alla sconfitta. Di qui, in un certo senso, il significato emblematico della figura di Masaniello, nelle cui incertezze e nei cui errori si vennero a riflettere le incertezze e gli errori del sottoproletariato urbano, incapace di tramutare la spinta alla ribellione in una precisa azione rivoluzionaria.

MASANIELLO

 

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Tommaso Aniello d’Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello, era nato a Napoli, al Vico Rotto, nel 1620. Aveva provato ben presto su se stesso, dato il suo mestiere di pescatore, la prepotenza dei gabellieri. La moglie, Bernardina, era stata in carcere, per un episodio che è così narrato da Silvana D’Alessio nel suo libro “Masaniello. La Sua Vita e il Mito in Europa”…

« Il bisogno e la fame erano nella casa di Bernardina e la povera donna si avventurava a qualche piccolo contrabbando, per procurarsi un poco di pane a più buon mercato. Un giorno, avendosi comprato poca quantità di farina in uno dei casali di Napoli, ove non essendoci le gabelle della Città si poteva trovare a prezzo più discreto, tentava di portarla nascostamente a casa sua dentro una calzetta, sotto colore che fosse un piccolo bambino avvolto tra le fasce, che per freddo cercava ricoprire con un panno. Lo stratagemma però non ingannava gl’inumani e rigorosi gabellieri che, come dice uno scrittore di quel tempo, cercavano addosso a tutti nei passi ordinari e nelle strade stesse di Napoli, non rispettando neanche le donne nelle parti del corpo soggette alla vergogna. La povera Bernardina, scoperta in contrabbando, fu presa e condotta nelle carceri dell’arrendamento, ove fu sostenuta per circa otto giorni. Il marito, saputolo, corse al posto della gabella a Porta Nolana, indi dall’affittatone della medesima, Girolamo Letizia, per ottenerne la libertà. Tutto fu inutile. Le preghiere, i pianti, le sottomissioni non ottennero alcun effetto. Bernardina non uscì di prigione se non quando fu pagata la multa (cento scudi, affermano alcuni scrittori), che il povero Masaniello potette a stento raggruzzolare, vendendo tutte le masserizie di casa e procurandosi qualche somma in prestito dai suoi parenti. Allorché il misero, consegnato il denaro al gabelliere e presa per mano la moglie, per la via dell’Arenaccia arrivò a casa sua, si volse un momento verso l’officina della gabella, e pieno d’ira e di dispetto: ” per la Madonna del Carmine, disse, o ch’io non sia più Masaniello o che un giorno mi vendicherò alla per fine di questa canaglia ” ».

La narrazione della D’Alessio, comunque si sia realmente svolto l’episodio, mostra in modo assai efficace qual era l’atmosfera creata a Napoli dai metodi di governo spagnoli. Lo stesso Masaniello aveva conosciuto la prigione, giacche, come tutti gli altri pescivendoli, aveva avuto a che fare con i gabellieri. L’avversione del popolo napoletano ai sistemi di esazione era profonda e diffusa e costituì l’elemento sui cui si venne ad inserire, nei giorni della rivolta, l’azione svolta da Masaniello. Sebbene il malcontento provocato dalla politica spagnola fosse assai vasto, il popolo però non identificava il malgoverno con la Spagna. I sentimenti di ostilità si indirizzavano contro i funzionari, non contro il lontano sovrano.

LA GABELLA SULLA FRUTTA – Giulio Genoino

L’episodio che fece da catalizzatore di tutti i motivi di fermento che già da tempo esistevano fu dato, come è noto, dall’imposizione di una gabella sulla frutta.
Si è già detto delle esigenze finanziarie del governo spagnolo e si è anche detto della impostazione prevalentemente fiscale di quella politica. Nel 1646 il governo centrale chiese a Napoli un donativo di un milione e per fare fronte a questa richiesta si decise di ricorrere ad una serie di nuove imposizioni. Secondo l’uso del tempo gli « arrendatori » (appaltatori di imposte) avrebbero anticipato la somma, che avrebbero poi ricuperato imponendo tributi alla popolazione. Il ceto degli arrendatori era tra i più malvisti del regno, perchè essi venivano a rappresentare l’aspetto più evidente di una politica fiscale odiata. La loro potenza economica era notevole, perchè essi avevano accumulato considerevoli fortune e grande era anche il loro potere politico, giacché per l’esazione dei tributi si servivano di una burocrazia e di una milizia private. Accanto alle bande dei baroni, esse costituivano un altro strumento di oppressione nelle mani dei gruppi privilegiati.
L’imposizione sulla frutta, che colpiva a Napoli un genere di vasto consumo e veniva perciò a ricadere soprattutto sugli strati più poveri della popolazione, fu accolta con una generale opposizione. Il 26 dicembre ci fu una prima dimostrazione popolare che impaurì il viceré, il quale fu spinto da essa a promettere l’abolizione della nuova gabella. Ma più tardi si decise di respingere le richieste popolari e di mantenere l’imposizione. I1 3 gennaio infatti vennero pubblicate le tariffe con cui si fissavano i nuovi prezzi della frutta e subito l’agitazione popolare ricominciò. L’atmosfera nella capitale era mantenuta tesa dalle notizie provenienti dalla Sicilia sulla rivolta del popolo siciliano contro l’oppressione fiscale, e dall’attività di propaganda svolta da elementi napoletani, in cui si può riconoscere l’opera di un gruppo che si raccoglieva intorno al Genoino, un’altra figura di rilievo della rivoluzione del 1647.

Giulio Genoino, nato a Cava dei Tirreni verso il 1567 era stato nei decenni precedenti uno dei protagonisti della vita politica napoletana ed aveva acquistato una vasta popolarità per i suoi atteggiamenti antinobiliari. Nella lotta tra il viceré di Napoli, duca d’Ossuna, e le piazze nobili egli aveva preso posizione contro queste ultime. La sua teoria era che « al tempo del re Federico era stata interrotta l’antica e costante parità dei voti tra nobili e popolo, che Ferdinando il Cattolico e Filippo II avevano pensato di ristabilirla e che era tempo ormai di eseguire il loro pensiero » ( Schipa ).
Per questo suo atteggiamento ebbe una vita assai dura: i nobili lo combatterono aspramente, lo costrinsero all’esilio, lo fecero finire in prigione. Nel 1647, ormai vecchio, il Genoino credette che fosse venuto il momento propizio alla realizzazione delle sue teorie, e fu uno dei capi della rivoluzione.

IL MOTO DEGLI “ALARBI”

L’agitazione popolare ebbe una nuova evidente manifestazione il 6 giugno, con l’incendio del casotto della gabella che si trovava al Mercato e che costituiva il simbolo della politica fiscale attuata dagli spagnoli. L’autore di quel gesto
dimostrativo, rimasto per il momento sconosciuto, fu Masaniello che già prima dello scoppio della rivolta si trovò così all’avanguardia del moto di protesta. La sua scelta come capo degli “Alarbi”, cioè di un gruppo di ragazzi che, fingendo di partecipare agli spettacoli festivi che si sarebbero tenuti il 16 luglio (in tale occasione gli “Alarbi” fingevano di dare l’assalto ad un piccolo castello di legno), avrebbero dovuto dare inizio alla rivolta non fu, forse, casuale. A capo degli Alarbi, infatti, Masaniello venne ad avere a sua disposizione uno strumento che poteva dare maggior peso all’azione di protesta a cui aveva dato inizio con l’incendio del casotto. Il 7 luglio ci fu una manifestazione a cui gli Alarbi parteciparono insieme con altri gruppi di cittadini, appartenenti ai ceti maggiormente colpiti dalla politica fiscale: “vaticali” (trasportatori) e bottegai. La dimostrazione non fu diretta contro la Spagna. I cortei che percorsero le strade di Napoli, infatti, levarono il grido: « Viva il re di Spagna, mora il malgoverno », e fu lo stesso Masaniello a volere questa chiara distinzione tra il governo spagnolo e gli esecutori locali della sua politica. Le manifestazioni ebbero un carattere violento, ma non portarono a saccheggi di case private o ad eccidi. Anche la violenza ebbe, per così dire, un carattere emblematico, giacché fu diretta contro i simboli del potere, non contro le persone: si invasero i casotti del dazio, si bruciarono i registri, si fece in tutta la città quello che Masaniello aveva fatto il 6 giugno in piazza del Mercato. La rivolta, pur trasformandosi da protesta isolata in sommossa popolare, non aveva ancora assunto i caratteri di una rivoluzione. Gli obbiettivi restavano limitati e pareva che, se fossero stati raggiunti, il malcontento sarebbe finito.
Il viceré perciò promise nuovamente che la gabella sulla frutta sarebbe stata abolita ed invitò i rivoltosi a ritornare al rispetto delle leggi. Ma già in passato i napoletani avevano sperimentato la falsità delle promesse di abolizione; inoltre, dietro i gruppi di dimostranti c’erano degli elementi che volevano dare alla protesta popolare un significato politico. Il Genoino, in particolare, chiedeva che il popolo riavesse peso nel governo della città, e questa richiesta non riguardava soltanto il campo amministrativo, ma anche quello politico, perchè significava la inversione del movimento che negli ultimi decenni aveva portato al rafforzamento del baronaggio. E proprio contro i baroni si andava indirizzando l’ostilità popolare. Si è detto sopra che il ceto nobiliare si era andato arricchendo di nuovi elementi, soprattutto finanzieri e speculatori. Questa trasformazione può spiegare perché il sottoproletariato urbano, che non aveva diretta esperienza delle prepotenze dei proprietari di terre ma conosceva quelle degli ‘arrendatori’, si sia schierato contro i baroni e si sia venuto a trovare dalla parte delle masse contadine.

LO SVILUPPO DELL’AGITAZIONE E L’ATTENTATO A MASANIELLO

Il popolo, impadronitosi della città, era subito passato alla punizione degli speculatori, assalendo le loro case ed incendiandole. Ma non vi erano stati saccheggi. Masaniello infatti aveva ordinato che non si prendesse niente ed i suoi ordini erano stati rispettati. Lo Schipa, dopo avere affermato che si trattò di un vandalismo, aggiunge che « esso fu sicuramente contrario ad ogni civile moderazione, rattristante e tremendo; ma se inevitabile in ogni tumulto di popolo esasperato e scatenato, ammirabile nondimeno nell’ordine metodico e più nella nettezza di mano con cui per allora venne eseguito ».
L’episodio mostra che tra le masse si andò subito stabilendo una disciplina che contribuì a trasformare la folla dei dimostranti in una forza rivoluzionaria.
Di fronte allo svilupparsi dell’azione popolare, il viceré, poichè la rivolta non appariva diretta contro la Spagna, assunse una posizione temporeggiatrice. Il baronaggio, invece, si preoccupò più vivamente per il senso che stavano prendendo gli avvenimenti: la ribellione, infatti, oltre ad assumere un sempre più chiaro significato antinobiliare, cominciava ad allargarsi alle campagne. Mentre a Napoli il popolo si dava una nuova organizzazione civile e militare, Masaniello acquistava una sempre maggiore autorità.
Gli obbiettivi delle forze rivoluzionarie furono indicati in un documento, steso dal Genoino, in cui si domandava « dopo l’indulto generale per quanto s’era operato e il ristabilimento della durata e forma antica d’elezione per le magistrature popolari, la solita parità di voti e di potere tra popolo e nobiltà, e poi l’abolizione d’ogni dazio imposto dopo Carlo V, e nei bisogni della Corona la sottomissione d’ogni deliberazione al voto popolare: che dovesse essere napoletano il grassiere [addetto all’annona] ed eletto da nobili e popolani, e libera e pubblica la vendita de’ viveri ed esclusi da ogni ufficio gl’ ” incendiati ” (puniti col fuoco da’ tumultuanti) e incisi in marmo que’ capitoli in monumenti da erigersi in mezzo al Mercato e altrove » ( Schipa ).
La parte più importante di queste richieste non riguardava i provvedimenti annonari e fiscali, ma la richiesta di un maggior potere al popolo. Questa conquista, del resto, avrebbe garantito anche l’effettiva applicazione delle altre concessioni. Si è già detto sopra che negli anni precedenti il baronaggio si era andato sempre più rafforzando: la richiesta popolare di dividere a metà il potere con i nobili rappresentava perciò per i baroni una serie sconfitta, perché li poneva in una posizione difensiva e metteva in pericolo il loro dominio. Si comprende perciò la dura reazione dei baroni a queste proposte. Essi decisero di ricorrere ai mezzi di cui si erano serviti fino a quel momento per imporre la loro volontà, cioè alla violenza delle bande private. Per tutta la città furono sparsi gruppi di banditi e si preparò un attentato contro Masaniello, in cui si vedeva, dunque, il vero capo della rivoluzione. Ma l’attentato fallì e da esso la posizione di Masaniello uscì ancor più rafforzata. La rivoluzione urbana aveva raggiunto il punto più alto della sua parabola.

INCERTEZZE E CONTRASTO

Da quel momento però gli avvenimenti presero una direzione diversa. Venne infatti a mancare al movimento, un forte ed omogeno gruppo dirigente, che avesse degli obbiettivi ben chiari. Coloro che avevano guidato la rivolta erano divisi sui nuovi passi da compiere e ciò ridiede forza ai nobili e permise agli spagnoli di riprendersi dai colpi ricevuti nei primi giorni. La questione dell’atteggiamento da assumere verso gli spagnoli, insieme con quella della necessità di trovare un collegamento tra la rivoluzione urbana e quella contadina, erano le due questioni più importanti del momento, che avrebbero potuto determinare il successo o la sconfitta della rivoluzione. Ma proprio su questi due punti le incertezze furono maggiori. Ci fu qualcuno che indicò una chiara linea d’azione, ma essa non fu seguita: Pietro Javarone si oppose alle proposte del Genoino, perchè esse riguardavano solo la capitale ed affermò che i patti avrebbero dovuto essere estesi a tutto il regno, giacché tutto il regno era in rivolta. Si chiedeva in tal modo che Napoli assumesse la direzione della rivolta contadina, collegandosi con le province e superando i limiti di una ribellione urbana; lo stesso Javarone affermò «non convenire voler accomodamento con gli spagnuoli, essendosi sperimentata l’inosservanza delle loro promesse in Fiandra, Catalogna, Portogallo » e che « una volta tirata fuori la spada contro il padrone bisognava gittar via il fodero ». Ma questa vasta concezione degli obbiettivi rivoluzionari non potè trovare una effettiva realizzazione. Il proletariato urbano si era mosso per obbiettivi più limitati ed il gruppo che si era posto alla sua testa non ebbe nè la capacità nè la possibilità di tradurre in azione politica il programma indicato da Pietro Javarone.

TRAGICA FINE DI MASANIELLO

Anche Masaniello si mostrò incapace di dirigere un movimento che aveva assunto tanta ampiezza. Gli avvenimenti che si svolsero nei giorni in cui egli ebbe il potere nelle sue mani non sono del tutto chiari, perchè la leggenda popolare e l’ostilità dei cronisti hanno mescolato elementi reali a fantastici.
Si è parlato di soprusi da lui commessi ed anche di una sua follia, esplosa negli ultimi giorni. Già il 9 luglio, appena il potere fu saldamente nelle sue mani, egli ne avrebbe approfittato per compiere un gesto di vendetta personale. Oltre a far bruciare le case di alcuni speculatori, egli avrebbe infatti ordinato ad un mercante di restituirgli trenta carlini, che questi gli aveva truffato in passato. Più gravi sono le accuse riguardanti gli ultimi giorni del suo governo, ma prima di accennare ad esse, dobbiamo osservare che molte altre cose vanno messe all’attivo di Masaniello.
Va ricordato anzitutto il nuovo ordinamento militare e civile che fu dato in quei giorni alla città: si raccolsero uomini in tutti i quartieri e se ne formò un esercito; si nominarono nuovi amministratori, al posto di quelli odiati dalle masse popolari. Nel procedere alle nuove nomine, preoccupazione costante di Masaniello fu quella di non perdere il contatto con il popolo. Consigliato dal Genoino egli chiamò alla carica di Eletto del popolo Francesco Arpaia, ma volle prima chiedere il consenso dei cittadini, a cui si rivolse dalla tribuna che aveva fatta erigere al Mercato, dicendo…

“Popolo mio, mi dicono che vi è Francesco Arpaia, capitano, uomo di spada nato al Mercato, uomo tanto buono, il quale è stato tanto tempo carcerato in Spagna per servizio del popolo, processato dai cavalieri al tempo del duca d’Ossuna. Che vi pare? Vogliamo mandarlo a chiamare che sta a Teverola? e facciamo esso Eletto del popolo?”.
Il popolo rispose…
“Signorsì, questo è buono, che è poco amico de’ cavalieri ed è de lo Mercato”.

All’attivo di Masaniello va messa anche la sua resistenza ai tentativi di corruzione, di cui parlò egli stesso…

“Sul principio dei nostri giusti risentimenti, pel desiderio di S.E. di veder quietato il popolo, mi offrì con reale magnificenza duecento scudi il mese della propria borsa per tutto il tempo della mia vita, perchè, non passando io più oltre nelle pretensioni da noi richieste, assunto mi avessi il peso d’accordar voi altri nel più breve e miglior modo possibile, la quale offerta con infiniti ringraziamenti sempre mai ho rifiutata”.

Ed ancora tra gli elementi positivi del suo governo va posta l’uccisione di tutti i banditi che fu possibile catturare dopo l’attentato, ‘carneficina’ ha osservato lo Schipa « che purgò de’ più tristi uomini la patria e ne depresse e disperse i protettori » e che « valse anche meglio ad esaltare e a glorificare l’uomo che in soli sei giorni ottenne ciò che in tanti anni non aveano fino allora potuto ottenere i viceré ».

Un atto di giusta politica fu anche la requisizione dei beni dei nobili fuggiti.
E veniamo alla sua follia. Si racconta che, ubriacato dal potere, abbia dato uno schiaffo ad Arpaia ed abbia picchiato Genoino; che si sia comportato in modo penoso il 13 luglio, alla funzione religiosa celebrata in occasione del giuramento del viceré di rispettare i patti; che abbia dato ordini sempre più insensati. Ed è probabile che i molti onori ricevuti da lui e dalla moglie (Bernardina fu ricevuta dalla viceregina, che cercò di spingerla, ma inutilmente, a convincere Masaniello a deporre il comando) abbiano avuto un’influenza nefasta sulla sua mente. Ma la congiura contro di lui, ordita dal viceré, dal Genoino e da altri suoi compagni, non sembra dovuta soprattutto al timore che, vinto dalla pazzia, Masaniello potesse abbandonarsi ad eccessi, ma piuttosto dal desiderio di colpire il capo più amato dal popolo.
Il 15 luglio, di ritorno da una gita a Posillipo, Masaniello fu catturato e confinato nella sua casa. Il giorno seguente, però, egli riuscì a fuggire e si rifugiò nella chiesa del Carmine, dove tentò con un discorso di muovere il popolo a suo favore. Ma questa volta esso rimase indifferente e Masaniello fu portato nel dormitorio dei monaci, dove un gruppo di congiurati lo uccise. Il suo corpo fu trascinato per la città e lasciato vicino al mare, tra gli applausi dei nobili ed anche delle stesse masse popolari che fino a quel momento lo avevano sostenuto. Ma il giorno seguente il prezzo del pane ebbe un forte rialzo ed il popolo allora si pentì di avere abbandonato il suo capo, tumultuò, ricercò il corpo e gli tributò onoranze funebri. Si concluse così tragicamente il governo di Masaniello, un uomo che certamente non fu all’altezza dei gravi problemi che ad un certo momento si trovò di fronte.
Ad ogni modo il fallimento della prima fase della rivoluzione non può essere cercato solo nella personalità di Masaniello, così come il suo scoppio non può essere riportato solo nell’azione svolta dal pescivendolo napoletano.
La follia di Masaniello, il suo distaccarsi dai compagni, la congiura organizzata contro di lui ed infine la sua uccisione, avvenuta il 16 luglio, sono i segni di una crisi che colpiva il movimento rivoluzionario nel momento in cui si rendeva necessario, dopo le prime vittorie, un ampliamento dei suoi obbiettivi e, soprattutto, il riesame dei rapporti con la Spagna.
La mancanza di un gruppo dirigente che fosse in grado di rispondere a queste esigenze fu la ragione più profonda della crisi e della stessa tragica fine di Masaniello.

SECONDA FASE DELLA RIVOLUZIONE

Ma l’uccisione di Masaniello non pose fine alla rivolta. I motivi di malcontento permanevano ed anche l’agitazione fu mantenuta viva. La rivoluzione ebbe così una seconda fase. Questa volta l’iniziativa fu presa dai setaioli che, data l’importanza che aveva nel Napoletano la produzione ed il commercio della seta, rappresentavano uno dei più forti gruppi di lavoratori.
Il 12 agosto circa mille setaioli diedero vita ad una manifestazione in cui chiesero che fosse proibita l’esportazione della seta grezza. Il 21 agosto ci furono nuove, violente manifestazioni popolari, dirette contro gli spagnoli, in cui stavolta si vide subito il nemico da colpire. Il viceré fu costretto a chiudersi in Castelnuovo. Nelle manifestazioni era apparsa la figura di un altro capo popolare, Gennaro Annese, ma il comando fu poi offerto ad un nobile, Francesco Toralcio, principe di Massa, perchè in un primo momento si cercò di avere anche l’appoggio delle forze moderate. L’obbiettivo immediato della rivolta sembrò essere la figura del Genoino, contro il quale nelle ultime settimane si era andato indirizzando il malcontento popolare. Il Genoino fu inviato in Spagna (morì durante la traversata), ma il suo allontanamento non fu sufficiente.
Il 4 ottobre, infatti, la lotta riprese con grande asprezza, tra il popolo da una parte e nobili e spagnoli dall’altra. I soldati spagnoli sparavano sulla città dai. castelli, mentre i baroni operavano con le loro bande nelle campagne, cercando di isolare Napoli. La situazione si andò rapidamente radicalizzando. Un ultimo tentativo di trovare una direzione moderata fu fatto con l’offerta del regno a Francesco Toraldo, ma questi rinunziò e, poichè manteneva contatti con gli spagnoli, fu ucciso. Ormai i compromessi apparivano impossibili. In un discorso fatto al popolo napoletano per suscitarlo alla libertà fu scritto…

“La pace, o miei compagni, è desiderabile e santa, quando non aumenta il pericolo e quando induce gli uomini a potersi riposare; ma quando partorisce effetti contrari, egli è, sotto salutifera medicina, pestifero veleno”.

GENNARO ANNESE E LA FALLITA REPUBBLICA

Ancora una volta un popolano si trovò a capo del movimento: Gennaro Annese. Ancora una volta si trattava di un uomo che si era fatto avanti nel mezzo della lotta e che aveva guidato le masse popolari al momento dell’insurrezione. Annese non era un isolato: accanto a lui c’era infatti un consiglio popolare, c’era un piccolo gruppo dirigente, che cercava di precisare gli obbiettivi della rivoluzione. Se però su quello della lotta agli spagnoli erano ormai tutti d’accordo, c’erano divergenze assai serie sull’assetto che il Mezzogiorno avrebbe dovuto avere dopo la vittoria. Vincenzo d’Andrea avrebbe voluto che esso si. costituisse in repubblica, mentre Marcantonio Brancaccio chiedeva che il regno si desse alla Francia o, se si voleva creare una repubblica, che essa si ponesse sotto la protezione dei francesi.
Fu quest’ultimo parere infine ad avere la meglio (già nei mesi precedenti la Francia aveva cercato d’intervenire nella situazione napoletana) ed il 22 ottobre Gennaro Annese proclamò la repubblica, chiedendo nello stesso tempo la protezione della Francia. Ma l’intervento del francese Enrico di Guisa servì soltanto a ritardare la caduta della repubblica. La situazione infatti fu subito difficile per i repubblicani: la stessa radicalizzazione del movimento, infatti, provocava ad esso nuove opposizioni da parte di quanti vedevano minacciati í loro privilegi.

L’azione svolta dalle bande assoldate dai baroni nei dintorni di Napoli rendeva difficile il rifornimento della città ed una parte del popolo sembrava stanco di combattere. L’arrivo a Napoli di Enrico di Guisa; il 15 novembre, parve per qualche tempo rafforzare le posizioni della repubblica, ma ben presto scoppiarono contrasti tra il duca e l’Annese: questi rappresentava la corrente che voleva spingere avanti la rivoluzione, adottando anche mezzi estremi, mentre il duca si preoccupava soprattutto delle sue ambizioni personali ed aveva l’appoggio delle forze moderate di Napoli. Mentre nelle campagne i repubblicani riportavano notevoli successi, a Napoli le strutture della repubblica si andarono disfacendo, sia per le contraddizioni interne, sia per la politica attuata dal nuovo viceré spagnolo, don Giovanni d’Austria. Questi infatti cercò di spingere i baroni alla pacificazione e promise al popolo l’abolizione delle gabelle e la parità tra popolo e nobiltà nel governo di Napoli.
Il 6 aprile, quando Don Giovanni d’Austria giunse a Napoli, la repubblica cadde senza resistenza e lo stesso Gennaro Annese si schierò con gli spagnoli (ma essi, diffidando di lui; lo impiccarono il 22 giugno).

LA RIVOLUZIONE NELLE CAMPAGNE

Come la rivoluzione urbana ebbe i suoi eroi in Masaniello ed in Gennaro Annese, e quella delle province nei molti capipopolo che assunsero la direzione dei moti locali, così anche la reazione baronale ebbe un suo ‘eroe’, un uomo che, ad un certo punto diventò quasi il simbolo della lotta del baronaggio per la conservazione dei suoi privilegi: Gian Girolamo Acquaviva, conte di Conversano, detto il “guercio di Puglia”. Già negli anni precedenti il 1647 egli era stato per i suoi vassalli il simbolo più evidente della più dura oppressione baronale. Di carattere duro ed autoritario, divenuto nel 1636 feudatario di Nardò, aveva cercato subito di togliere alla città i privilegi, le entrate e le giurisdizioni che le erano rimaste. La lotta si era fatta subito aspra: per piegare gli abitanti di Nardò il “guercio di Puglia” aveva fatto ricorso ai soliti mezzi, cioè alle bande private (le vicende di quegli anni sono state narrate con molta precisione da Ludovico Pepe nella sua opera su “Nardò e Terra d’Otranto nei moti del 1647-48”, a cui ho già accennato).
Nel 1643 però le sorti della lotta sembrarono volgere in senso sfavorevole al conte. Egli infatti fu arrestato per i delitti commessi contro i suoi vassalli e fu anche accusato di lesa maestà. Che il conte fosse sospettato di tramare con i francesi contro il governo di Spagna è cosa che non sorprende e non è nemmeno in contrasto con l’atteggiamento da lui assunto nel 1647. In realtà, se nel momento del pericolo la classe baronale si schierò decisamente con il governo spagnolo, negli anni precedenti vi erano stati, in alcuni gruppi di nobili, sentimenti di ostilità verso la Spagna. Si è detto sopra che la politica spagnola favoriva i ceti privilegiati. L’appoggio dato, per necessità fiscali, agli ‘arrendatori’, che costituivano lo strato più attivo della nobiltà recente, aveva provocato malcontento tra i nobili di più antica origine. Inoltre in diverse occasioni si erano venute a determinare tensioni tra i nobili napoletani ed i ministri spagnoli, contro i quali, da parte del baronaggio, erano state levate più volte delle decise proteste. Infine, l’esistenza di un partito filofrancese che svolgeva una certa attività politica contribuiva sia ad alimentare il malcontento nel seno della nobiltà sia a giustificare la diffidenza del governo spagnolo.
Molti nobili dunque nutrivano i sentimenti antispagnoli di cui fu accusato il conte di Conversano e l’accusa contro di lui fu creduta vera da molti proprio perchè c’era un’atmosfera di reciproci sospetti. Questa atmosfera sarebbe durata fino alla rivoluzione di Masaniello quando, come si è già accennato, il fronte tra baronaggio e Spagna venne a saldarsi in modo assai solido. Nel 1647, ha osservato Ludovico Pepe, « il baronaggio preso di mira si difende, cerca di conservarsi le ricchezze, le gabelle, il castello feudale, dichiarando di difender tutto in nome del Re e, abbandonata la congiura contro la Spagna, si pone alla testa degli eserciti di Spagna ».
Il conte di Conversano rimase in prigione per circa due anni giacché fu liberato soltanto nel 1645 (o nel 1646). Il suo arresto, naturalmente, era stato appreso con gioia, a Nardò, dall’intera popolazione. L’odio contro il feudatario, infatti, era profondamente diffuso in tutta la comunità, dai contadini ai proprietari, agli altri nobili, e ciò può spiegare il carattere generale che la rivolta antibaronale assunse nel 1647, sia a Nardò che in altri luoghi. L’azione più energica contro gli agenti del “guercio di Puglia”, allorché si seppe che per il momento egli non era in grado di nuocere, fu però svolta dagli strati popolari, e per qualche tempo i seguaci del conte si trovarono in una situazione difficile.
Quando, nel 1646, il “guercio di Puglia” ritornò a Nardò la lotta riprese immediatamente: “arrivato in regno ricominciò più fieramente a perseguitare li vassalli di Nardò et l’indusse in istato che non vi era fra loro chi vivesse quieto et non sospettasse ogni momento di essere rovinato, esiliato et assassinato, nè vi era eccetione di persone, di maniera che tanto i laici quanto gli ecclesiastici erano continuamente flagellati con aggravii et persecutioni intollerabili”.
Ma anche contro il forte e temuto conte di Conversano era possibile lottare ed occorre ricordarlo, perchè la rivoluzione del 1647 venne ad innestarsi sulle lotte condotte in precedenza. Nel 1646 i cittadini di Nardò si opposero alla pretesa del conte di avere il diritto proibitivo sulla caccia e sul legname e quando egli impose una gabella sui legumi le masse popolari di Nardò diedero vita a violente dimostrazioni. Il « guercio di Puglia » fece arrestare alcuni dimostranti ma i loro amici assalirono la prigione e li liberarono. A queste lotte mancava però un obbiettivo politico: si chiedeva solo che la città tornasse al demanio e pochi speravano in un intervento francese che portasse a mutamenti politici nel regno.

MOTO ANTIFEUDALE E DIRIGENTI POPOLARI

Lo scoppio della rivoluzione di Masaniello fu la scintilla che diede fuoco alla polvere che il disagio, il malcontento e le lotte locali contro il baronaggio avevano accumulato nelle campagne. La rivolta delle province ebbe un carattere piuttosto complesso, giacché il suo svolgimento variò secondo le situazioni che si erano venute determinando nei decenni precedenti e secondo l’atteggiamento delle autorità locali. Non parteciparono alle sommosse, in generale, le città in cui i governanti accordarono spontaneamente una diminuzione delle gabelle, mentre insorsero le altre, con una violenza tanto maggiore quanto più decisa fu la resistenza che incontrarono. Ma le rivolte non possono essere riportate esclusivamente al malcontento per la politica fiscale e non furono dirette soltanto a chiedere l’abolizione o la diminuzione delle gabelle. Ci furono invece delle sommosse che ebbero subito un chiaro obbiettivo politico, che furono cioè dirette a rivendicare la libertà dal feudatario, ed a queste vennero a saldarsi, in un solo grande moto antifeudale, anche i disordini che ebbero un carattere più limitato. Il parlamento del comune di Atena, a proposito del suo feudatario, affermò: « con questo principe e con i suoi antenati mai havemo possuto vivere quieti, come tutti sapemo; quando havemo voluto difendere le cose universali, ci hanno fatto morire dentro le carceri, fatto ammazzare animali, abbrugiare massarie, fatte imposizioni, ed altri infiniti maltrattamenti ».
Contro questo dominio oppressivo insorsero le campagne nel 1647.

È significativo il fatto che, durante le sommosse scoppiate appena si diffuse la notizia della rivoluzione di Masaniello il popolo abbia scelto in molti luoghi come suoi capi uomini appartenenti alle classi popolari. A Grottaglie fu chiamato a dirigere la rivolta un conciatore di pelli, a Brindisi un marinaio, ad Ostuni un barbiere. Anche se in alcuni luoghi i nobili, manovrando più o meno copertamente, cercarono di avere nelle loro mani l’iniziativa, ed anche se, in generale, tutte le classi appoggiarono la rivolta, dando ad essa un carattere unitario, il ricorso all’insurrezione violenta mise la direzione dei moti, così come accadde a Napoli con Masaniello e con Gennaro Annese, nelle mani di elementi della classe popolare, che stava dando alla rivoluzione la spinta più decisa.
A Nardò il moto ebbe fin dall’inizio un carattere popolare e generale insieme. Si è già detto che l’ostilità al conte di Conversano era diffusa in tutte le classi; furono però gli strati più poveri della popolazione a passare all’azione diretta. Il 19 luglio un gruppo di contadini fece una manifestazione, affermando di non volere pagare la gabella per il donativo e chiedendo una generale diminuzione dei tributi. Nei giorni seguenti l’agitazione si allargò, assumendo un sempre più chiaro aspetto antibaronale. Gli uomini del « guercio di Puglia » furono attaccati e la città fu ben presto nelle mani degli insorti. Ma a questo punto, le forze rivoluzionarie, vittoriose sul piano locale, non seppero passare ad una nuova fase della rivoluzione, non seppero cioè fare della vittoria locale un elemento della vittoria generale. Esse si posero sulla difensiva, aspettando la riscossa del “guercio di Puglia” e sperando in un intervento delle armi francesi.

LA DIFESA DI NARDÒ

Il conte di Conversano era a Napoli. Allo scoppio della rivoluzione comprese subito qual era il suo posto e si schierò accanto al viceré. Il 16 luglio, dopo l’uccisione di Masaniello fu inviato con altri feudatari nelle province, per domare le rivolte che :erano divampate in esse. Riacquistato – almeno così credeva – il controllo di Napoli, il viceré voleva riprendere nelle sue mani anche quello delle campagne, con l’aiuto di coloro che apparivano ormai i più fedeli alleati della Spagna, cioè con l’aiuto dei baroni (ma vi furono ancora delle divergenze, perchè questi avrebbero voluto adottare in ogni caso i metodi più duri, mentre il viceré preferiva cercare; quando era possibile, la via delle trattative). Giunto al suo castello di Conversano, il “guercio di Puglia” si preparò a riconquistare Nardò. La città era però ben difesa e la decisa ed unitaria reazione dei cittadini ai primi assalti fece sì che essi fossero respinti. Il conte allora lanciò le sue bande al saccheggio delle campagne, sperando di dividere il fronte interno. A causa delle devastazioni e degli incendi delle masserie, infatti, gli abitanti di Nardò si divisero ed una parte di essi acconsentì a trattare. La città depose le armi, ma il conte non mantenne i patti: í promotori della rivolta furono arrestati ed uccisi e su Nardò ritornò a pesare il suo dominio.

LA BASILICATA – IL CROLLO DELLA RIVOLUZIONE

La regione di cui meglio si conoscono le vicende della rivoluzione del 1647, oltre alla Terra d’Otranto, è la Basilicata, grazie soprattutto agli studi di Villari (“Mezzogiorno e contadini nell’età moderna”). Anche in Basilicata il moto assunse un carattere generale e fu assai ampio, sia perchè si ebbero insurrezioni in tutte le regioni, sia perchè ad esso parteciparono tutte le classi. Le sommosse ebbero inizio fin dal luglio 1647 e, con qualche momentanea battuta d’arresto, le posizioni della rivoluzione si andarono sempre più rafforzando nei mesi seguenti. Quando l’Annese proclamò la repubblica, la Basilicata ne diventò uno dei più solidi sostegni, sotto il governo del dottore in legge Matteo Cristiano.

La compatta adesione della Basilicata alla rivoluzione preoccupò vivamente i baroni, perchè essi temevano che da questa regione l’incendio rivoluzionario potesse estendersi alla Calabria ed alla Puglia. Ed effettivamente la Basilicata diventò un importante centro di operazioni e da essa si sviluppò l’azione militare verso la Puglia, dove erano in corso più forti movimenti insurrezionali. Francesco Salazar, conte del Vaglio, e Matteo Cristiano, dopo aver conquistato Matera che, già insorta, era stata poi ripresa dalle forze del viceré, marciarono sulla Puglia, riportando notevoli successi. La situazione delle forze baronali, che dovettero abbandonare anche Aversa, di cui avevano fatto il centro di raccolta delle loro bande, si andò facendo sempre più difficile e perfino al conte di Conversano sembrò nel gennaio 1648 che tutto fosse perduto. Ma il 6 aprile il duca Giovanni d’Austria riconquistò Napoli e la notizia della sconfitta della rivoluzione nella capitale portò al disfacimento delle forze rivoluzionarie nelle campagne, che furono rapidamente battute. Continuò solo, in alcuni luoghi, la resistenza di gruppi isolati di contadini, ma nella forma del brigantaggio.

A differenza del 1799 non furono quindi le campagne a cingere d’assedio la capitale ed a farla infine cadere, ma fu la caduta di Napoli a determinare il crollo delle posizioni rivoluzionarie nelle province.
La rivoluzione dunque ebbe a Napoli il suo centro motore e, insieme, il punto di minore resistenza. Vennero a mancare efficaci legami tra Napoli e le campagne, tra la rivoluzione urbana e quella contadina, anche se si. fece qualche tentativo in questo senso: Masaniello chiese infatti che i comuni mandassero loro rappresentanti a Napoli e più tardi, durante il periodo della repubblica, furono inviati nelle province rappresentanti del governo, per cercare di dare alla rivoluzione un indirizzo unitario. Ma questi tentativi non furono sufficienti a creare solidi legami tra Napoli ed il resto del regno. La sconfitta, come si è detto, ebbe conseguenze gravi.
La rivoluzione era stata diretta soprattutto contro il baronaggio: la vittoria dei baroni ed il rafforzamento del loro potere pesarono a lungo sulle sorti del Mezzogiorno.

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FONTI DI DOCUMENTAZIONE

MASANIELLO
Michelangelo Schipa
Editore Laterza – Bari

Il secolo XVII nello sviluppo del capitalismo
Eric Hobsbawm
Studi storici

Storia del paesaggio agrario italiano
Emilio Sereni
Editore LATERZA
Collana – Biblioteca Universale Laterza

Mezzogiorno e contadini nell’età moderna
Rosario Villari
Editore LATERZA
Collana – Biblioteca Universale Laterza