GESUITI CELEBRI – San Roberto Bellarmino

GESUITI CELEBRI

San Roberto Bellarmino
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Vanitoso e intrigante sotto un benevolo sorriso. Il potente consultore del Sant’Uffizio fu – a giudizio di molti – il tipo del “gesuita perfetto”. Il suo nome è tra quelli che condannarono Galileo Galilei, Giordano Bruno e Tommaso Campanella

Da secoli la gente è abituata a raffigurarsi il tipo del gesuita come quello del maneggione clericale, con caratteri, tuttavia, speciali e inconfondibili: differente, perciò, dai consueti volgari trafficanti dell’ideale cristiano, intesi a servirsene per scopi economici e politici, come di continuo se ne vedono, oggi e ieri, in seno ai partiti cattolici e in molti circoli ecclesiastici dirigenti. Il gesuita – secondo la maniera comune di vederlo – userebbe, invece, un agire e un parlare dotto, signorile, elevato, in cui dottrina scelta e porgere distinto si confondono entro un contegno permeato di sottile dolcezza e di grande, discreta modestia. Tale, per lo meno, lo consacrano oramai le vecchie stampe, e, soprattutto, alcune caricature del celebre Daumier.
Al contrario, altre rappresentazioni ce lo mostrano tronfio, superbo, tirannico. E la storia insegna che anche quest’ultima raffigurazione non è infondata.
Si tratta, come è evidente, di caratteri o di atteggiamenti molto diversi ed anzi opposti, comprensibili in una medesima persona a patto che il primo serva ad abilmente nascondere il secondo. E a giudizio di molti, l’accennato connubio noi lo troveremmo nel “gesuita perfetto” e, in particolare, nel Bellarmino, santo, cardinale, “Dottore della Chiesa”, membro della Compagnia di Gesù. Per cui, statura scarsa, dolci occhi, sorriso benevolo, portamento umile, baffi spioventi sulla barba rotonda – insomma, la figura di lui come dai ritratti, ad esempio quello del Passerotto, ci vien tramandata – non dovrebbero ingannarci.
Senza dubbio Bellarmino è un santo ‘speciale’. Un volume della sua opera massima, intitolata “Disputationes et controversiae christianae fìdei”, venne messo all’INDICE dei libri proibiti dietro ordine di papa Sisto V. Tuttavia vi stette poco tempo, in quanto già Urbano VII provvide a che ne fosse cancellato. Inoltre, le pratiche onde confermarlo “santo”, furono, in Vaticano, bocciate due volte (un giudizio negativo sul suo conto venne dato, fra gli altri, dal cardinale Gregorio Barbarigo che parlò, a proposito di lui, di spirito di vanità e di intrigo). Riuscirono solamente alla terza, assai tardi, grazie a Pio XI, grande amico dei gesuiti, il quale, nel 1923, accondiscese a “beatificarlo”, canonizzandolo, poi, il 29 giugno 1930, e, il 17 settembre del 1931, conferendogli in titolo onorifico di “Dòctor Ecclèsiae”.
Un “Dottore”, però, molto strano: infatti, le sue teorie rimangono, quasi per intero, addirittura sconosciute e neppure insegnate, pur tra i membri della Compagnia.
Roberto Bellarmino venne al mondo il 4 di ottobre 1542, e morì il settembre 1621. Nipote del cardinal Cervini (che, dopo, fu papa Marcello II, e, gesuita dal 21 settembre 1560, studiò a Roma, Padova e Lovanio. Insegnante di “controversie antiprotestantiche” nel Collegio Romano – di cui, poi, nel 1592, divenne Rettore – nel 1589 andò in Francia, come teologo del cardinal legato Gaetani, ed ivi si diede molto da fare onde assicurare a Enrico di Navarra, mediante la insincera conversione al cattolicesimo di quest’ultima, il suo avvento al trono. Egli era stato inviato oltralpe per aiutare il partito della “Lega” e operar di tutto affinché Enrico, che pretendeva al trono, non riuscisse a raggiungerlo: costui, infatti, era ‘protestante’ (esattamente, calvinista). Tali gli ordini del papa, a cui il Bellarmino non restò fedele, brigando con fiduciari del Navarra, senza dir nulla a Sisto V, inducendo Enrico a convertirsi “pro forma” alla religione cattolica (e così a tranquillizzare Roma): egli ottenne in cambio la garanzia per l’Ordine gesuitico d’esser, dal nuovo re, autorizzato in Francia contro la volontà dei Parlamenti i quali non ce lo volevano. Il che poi realmente avvenne nel 1603. Intanto il Bellarmino incitava i capi della resistenza cattolica a ceder Parigi assediata senza combattere…, ma, a voce alta, per le piazze e nelle chiese, diceva cose del tutto diverse. (De Récalde I, “La cause du Vénérable Bellarmin”, Paris, 1923, pag. 61 e seguenti).
Nominato nel 1598 Superiore della ‘Provincia’ gesuitica napoletana, dal 1595 Consultore del Sant’Uffizio, finalmente il 3 marzo 1599 Clemente VIII lo promosse cardinale. Arcivescovo di Capua dal 21 aprile 1602, presto fece ritorno a Roma dove ebbe parte decisiva nella battaglia intrapresa dal Vaticano contro fra’ Paolo Sarpi, e nei processi intentati dalla Santa Sede a Galileo Galilei, Tommaso Campanella e Giordano Bruno. Negli ultimi anni scrisse la propria biografia, indirizzata a un personaggio tuttora sconosciuto, in cui esalta continuamente le sue doti personali e i suoi meriti.
Ne cito qualche brano…

“Non avevo ancora fatto due mesi di teologia, che venni costretto o predicare nella Chiesa del Collegio (dei gesuiti, a Padova), il mattino, e poi la sera. A Carnevale andai a Venezia…, ed ivi, il quarto giorno delle feste, predicai essendo presenti un gran numero di nobili, che mi ascoltarono con attenzione massima parlar contro il ballo e le altre follie alla moda in quei giorni. Allorché ebbi terminato, molti illustri Senatori volevano baciarmi le mani”.

Circa le sue doti personali egli dice…

“Riguardo al progresso dei miei studi ho potuto esperimentare quanto mi sia stato utile insegnare ciò che io non avevo mai imparato (!), e il dono di facilità concessomi da Dio in ordine a tutto comprendere e a tutto spiegare”.
“Nella festa di Pentecoste (del 1565, quando il Bellarmino non aveva ancora 23 anni, ed insegnava nel Collegio di Mondovì), contro il mio volere, e, per così dire, forzato dai miei Superiori, io predicai un triduo nella Cattedrale. E il mio Superiore scrisse ai nostri Padri di Roma:- Giammai un uomo ha parlato come lui”.

Sempre a Mondovì, una volta predicò in Cattedrale senza aver preparato il discorso. “Ma”, egli racconta, “grazie a Dio mai ebbi a parlare con tanto frutto: e cosi liberamente e con pienezza d’anima. E, realmente, i Canonici mi dissero:- Un’altra volta sarete voi a predicare, ma oggi è un angelo disceso cielo che ci ha parlato”….Eccetera.. eccetera…

Da cardinale, nella controversia sulla ‘grazia’, che egli difendeva in Vaticano per conto dei gesuiti contro i domenicani, tentò in parecchie maniere, introducendo abilmente vari personaggi, di condurre il papa ad emanare una condanna nei riguardi degli avversari; e noi, siccome quei tentativi riuscivano infruttuosi, e la via ‘coperta’ non serviva a nulla, allora si decise per una “strada di amorevole conciliazione”. Ma Clemente VIII teneva per i domenicani. Il Bellarmino, irritato, finì per perdere le staffe e Clemente fu costretto a mandarlo via da Roma, “promuovendolo” arcivescovo di Capua.

Nei processi di Galileo Galilei, Tommaso Campanella e Giordano Bruno tenne un comportamento ambiguo. Quando l’insigne astronomo pisano venne a Roma nel 1611, il cardinale Bellarmino si dimostrò amico strettissimo e ammiratore di lui: anzi, ebbe a consigliare Galileo onde questi, nell’introdurre tra i suoi scritti valutazioni teologiche, andasse prudente. Ma il 26 febbraio 1616 Bellarmino lo ammonì ufficialmente, presenti un Commissario del Sant’Uffizio e alcuni testimoni, affinché accettasse, pena il carcere, questi decreti: “che il sole sia nel centro del mondo ed immobile di moto locale (rispetto alla terra), è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, perchè è espressamente contraria alla Sacra Scrittura”…,” che la terra non sia centro del mondo, né immobile, ma secondo se stessa si muova anche di moto diurno è pure proposizione assurda e falsa in filosofia, e, considerata teologicamente, è per lo meno erronea nella fede”.

I due decreti il 25 febbraio di quell’anno vennero ratificati dai cardinali dell’Inquisizione, tra cui il Bellarmino che vi ebbe parte decisiva, e alla presenza del Papa, che approvò ogni cosa.
Parte decisiva il Bellarmino ebbe anche nell’ultima condanna inflitta a Galileo Galilei, come pure a Giordano Bruno, che fu arso vivo a Roma, in Campo dei Fiori (17 febbraio 1600), e a Tommaso Campanella, domenicano e filosofo, che trascorse nelle carceri del Sant’Uffizio, tra Napoli e Roma, circa 29 anni. Realmente, la pena che egli ebbe il 13 novembre 1602 era “a vita” (“Omnino retineàtur in carceribus Sancti Officii “absque spe liberationis”), e venne preceduta da un numero discreto di torture, fra le quali, ad esempio, la “veglia continuata, per ben quaranta ore”.

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San Roberto Bellarmino… PAX TECUM (Vedi qui file originale)

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