IL PENSIERO POLITICO ITALIANO – Gioberti e Cattaneo

 

 

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IL PENSIERO POLITICO ITALIANO 

Caratteristiche generali

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Nelle specifiche condizioni dell’Italia, il pensiero politico ebbe un punto di riferimento obbligato nella ricerca dei modi e delle linee di azione per giungere alla unità nazionale.
Le correnti ideali che si fronteggiavano in Europa non ebbero al momento – ossia attorno alla metà del secolo – una precisa rispondenza nel dibattito e nello scontro politico italiano, tranne – per alcuni versi – che in Mazzini e in Pisacane.
Mazzini, infatti, fu il primo a indicare negli operai una autentica forza rivoluzionaria che tuttavia era stata ed era ancora tenuta al di fuori di ogni partecipazione al Risorgimento nazionale. Da giovane, Mazzini aveva detto rivolgendosi agli operai “… avete combattuto finora per il programma d’altre classi: date oggi il vostro €e annunciate collettivamente che non combatterete se non per quello”.
In sostanza egli avvertì profondamente l’ingiustizia sociale, sentì la spinta a reagire contro di essa, affermando che “chi non lavora non ha diritto alla vita”… e  … “che ogni uomo deve essere retribuito a seconda dell’opera sua, avere quanto ha meritato”.
Affermazioni di tipo socialista pronunciate però da un uomo che aveva, nei confronti delle idee socialiste, un atteggiamento profondamente polemico, non condividendo l’ipotesi di una lotta tra le classi. E il suo distacco da queste idee e dallo stesso movimento operaio si farà incolmabile quando, alcuni decenni più tardi, prenderà posizione contro la Comune di Parigi e l’Internazionale.
Sul piano nazionale, l’insuccesso dei moti mazziniani mise in crisi l’ideale repubblicano e favorì l’affermarsi di correnti cosiddette “moderate”. Il termine “moderatismo” sta a indicare, ancora oggi, una posizione politica cauta, tesa a mantenere gli equilibri esistenti, aliena da soluzioni radicali o rivoluzionarie. Storicamente il moderatismo rappresenta un atteggiamento conservatore.
Nel Risorgimento, le correnti moderate ponevano anche esse, naturalmente, l’obiettivo della indipendenza nazionale, ma erano contrarie alle tesi di Mazzini poiché queste sostenevano la necessità di una prova di forza per giungere alla unificazione del paese. Inoltre i moderati respingevano l’idea della unità sotto un regime repubblicano e propendevano per una federazione tra gli Stati italiani.

Gioberti e Cattaneo

Questa tendenza ebbe come massimo teorico l’abate torinese Vincenzo Gioberti (1801-1852) che espose le sue idee nel libro Del primato morale e civile degli italiani, scritto nel 1842 in Belgio, dove era esiliato). Con questa opera – fortemente retorica – egli intese suscitare negli Italiani la fiducia nelle proprie qualità, cercando di dimostrare come l’avvenire e il progresso dell’Europa dipendessero dal riconoscimento generale di un “primato” italiano. Un primato derivante dal Cattolicesimo e dalla presenza in Italia del suo massimo rappresentante, il papa. E il papa per Gioberti, avrebbe dovuto appunto presiedere una federazione di Stati italiani, retti da principi legittimi ma con costituzioni di tipo liberale. Questi ideali, che furono definiti “neoguelfi” (dal nome dell’antico partito medioevale dei “guelfi”, favorevoli al papa e contrapposti ai “ghibellini”) non ressero alla prova dei fatti.
Tuttavia essi esercitarono una forte influenza sull’ala moderata dello schieramento risorgimentale.
All’orientamento federalista, ma di segno del tutto opposto a quello cattolico e liberale di Gioberti, appartenne il milanese Carlo Cattaneo (1801-1869). Cattaneo (le cui posizioni politiche possono essere definite di tipo radicale, sostenne una difficile battaglia su due fronti: contro le posizioni di Mazzini che egli riteneva dettate da un rivoluzionarismo senza costrutto, e contro quelle dei moderati, i quali intendevano affidare ancora una volta i destini del popolo italiano alla politica dei sovrani. Egli vedeva la soluzione del problema dell’unità nazionale attraverso una libera confederazione di Stati, su una base di autonomia, di autogoverno e di democrazia.
Cattaneo, che si era posto al centro della vita culturale italiana fondando, nel 1839, la rivista Politecnico, scrisse numerose opere tra le quali la Introduzione alle notizie naturali e civili su la Lombardia e Dell’insurrezione di Milano nel 1848 che per rigore storico e robustezza di stile pongono il loro autore tra i massimi rappresentanti della cultura romantica italiana.
Vincenzo Gioberti (Torino, 5 aprile 1801 – Parigi, 26 ottobre 1852)
fu un sacerdote, politico e filosofo italiano e il primo
Presidente della Camera dei deputati del Regno di Sardegna,
tra le principali figure del Risorgimento italiano.

VINCENZO GIOBERTI

IL PRIMATO MORALE E CIVILE DEGLI ITALIANI

“Io m’immagino la mia bella patria… “
“Io m’immagino la mia bella patria, una di lingua, di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino, di accordo pubblico e privato fra i vari Stati e abitanti che la compongono (è l’idea appunto della federazione tra gli Stati italiani).
Me la immagino poderosa e unanime per un’alleanza stabile e perpetua dei suoi vari principi, la quale, accrescendo le forze di ciascuno col concorso di quelle di tutti, farà dei loro eserciti una sola milizia italiana, assicurerà le soglie (confini) della penisola contro gl’impeti forestieri, e mediante un naviglio comune ci renderà formidabili eziandio sulle acque e partecipi cogli altri popoli nocchieri al dominio dell’oceano . . . Vedo in questa futura Italia risorgente fissi gli occhi di Europa e del mondo: veggo le altre nazioni prima attonite e poi ligie e devote, ricevere da lei per un moto spontaneo i principi del vero, la forma del bello, l’esempio e la norma del bene operare e del sentire altamente . . . Veggo infine la religione posta in cima di ogni cosa umana; i principi e i popoli gareggiar fra loro di riverenza e di amore verso il romano pontefice, riconoscendolo non solo come successore di Pietro, vicario di Cristo, e capo della Chiesa universale, ma come doge e gonfaloniere della confederazione italiana, arbitro paterno e pacificatore di Europa, istitutore e incivilitore del mondo, padre spirituale del genere umano, erede ed ampliatore naturale e pacifico della grandezza latina . . . “.
Milano – Monumento a Carlo Cattaneo – Foto Giovanni Dall’Orto 

Vedi qui foto originale di Giovanni Dall’Orto

   

CARLO  CATTANEO

L’INSURREZIONE DI MILANO NEL 1848

La guerra
Il brano che presento si riferisce alle vicende e agli episodi che precedettero le Cinque giornate di Milano. Cattaneo li narra col taglio di un cronista di altissimo livello. Lo stile è incalzante e rapido, senza alcuna concessione alla retorica, e tuttavia, proprio in forza della sua scarna semplicità riesce a rendere mirabilmente la tensione che animava in quei giorni i patrioti italiani e il confuso smarrimento degli Austriaci.
“Il sollevamento del Regno lombardo-veneto era universale. Senza accordi, inaspettato, divampava nello stesso giorno in Milano e in Venezia, per effetto contemporaneo delle novelle di Parigi e di Vienna. Zichy, comandante di Venezia, rese per capitolazione tutti i forti della laguna e s’imbarcò per Trieste con sette mila uomini. I presidi di Osoppo e Palma Nova furono disarmati; i montanari della Carnia e del Cadore interruppero le strade che vengono dall’Austria, il Tirolo ei mostrava agitato; v’erano in Trento solo duecento soldati, e la nuova fortezza presso Bressanone era sguarnita. I giovani di Lecco, di Bergamo, di Val Tellina, di Val Camonica occuparono i passi che vengono dal Tirolo nelle Valli dell’Adda e dell’Ollio. La Rocca D’Anfo, nell’alta valle del Clisio, era presa. Il mare e le Alpi erano chiusi al nemico.
Nell’interno, le città venete, che riputavansi tepide nella causa dell’Italia, insorsero tutte arditamente. Schwartzenberg, comandante di Brescia, patteggiò l’andata. In Bergamo, un figlio del viceré, rimasto per un momento in potere dei cittadini, riuscì appena a partire co’ suoi. I volontari liberarono Varese, Como, Monza, facendo prigioni tutti i soldati.
A Cremona tremila italiani disertarono e diedero sei cannoni; quattrocento ussari chiesero d’esser lasciati partire. I forti di Pizzighettone e Piacenza, colle loro artiglierie furono abbandonati: ottocento ungheresi del presidio di Parma capitolarono a Colorno; i presidi di Modena e Reggio cercavano di rifugiarsi in Mantova.
Colonne di volontari, invano contrariate da Carlo Alberto (re del Piemonte, guardava con diffidenza ai moti insurrezionali), venivano da Genova, da Alessandria, da Casale, da Aqui, da Saluzzo. La Toscana, la Romagna, il Regno di Napoli si apprestavano alla crociata nazionale. Smarriti in quel vasto moto, i generali stranieri si chiedevano tra loro a vicenda un soccorso che non si potevano dare; i loro dispacci venivano portati a noi.
Scriveva nel 20 marzo il comandante di Verona:
“È verosimile che il reggimento Fuerstenwerther sia rattenuto a Venezia dal tenente maresciallo conte Zichy; e finché non arrivi, è impossibile lasciar partire di qui il reggimento arciduca Ernesto; perché da un minuto all’altro la ribellione può farsi aperta. Tutti portano nastri tricolori; si allettò il popolo con pane e con vino. L’autorità dei magistrati non ha più forza.
Scriveva nel nel 19 marzo un figlio del viceré:
I signori distribuiscono denari e coccarde tricolori; tutti girano tumultuando e gridando Viva l’Italia. Abbracciano i Croati come fratelli; e lo stesso fanno al caffè Bracolli officiali, che sembrano assai titubanti. Portarono intorno sulle spalle un ufficiale delli ussari, gridando evviva ai fratelli ungheresi. . .  Così nelle grandi piazze d’armi di Venezia, di Verona, di Mantova i presidi consueti (ovvero le truppe normalmente di stanza nelle città erano ormai numericamente insufficienti a fronteggiare la rivolta) non potevano resistere all’impeto delle popolazioni; e se vi si rifugiavano altre forze, non vi era proporzionata copia di viveri; poiché la rapacità dei capi li aveva sviati (se altre truppe si fossero ritirate nei presidi sarebbe sorto il problema dei viveri, di cui i capi avevano fatto incetta”.