MUSICA LIRICA DEL SEICENTO

Emilio De’ Cavalieri
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Nascono “recitativo e aria”, gioia per il pubblico e per i cantanti

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In queste pagine incontriamo subito il nome di Emilio De’ Cavalieri, e lo ritroveremo ancora sul nostro cammino, a proposito del trasferirsi del melodramma in ambienti meno ristretti ed aristocratici di quel che non fosse l’intellettuale Camerata dei Bardi.

De’ Cavalieri porta a Roma le esperienze dei fiorentini e realizza il suo capolavoro con “Rappresentazioni di anima e di corpo” (1600).
Quest’opera, profondamente religiosa, potrebbe inserirsi e legarsi alla vita dell’oratorio: ma l’essere stata realizzata con perfetto apparato teatrale ci impone di considerarla un vero e proprio melodramma. Tanto più che il suo esempio melodico, la voce usata nello stile severo e fervido del “recitar cantando” apriranno la via al fiorire, in Roma, di un melodramma strettamente legato a caratteristiche particolari e locali. L’opera romana, infatti, si trova a gettar le sue radici in un ambiente musicale dominato dalla Cappella di San Pietro e dalle tradizioni gloriose del canto a più voci.
Il compromesso, inevitabile, risolverà questo scontro: ecco perciò il classico declamata fiorentino venir messo un po’ in ombra dallo splendore dei cori, ecco la nudità della scena rivestita e schiacciata da sfarzosi apparati, la favola pastorale sostituita dalla mitologia e magari anche da soggetti in parte o interamente comici. Ma la voce, cioè il sorgere e l’affermarsi e il concretarsi in melodramma del canto profano e dell’individualità, si salva: la voce si salva anche se l’unità del “recitar cantando” di casa Bardi verrà gradatamente intaccata dall’avvento del “recitativo” e (concessione inevitabile al divismo di allora) dell’Aria.
“Recitativo” ed “Aria” formeranno, per secoli, la gioia di tutti: pubblico e cantanti.
Nomi di eccellenti compositori di scuola romana, Mazzocchi, Landi (autore, tra l’altro, di una famosa “Ipermestra”), Marazzoli, Rossi…, teatro delle loro gesta musicali non ancora un vero o proprio palcoscenico con sala aperta a tutti, ma ambienti religiosi o mecenateschi, dall’Oratorio della Vallicella al maestoso salone di Palazzo Barberini.
Claudio Monteverdi (Vedi scheda)
II teatro di nome e di fatto, aperto a tutti e finalmente democratizzato, sarà viceversa merito, vanto di un’altra bella città italiana: Venezia.
Qui il Monteverdi, come De’ Cavalieri a Roma, avrà trasferito da Mantova i suoi impegni di lavoro e, di conseguenza, “l’ultimo grido” della moda musicale del tempo.
Monteverdi insegna a Venezia la sua concezione melodrammatica e, contemporaneamente, impara da Venezia quel che Venezia aveva a sua volta appreso da Roma. Sta di fatto che da questi contatti, oltre a nascere la scintilla d’arte dell’opera veneziana, nasce, a desiderio di popolo, il luogo, il nuovo tempio dell’opera: la “Andromeda” di Francesco Manelli inaugura nel 1637 il teatro di San Cassiano.
Quali sono le caratteristiche della “voce” veneziana?
Agli influssi “romani” detta voce aggiunge il naturale gusto e il senso forse meno vigoroso ma assai più raffinato del popolo veneto. Eleganza, scioltezza e, tecnicamente parlando, sempre più netta distinzione fra “recitativo” ed “aria”.
Lo stesso Monteverdi, in “Il ritorno di Ulisse” (1641) e “L’incoronazione di Poppea” (1642), sancisce con genialità costante la ormai avvenuta evoluzione dal superato ma necessario momento fiorentino.
Con lui e dopo di lui, Francesco Cavalli (Le nozze di Teti e Peleo, Giasone, Coriolano, ecc.): realismo, drammaticità, melodia popolare, virtuosismo vocale ancor ben tenuto a freno da un saggio equilibrio artistico.
Nello spazio di pochi anni, però, ogni freno si allenterà e l’aspetto positivo di una maggior partecipazione del pubblico al melodramma svelerà anche un pericoloso rovescio della medaglia. Il pubblico stesso, cioè, prenderà la mano ai compositori e concepirà il melodramma in funzione del virtuosismo canoro.
Lotta a coltello fra arte e divismo: tra i protagonisti della lotta, nomi importanti. Giovanni Legrenzi, Antonio Cesti, Alessandro Strabella…, musicisti, come il Cavalli stesso, destinati a far conoscere in tutta Europa le conquiste e i limiti della “voce” veneziana.
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Da Venezia a Napoli

Alessandro Scarlatti
Il sorgere del linguaggio operistico italiano poggia su ceppi regionali, su dialetti che poco a poco troveranno la sistemazione unitaria della lingua nazionale, Napoli.
Dir Napoli è pensare immediatamente, pur senza cadere nel vieto luogo comune dei mandolinisti eccetera, al lato lirico della musicalità italiana.
E infatti l’opera napoletana, che già si vale delle esperienze romane e veneziane, mette l’accento sulla cantabilità. Rimpolpa le arie, avvilisce il recitativo.
I soliti inconvenienti divistici.
Lirismo e comicità: a volte (chiazza di colore mediterraneo) le disperazioni della tragedia.
Francesco Provenzale, Alessandro Scarlatti… nomi illustri dell’opera napoletana (specie il secondo).
Tale è il senso vocale in Scarlatti da far sì che gli stessi finali d’atto comincino a imperniarsi non più sugli strumenti ma sulle voci.
Nasce così il concertato finale: “Il trionfo dell’amore”…, “Griselda”… e, un numero più che notevole di melodrammi.
Il popolo che da anni aveva fatto il suo ingresso nelle pubbliche sale dei nuovi teatri ora sale simbolicamente in palcoscenico e ravviva con un calore umano, collettivo, le conclusioni in genere convenzionali dell’opera in musica.
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