LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO – Ippolito Nievo

LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO

IPPOLITO NIEVO

Introduzione

La narrativa italiana del periodo risorgimentale segue abbastanza fedelmente un indirizzo affermatosi un po’ dovunque in Europa nella prima metà del secolo: motivo più o meno costante è la storia, trasformata in una specie di epopea e nella quale si riflettono speranze, illusioni e delusioni, volontà e propositi centrati sull’ideale dell’unità nazionale.
La trama dei romanzi storici è generalmente intessuta su vicende e ambienti medioevali, movimentati, per così di re, da episodi patetici o d’amore.
Si distinsero, in questo tipo di narrativa, Tommaso Grossi, autore di un romanzo che ebbe molta fortuna, il “Marco Visconti”, e Massimo D’Azeglio che dette al suo “Ettore Fieramosca” un chiaro impianto politico. Ancora più valida è l’opera di Francesco Domenico Guerrazzi (1824-1873), cui si deve “L’assedio di Firenze” e al quale va riconosciuto un temperamento che lo pone accanto ai maggiori tra i romantici stranieri. Va inoltre citato, nel campo del romanzo, però, di tipo autobiografico (e in questo senso da avvicinarsi alla prosa dei memorialisti) Giovanni Ruffini (1807-1881), autore dei racconti d’ambiente risorgimentale quali “Lorenzo Benoni” e “Il dottor Antonio”.

Ma la narrativa italiana di questo periodo si solleva a nobilissime altezze con uno scrittore che degnamente conclude la stagione letteraria del Risorgimento: Ippolito Nievo.

Nato nel 1831 a Padova, Nievo si schierò, ancor giovanissimo, con gli ideali mazziniani. Nel 1859 combatté nella Seconda guerra d’indipendenza, tra le file dei “Cacciatori a cavallo” di Garibaldi e con Garibaldi fu in Sicilia, al seguito della spedizione dei Mille. Fu appunto tornando dall’Isola, nel 1861, che perse la vita in un naufragio, quando non aveva che trent’anni.

Intellettualmente e culturalmente assai maturo, nonostante la giovane età, Nievo lasciò diversi scritti politici, poesie, novelle; ma il suo capolavoro è il romanzo “Le confessioni di un Italiano” (in un primo tempo intitolato: “Confessioni di un ottuagenario”). Si tratta di una opera di ampie dimensioni, la cui trama abbraccia mezzo secolo di storia, dagli ultimi decenni del ‘700 agli anni del Risorgimento.
Nelle Confessioni il Nievo, insieme agli avvenimenti politici e militari più importanti, ci presenta una grande varietà di tipi e di caratteri che la vena umoristica dello scrittore e lo stile fresco e immediato rendono vivissimi.

Recensione

Il protagonista del racconto, Carlino, rievoca le varie fasi della sua lunga esistenza e le persone e le vicende che ne segnarono lo svolgimento. Bellissima la parte iniziale, in cui Carlino narra della sua prima infanzia trascorsa nel vecchio castello di Fratta, presso Udine, nel l’ambito di una famiglia patriarcale (viene accolto da una sprezzante zia, moglie del conte di Fratta) e di una società legati ancora al mondo feudale. Un’atmosfera che si dissolverà sotto l’urto degli avvenimenti rivoluzionari, di una mentalità nuova e, soprattutto, di una moderna coscienza nazionale.

Vive i primi anni nel tetro castello di Fratta, dove si innamora della cugina, Pisana, figlia del conte, bimba irrequieta e civettuola che lo ama e lo tormenta. Ma quando ormai Carlino si è potuto sistemare come cancelliere, arrivano nel Friuli le vittoriose truppe napoleoniche che diffondono le idee democratiche, alle quali egli aderisce. Intanto la Pisana sposa un nobile attempato; Carlino si arruola nel nuovo esercito italiano e va a combattere per la liberazione di Napoli allora sotto i Borboni. Viene però ferito e fatto prigioniero e in carcere perde la vista. Tuttavia con l’aiuto della Pisana, che intanto aveva abbandonato il vecchio marito, può essere liberato. Tutti e due si rifugiano a Londra, dove la Pisana lo assiste con amorosa abnegazione, fino a ridursi a chiedere l’elemosina per curarlo. Finalmente Carlino, mediante un’operazione chirurgica, può riacquistare la vista e la Pisana, già minata dalla tisi, muore pochi giorni dopo.

Vecchio e nuovo mondo rivivono in una folla di personaggi: Lucilio e Mara, la Pisana e Giulio Del Ponte, il padre del protagonista, i castellani di Fratta e così via.

Le “Confessioni”, scritte in pochi mesi, sono, dopo i “Promessi Sposi”, il romanzo più vivo e valido del nostro Ottocento. Ai “Promessi Sposi” esse vanno ricollegate non solo per la costruzione ampia, quanto per quel carattere di affresco storico che il capolavoro manzoniano ebbe in misura tanto superba. E tuttavia se l’impianto dell’opera riporta a Manzoni, l’ardore, la coscienza civile, l’impegno patriottico che le “Confessioni” mettono in luce, giustificano pienamente un accostamento del la figura del Nievo a quella del Foscolo.

Sebbene non privo di difetti, quali la discontinuità di stile e la prolissità (l’autore non ebbe il tempo di “limare” la sua opera), il romanzo del Nievo costituisce ancora oggi una lettura di grande interesse: e questa è la migliore prova del suo valore artistico,


La Pisana

Dalle “Confessioni” riporto il passo in cui è ritratto, nella sua infanzia, uno dei personaggi femminili più affascinanti del romanzo: la Pisana. Con tenerezza, Carlino racconta di questa fanciulletta e del suo affetto per lei.

“La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta, dai begli occhioni castagni e dai lunghissimi capelli, che a tre anni conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a coloro che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili. Non era sera che prima di coricarmi io non mi curvassi sulla culla della fanciulletta per contemplarla lunga pezza; ed ella stava là coi suoi occhioni chiusi e con un braccino sporgente dalle coltri, e l’altro arrotondato sopra la fronte, come un bell’agnellino addormentato. Ma, mentre io mi deliziava di vederla bella a quel modo, ecco che ella socchiudeva gli occhi e balzava a sedere sul letto dandomi dei grandi scappellotti, e godendo di avermi corbellato col far le viste di dormire. Queste cose avvenivano quando la Faustina (la bambinaia) voltava l’occhio, o si dimenticava del precetto avuto, poiché del resto la contessa le aveva raccomandato di tenermi alla debita distanza dalla sua puttina e di non lasciarmi prendere con lei eccessi va confidenza. Per me vi erano i figliuoli di Fulgenzio i quali mi erano abominevoli piú ancora del padre loro, e non tralasciava mai occasione di far loro dispetti; massime perché essi sì affaccendavano a spifferare al fattore che mi avevano veduto dar un bacio alla contessina Pisana, e portarmela in braccio dalla greppia delle pecore fino alla riva della Peschiera. Per altro la fanciulletta non si curava al pari di me delle altrui osservazioni e seguitava a volermi bene, e cercava di farsi servire da me nelle sue piccole occorrenze, piuttosto ché dalla Faustina o dalla Rosa che era l’altra cameriera, o la “donna di chiave” che or si direbbe guardarobe. Io era felice e superbo di trovar finalmente una creatura cui poteva credermi utile; e prendeva un certo piglio d’importanza quando dicevo a Martino:
– Dammi un bel pezzo di spago che debbo portarlo alla Pisana!
Così la chiamava con lui; perché con tutti gli altri non osava nominarla se non chiamandola la contessina.Queste contentezze, peraltro, non erano senza tormento poiché purtroppo così sì verifica nell’infanzia come nelle altre età il proverbio che non fiorisce rosa senza spine”.
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