GIACOBINISMO IN ITALIA

 

Negli ultimi decenni del Settecento tutti gli stati italiani furono scossi da una crisi sociale ed economica. Le strutture della società feudale, che le riforme avevano modificato in parte, ma non rinnovato del tutto, si andavano sempre più sgretolando, sia a causa delle trasformazioni che si avevano nell’economia italiana (sviluppo della proprietà borghese nelle campagne e decadimento di istituti feudali che ostacolavano il commercio, come l’annona e le privative), sia a causa di quelle che si avevano sul mercato europeo, dove le posizioni degli stati italiani, per quanto riguardava la seta ed i prodotti agricoli, cioè le produzioni che fino a quel momento avevano dato vita alle più intense correnti di esportazione, si facevano sempre più deboli, con serie ripercussioni negative sulle loro strutture economiche.

Nello stesso tempo, il ceto dei riformatori, che, nella seconda metà del Settecento, aveva costituito l’efficace, indispensabile strumento di cui si erano serviti i sovrani illuminati per dar vita ad un ampio programma di rafforzamento ed ammodernamento delle strutture statali, si allontanò dall’attività politica ed amministrativa. Gli intellettuali che in passato avevano appoggiato con impegno ed entusiasmo il riformismo dei sovrani apparivano stanchi e sfiduciati.
L’esperienza riformistica, in realtà, si concluse ancor prima del 1789.
La Rivoluzione Francese fece tornare ben pochi riformatori sulla scena politica: nei nuovi entusiasmi, nelle nuove speranze, essi non riconobbero quelli che avevano sostenuto la loro attività.
La maggior parte degli intellettuali riformisti si mantenne estranea agli avvenimenti degli anni rivoluzionari, osservandoli con scetticismo e sfiducia, ed i pochi che vi parteciparono direttamente non si posero su posizioni avanzate.
Pietro Verri, se accettò, nel 1796, di far parte della Municipalità democratica, diffidò sempre della maggioranza giacobina e mantenne un atteggiamento moderato. Anche se il suo dissenso fu sempre temperato “da una sincera volontà di capire i nuovi fenomeni della storia e di sceverarne le cause” (Romagnoli), egli passò poi “dall’entusiasmo dei primi anni … al timore
per i tempi nuovi, alla nostalgia, che si velava di una sopravvenuta stanchezza, per un vecchio passato di ordine e di pace”.
Ed un altro riformatore, il Galanti, la cui attività si era svolta nella parte opposta della penisola, a Napoli, negli anni della rivoluzione si trasformò “da riformatore in conservatore, illuminato sempre, ma disposto ormai a vedere in ogni cosa il bene ed il male, e a cercare di mantenere tra l’uno e l’altro un saggio equilibrio” (Venturi).
La generazione dei riformatori, che aveva già in parte abbandonato la scena politica, non vi ritornò dunque con la rivoluzione, ma se ne stette da parte ad osservare, senza entusiasmo e spesso con diffidenza, un mondo ormai assai lontano da quello in cui essa aveva operato.
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La Libertà che guida il popolo (1830)
Eugène Delacroix (1798–1863)
Museo del Louvre, Parigi
Olio su tela cm 260 × 325
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Dalle riforme alla rivoluzione

Al suo posto apparve un’altra generazione, quella dei giacobini. La loro azione si innestò sul tronco della cospirazione massonica, ma poi se ne distaccò per assumere caratteri propri ed originali, e si trattò di caratteri che furono in netta contrapposizione con quelli del riformismo. All’obbiettivo delle riforme si sostituì infatti quello della rivoluzione, alla concezione di un’evoluzione lenta e pacifica della società, quella della trasformazione immediata e violenta di tutte le strutture sociali.
Ma questa trasformazione appariva possibile non perchè nella società italiana si fossero sviluppate forze capaci di abbattere i vecchi regimi e costruire una società nuova, ma per l’esempio della rivoluzione francese, per la forza che essa sembrava dare in tutta l’Europa ai gruppi che volevano un rinnovamento radicale della società.
Il giacobinismo, dunque, non va considerato solo in relazione alle situazioni locali, allo sviluppo della società italiana, ai legami che ebbe con i gruppi massonici già esistenti, ma va anche studiato nei suoi rapporti con il movimento rivoluzionario francese.
Fu la rivoluzione del 1789 che, dando una scossa violenta alle vecchie strutture della società europea rese possibile la liberazione di nuove forze politiche. Queste, negli anni seguenti andarono però elaborando e precisando motivi ideologici autonomi, e si vennero infine a trovare in opposizione alla stessa Francia.
Sul giacobinismo c’è un famoso giudizio dell’abate Barruel, la cui citazione è quasi d’obbligo quando si discorre di giacobini, giacché egli ne diede un’immagine che ebbe grande fortuna nella letteratura politica conservatrice e reazionaria.
“Sotto il malaugurato nome di Giacobini”… scrisse il Barruel… “è comparsa nei primi giorni della rivoluzione francese una setta, che insegna gli uomini tutti essere uguali e liberi; e che collo specioso nome di questa libertà ed uguaglianza disorganizzatrice calpesta altari e troni; e sotto la medesima invocazione spinge tutti i popoli alle stragi della ribellione ed agli errori dell’anarchia”.
Per il Barruel il giacobinismo era dovuto alla congiura di una setta che agiva ormai in tutte le parti d’Europa, con forza distruttrice: “tutti i delitti, l’anarchia e le atrocità, che succedettero alla dissoluzione dell’impero francese, non sono che il principio della dissoluzione che si prepara a tutti gli altri imperi”.
Ma il giacobinismo era invece un movimento che aveva caratteri propri da stato a stato, caratteri che, per quanto riguarda l’Italia, vanno ricercati ed individuati sia nella ricostruzione della loro attività politica, sia nell’analisi della loro ideologia.
Per una migliore comprensione del giacobinismo occorre riportarsi anzitutto ai moti sociali e politici che si ebbero in Italia dopo il 1789.
Non in tutti è in realtà identificabile un carattere giacobino, ma essi prepararono il terreno su cui si sarebbe sviluppata, qualche anno più tardi, l’esperienza rivoluzionaria. Rivolte erano scoppiate ancor prima del 1789. Sommosse locali, moti contadini, tensioni dovute al mal contento sono fenomeni che in realtà si riscontrano in tutto il corso del Settecento e, in maggiore o minore misura, in tutti gli Stati italiani.
Ma col 1789 si ebbe un profondo mutamento del loro significato perchè, e sia pure per il momento soltanto come “esempio”, gli avvenimenti di Francia vennero a dare un senso politico anche a moti analoghi a quelli che, negli anni precedenti, si erano esauriti sul piano locale.
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Ritratto di papa Pio VI (1775)
Pompeo Batoni (1708–1787)
Galleria nazionale d’Irlanda, Dublino
Olio su tavola cm 137 x 98 cm
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Zamboni e De Rolandis

Si considerino, per esempio, le vicende di Bologna. In questa città erano sempre stati assai vivi i sentimenti autonomistici e, di conseguenza, l’avversione al governo di Roma. Le stesse riforme di Pio VI, che pure avevano introdotto elementi di rottura nelle strutture economiche e sociali dello Stato pontificio, erano state accolte con diffidenza, perchè erano venute a limitare l’autonomia del Senato bolognese.
C’era, dunque, una diffusa atmosfera di malcontento e disagio e di essa cercò di servirsi il giovane Luigi Zamboni, per spingere i bolognesi all’insurrezione.
Nel 1792 egli distribuì dei manifestini con cui esortava il popolo a “ribellarsi dal giogo insopportabile di un pesante governo” e lo chiamava alla lotta contro i tributi troppo gravosi. Lo Zamboni fu scoperto e fu costretto i fuggire, ma le ragioni di agitazione rimasero vive.
Nel 1792 ci fu un nuovo moto, detto dei “malintenzionati”, a cui parteciparono persone “di bassa e vile estrazione”, tra cui c’erano anche degli artigiani. Ne erano a fondamento ragioni analoghe a quelle che avevano provocato molte rivolte settecentesche: il timore della carestia, la povertà, l’avversione contro i fornai, ritenuti accaparratori e speculatori.
Ma qualche anno dopo il malcontento trovò una chiara espressione politica. Fu lo stesso Zamboni, ritornato a Bologna, a dare alla sua attività rivoluzionaria un contenuto democratico, sebbene le richieste politiche si fondassero ancora sull’autonomia comunale.
Lo Zamboni, insieme con lo studente G.B. De Rolandis, organizzò una rivolta che sarebbe dovuta scoppiare il 13 novembre 1794, ma si riuscì solo a dar vita ad una piccola dimostrazione. Lo Zamboni, arrestato, si uccise in carcere; il De Rolandis venne impiccato il 23 aprile 1796.

Galiani, Vitaliani, De Deo

L’esempio della Francia, anche se si cercava d’innestare la rivoluzione su situazioni di malcontento locali, non era in realtà sufficiente a muovere le masse popolari ed i repubblicani italiani non erano in grado di mobilitarle con un’ampia attività organizzativa.
L’azione rivoluzionaria restava affidata all’iniziativa dei singoli, o, tutt’al più, a quella di gruppi troppo ristretti. I governi avevano buon gioco nella repressione, sia perchè disponevano di forti polizie, sia per le stesse ingenuità ed inesperienze dei rivoluzionari.
Anche a Napoli i repubblicani, sebbene non fossero isolati come lo Zamboni ed il De Rolandis, ma riuniti in gruppi cospirativi di una certa consistenza, furono costretti alla difensiva, fino al 1792. Ricordiamone brevemente le vicende.
Nel 1792 venne fondato il “club sans compromissions“, nel 1793 nacque una “società patriottica” con a capo Carlo Lauberg.
L’anno seguente essa venne sciolta ed al suo posto si formarono due club: uno di sicurezza generale, di tendenze più moderate, ed un altro di azione, di tendenze più avanzate, a cui appartenne anche l’orologiaio Andrea Vitaliani.
Il motto di quest’ultimo club era Romo (Repubblica o morte), quello del primo era Lomo (Libertà o morte).
Obbiettivo dei rivoluzionari napoletani era quello “di democratizzare gli spiriti, di aumentar iIl numero dei rivoluzionari, di conoscerne e bilanciarne il coraggio e i talenti, e tenerne in serbo un numero opportuno per i grandi colpi”.
In realtà, né l’uno né l’altro club seppero uscire dallo stadio di un’organizzazione ristretta, né i loro membri poterono dar vita ad un’attività di grande respiro. Vi fu in qualcuno la consapevolezza della necessità dell’appoggio popolare, ma si riteneva che esso sarebbe venuto spontaneamente, appena fosse stata proclamata la rivoluzione.
“Il popolo”… si pensava… “alle replicate Evviva la libertà e l’eguaglianza uscirà dal timore e sarà seguace”.
Ma il governo borbonico vigilava ed assestò duri colpi ai gruppi rivoluzionari.
Nel 1794 una Giunta di Stato, alla quale apparteneva anche quel Luigi dei Medici in cui i rivoluzionari avevano riposto le speranze, diede inizio ai processi contro un gruppo di congiurati. Tre di essi furono uccisi: Vincenzo Galiani, la cui figura però non uscì senza macchia dal processo…, Vincenzo Vitaliani, che aveva agito in modo imprudente, danneggiando la cospirazione…, ed infine Emanuele De Deo, la figura più nobile di tutto il gruppo napoletano.
Resta di lui una lettera al fratello, “una lettera da uomo che non teme la morte né è sconvolto dall’oltretomba o sorretto da credenze e pratiche religiose: una lettera da ‘filosofo’ e da anima buona, che ritrova in se stesso coraggio e serenità” (Croce).
Fino al 1799 i giacobini napoletani furono costretti ad un’attività clandestina, priva di effetti immediati.
Anche in Sicilia l’attività giacobina fu stroncata dalla polizia.
Francesco Paolo Di Blasi, che aveva sentito l’influenza delle idee di Rousseau, organizzò nel 1795 una congiura, per instaurare la repubblica nell’isola. Ma essa fu scoperta e quattro congiurati vennero condannati a morte: il Di Blasi, come nobile, alla decapitazione e gli altri tre, che non erano nobili, all’impiccagione.

Chantel, De Stefanis, Junod

Un altro importante centro della cospirazione rivoluzionaria fu il Piemonte.
Uno dei suoi più illustri rappresentanti, il vercellese Giovanni Antonio Ranza, dovette rifugiarsi in Francia fin dal 1790. Negli anni successivi l’agitazione si estese e nel 1793 vennero fondati a Torino, con l’appoggio del francese Tilly, tre club, di cui due di tendenze avanzate ed un terzo di tendenze moderate.
Nel maggio 1794 la scoperta di una congiura diede vita ad una violenta reazione. Il processo a cui furono sottoposti i congiurati si concluse con la condanna a morte di tre rivoluzionari: Giovanni Chantel, Giovanni Destefanis e Francesco Junod.
I patrioti francesi avevano fondato le loro maggiori speranze sulla Francia e la loro azione avrebbe dovuto avere l’appoggio dell’esercito francese: la Francia era ancora il necessario sostegno della rivoluzione, la nazione-giuda a cui i giacobini guardavano con assoluta fiducia. Ma due anni dopo in questa fiducia si ebbe una grossa incrinatura e gli interessi dello stato francese non apparvero più coincidenti con quelli della rivoluzione.

Ranza e Bonafous

IL 27 aprile 1796 nella città di Alba, liberata dalle truppe francesi, si formò una municipalità che aveva alla sua testa Ranza e Bonafous e che si diede una costituzione fondata sui principi della libertà e dell’eguaglianza; sul piano pratico si prevedeva anche l’abolizione delle decime e dei pesi feudali. I limiti locali vennero superati e l’azione dei rivoluzionari acquistò un notevole respiro ideologico: si parlò non solo di “nazione piemontese“, ma anche di “legioni rivoluzionarie italiane“.
Ad Alba giunse anche Andrea Vitaliani, ed anche questo fatto contribuisce a dare all’episodio un rilievo non solo locale. Ma Bonaparte diffidava dei giacobini ed intervenne. Bonafous e Ranza avrebbero voluto resistete, ma prevalse la parte moderata e più tardi Alba tornò al regno di Sardegna.
Lo spostamento dei giacobini piemontesi su posizioni avanzate non riguardò solo la questione nazionale, ma anche quella sociale. A tale proposito va ricordato anzitutto il tentativo effettuato nel 1796 per ispirazione del Ranza, da un gruppo guidato dal pallanzese Antonio Azari.
Si voleva dare inizio ad una rivoluzione che avrebbe fatto nascere la repubblica italiana; in un manifesto si scrisse che sarebbero stati confiscati “i beni della famiglia reale, degli aristocratici, degli straricchi, degli avari e degli egoisti, per distribuirli prima agli indigenti, che sono il gran popolo, poi agli altri … I possessori d’una moggia di terra non avrebbero pagato taglie di sorta, e ad ogni contadino sarebbe stato assegnato stabilmente un possesso”.
Si decise anche che i nobili ed i ricchi avrebbero dovuto pagare una contribuzione rivoluzionaria, e si giustificò così il provvedimento: “hanno troppo lungo tempo costretto il popolo a gemere tra la miseria e l’oppressione, ond’è giusto che essi siano ora di sollievo al popolo e quanto addietro servì loro di fomento al vizio, s’impieghi adesso nella propagazione della virtuosa libertà ed eguaglianza”.
Concetti analoghi troviamo in un discorso di un repubblicano veneto, il quale sostenne che i ricchi dovevano essere chiamati a contribuire per la difesa, e che il popolo doveva “essere vendicato dalle ingiustizie sofferte”.
Lo stesso repubblicano, Giuliani, in polemica con i moderati, disse: “libertà, eguaglianza, parole vuote di senso, quando i diritti dei cittadini non sono illesi ed eguali. Egli è uno spettacolo di dolore che molti cittadini artigiani, che vivono del loro sudore, debbano servire e mantenere le proprietà ai ricchi e la tranquillità di Venezia senza essere indennizzati … Si va vociferando per i caffè che va a cangiarci il governo e che all’aristocrazia dei nobili subentrerà l’aristocrazia dei ricchi”.
Ma, come ha ricordato il Petrocchi, per la maggior parte dei giacobini veneti il principio di proprietà non doveva essere distrutto, sicché le loro aspirazioni di giustizia sociale restano vaghe.
Maggiori possibilità di azione ebbero i giacobini di tendenze più radicali nella repubblica romana: fu proposta una legge per la limitazione delle proprietà terriere e vi fu un’attività pubblicistica favorevole alle masse popolari (a Roma, tra l’altro, c’era Vincenzio Russo); ma anche a Roma, in sostanza, gli elementi più avanzati furono confinati all’opposizione, e non poterono dare alla repubblica un carattere radicale, decisamente democratico.
Nella repubblica Cispadana la situazione apparve invece favorevole ai giacobini: il congresso cispadano sembrò infatti offrir loro non solo una tribuna da cui far conoscere in modo efficace le loro tesi, ma anche uno strumento con cui potere influenzare l’attività degli organi di governo. Ma al congresso i repubblicani più radicali furono in minoranza e non riuscirono a portare sulle loro posizioni gli altri gruppi. I moderati, di conseguenza, prevalsero nella discussione intorno a questioni di grande importanza; essi fecero introdurre nella costituzione un articolo in cui si spiegava che “una uguaglianza assoluta, ed intesa nello spirito, nella virtù, nella forza fisica, nella educazione e nella fortuna di tutti gli uomini, non ha esistito, non esiste, né potrà mai esistere”.
I moderati respinsero anche un articolo proposto dal Compagnoni e dal Notari in cui si affermava che la società doveva dare ai cittadini i mezzi per guadagnarsi la vita, se erano in condizioni di lavorare e, se non lo erano, ciò che era necessario per vivere.
In una situazione difficile si vennero a trovare i giacobini nella Cisalpina.
Bonaparte ed il Direttorio temevano l’attività delle forze repubblicane più, avanzate e la loro azione fu diretta ad impedire ed a reprimere la propaganda giacobina, con lo scopo di arrivare ad una solida alleanza con le forze borghesi moderate.
Nelle file dell’esercito e dell’amministrazione francese vi erano però ancora dei gruppi radicali che si opponevano alla politica del Direttorio: le vicende del loro scontro con il governo di Parigi vennero a ripercuotersi direttamente sui giacobinismo cisalpino.
Si ricordino gli avvenimenti del 1798. Il comandante dell’armata d’Italia, generale Brune, era favorevole ai giacobini e si oppose decisamente alla politica dell’ambasciatore francese a Milano Trouvé che, con l’appoggio del Direttorio, sosteneva un indirizzo nettamente moderato. Nelle complesse ed alterne vicende di quei mesi (il Brune ebbe anche, più tardi, il sostegno di Fouché, che aveva sostituito Trouvé) i giacobini finirono con l’avere la peggio ed anche un repubblicano non radicale, come Matteo Galdi, fu arrestato, mentre molti altri vennero costretti alla fuga.
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La parola di Ugo Foscolo

Lo stato d’animo dei giacobini in quei giorni può essere ben conosciuto, come ha osservato il Saitta, attraverso le testimonianze di Ugo Foscolo.
Nel maggio 1798, in un manifesto in cui annunziava la pubblicazione delle sue “Istruzioni popolari politico-morali“, il Foscolo affermò di voler avanzare in esse delle proposte utili alla “riforma futura della costituzione”. Ma quando, nel settembre 1798,le “Istruzioni” furono pubblicate, appariva ormai evidente che il Direttorio non desiderava affatto la collaborazione dei giacobini ad una costituzione futura, ma voleva invece impedire loro ogni azione politica.
Di qui il tono più radicale, ed anche più pessimistico, delle “Istuzioni“, il legame fra sovranità popolare ed indipendenza, l’affermazione delle necessità che i principi trovino fondamento nella forza.
“Dove il popolo non è libero”… scrisse il Foscolo… ” la nazione non è indipendente, perchè potendo essere venduto o perduto, per l’ignoranza, per l’ interesse o per la ferocia dei suoi governanti, senza ch’egli abbia parte nella colpa, ma nell’infamia e nel danno; così egli è sempre nel pericolo di schiavitù, né può vantare un’indipendenza che non può al caso mantenete e difendere per se stesso. E pare con ciò dimostrato che l’indipendenza nazionale è inutile nome, ove per base e per difesa non abbia la sovranità popolare. Bisogna dunque che questa stessa sovranità non sia appoggiata al diritto, ma al fatto. Tutti i popoli per diritto furono liberi, ma quasi tutti in fatto divennero schiavi. Qualunque sovranità sta nel diritto, ma è mantenuta dalla forza”.
È stato osservato che l’idea dell’unità d’Italia, durante il periodo giacobino venne intesa come “il necessario strumento per portare ad attualità le idealità politiche vagheggiate da una borghesia moderna e da un patriziato illuminato, e già realizzate nella vicina nazione”(Vaccarino).
 In realtà, venne intesa anch’essa come uno strumento rivoluzionario. E fu anche per tale ragione, oltre che per timore di un forte stato repubblicano ai confini della Francia e per sfiducia nell’effettiva possibilità dei popoli italiani di repubblicanizzarci, che il Direttorio si oppose ad essa e si venne a trovare contro i giacobini.
I funzionari francesi in Italia espressero, in generale, dei giudizi negativi sulla possibilità di creare delle repubbliche italiane veramente indipendenti.
Nel 1796 il console francese a Livorno, Fourcade, scrisse:

“Non bisogna pensare a repubblicanizzare l’Italia. I popoli non vi sono per niente disposti a ricevere la libertà e non sono degni di questo beneficio”.

Il popolo italiano, secondo i funzionari francesi, amava i nobili ed i preti e non voleva sollevarsi contro di essi, sicché ai francesi non restava che puntare sulla neutralità delle masse popolari, o tenerle soggiogate con la paura. Il Direttorio, da pane sua, accettò pienamente i suggerimenti che gli venivano dai suoi funzionari in Italia.

“Tutte le informazioni che ci sono state date sulle disposizioni degli spiriti in Italia”… si osservò in una sua memoria… “annunziano che essi non sono maturi per la libertà”.

La prontezza del Direttorio ad accogliere le osservazioni di carattere negativo che pervenivano dall’Italia era dovuta al fatto che esse davano un buon sostegno alla sua politica estera, mirante ad impedire, come si è accennato sopra, la formazione di una forte repubblica ai confini meridionali della Francia.

“Una repubblica democratica piemontese”… osservava ancora il Direttorio…. “sarebbe per noi un vicino molto più inquietante di un re”.
C’era poi ancora un’altra ragione, di carattere interno, che spingeva il Direttorio contro i giacobini italiani. Si riteneva infatti che “l’anarchia”, sconfitta in Francia, avesse trovato rifugio in Italia e che, dal Piemonte a Napoli, esistessero dei legami tra tutti “i partigiani di questo sistema”.

In realtà, se non ci fu un’organizzazione rivoluzionaria che abbracciasse tutta l’Italia, si andarono formando a Milano dei gruppi giacobini il cui elemento di coesione non era dato dalla provenienza dei loro membri, ma dalla comunanza di obbiettivi. Il fatto che i giacobini di Milano provenissero da tutte le parti d’Italia non li divise ma, semmai, venne a dare un carattere più urgente alla questione dell’unità d’Italia. C’è, a questo proposito, una partigiana ma interessante testimonianza di parte francese:

“Questa società di amici dell’unità d’Italia si componeva soprattutto d’uomini estranei alla repubblica cisalpina. La cessione del territorio veneziano all’imperatore aveva costretto all’espatrio tutti gli uomini che, nella rivoluzione momentanea di quel paese si erano segnalati per il loro odio contro la tirannide … Da tutte le altre parti d’Italia si era visto egualmente slanciarsi nella Cisalpina degli uomini degni di stima, precursori della libertà nel loro paese e vittime del dispotismo che vi esisteva ancora; ma nello stesso tempo si vide mescolarsi con loro degli uomini poco degni di figurare nelle file dei patrioti e che disonoravano una così bella causa. Era naturale che questi esuli desiderassero la rivoluzione generale dell’Italia; che, per fare pervenire nel loro paese la scintilla rivoluzionaria, fossero sempre nella Cisalpina i partigiani delle misure più energiche; che l’agitazione fosse per loro un elemento necessario e che infine, privati delle loro fortune, essi cercassero di provvedere alla loro esistenza assicurandosi dei posti, degli impieghi nel governo e nelle sue amministrazioni”.

A parte l’asprezza di qualche accento, c’è qui un’esatta analisi politica delle ragioni che radicalizzarono il giacobinismo cisalpino e lo spinsero a dare la massima importanza alla questione dell’indipendenza italiana.

Si deve però ricordare che l’opposizione dei giacobini alla politica francese non assunse mai un carattere totale. Le delusioni non fecero loro dimenticare che dalla parte degli eserciti francesi c’erano le possibilità di una vittoria della rivoluzione anche in Italia mentre dall’altra parte c’era la controrivoluzione.

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Giacobini e Popolo

Ancora nel 1799 i giacobini avrebbero voluto mobilitare il popolo a sostegno dell’esercito francese. Mentre le truppe nemiche avanzavano ed i realisti riprendevano forza, i repubblicani proposero l’appello al popolo, chiedendo le armi per combattere accanto ai francesi.

“In questo momento terribile”… scrisse un funzionario francese… “tutti gli amici della libertà e della Francia, dimenticando con la grandezza d’animo propria dei repubblicani, le persecuzioni di un governo perfido ed i mali che esso ha causato, si stringono intorno ad esso per sostenere la repubblica in pericolo e domandano più volte delle munizioni e delle armi per mantenere la tranquillità minacciata da esplosioni politiche e per volare al soccorso dei nostri coraggiosi compagni d’arme”.

Ma il Direttorio aveva paura delle masse popolari e le armi furono rifiutate. La repubblica Cisalpina cadde senza che i giacobini potessero partecipare attivamente alla sua difesa.

Accanto a questo tentativo giacobino di mobilitazione popolare ne va ricordato un altro, quello che si ebbe a Milano il 14 novembre 1796, e che è stato considerato dal Saitta di particolare importanza nella storia del giacobinismo italiano. Gli avvenimenti furono narrati in una lettera del giacobino Giorna:

“Si spargono per la città degli allarmi, si annuncia da ogni parte che l’esercito austriaco è fortissimo, che scende in Italia a passo di carica, che, in una parola, la patria è in pericolo… Da più di due giorni non si aveva notizia alcuna dell’esercito: i patrioti decidono di restare uniti e in

permanenza, giorno e notte, fino a che non se ne abbiano; è infatti si è passata la notte in questo locale. Si dà alla sala della Società il nome di Quartier generale dei patrioti italiani:

i cervelli si accendono di amore della libertà, e il giorno dopo, essendo aumentata Ia folla, si odono fare da ogni parte delle mozioni le une più repubblicane delle altre. Arrivano degli operai, i quali si lagnano che la Municipalità ha messo il pane a sette soldi invece di sei com’era alla vigilia; ci si reca in deputazione da questa autorità costituita, si ottiene la diminuzione del pane, ciò produce una grande impressione: tutto il popolo si reca in massa sulla piazza del Duomo attorno all’albero della libertà, si grida da ogni parte che si vuole la libertà o la morte; si rinnovano le mozioni e ne risulta che si va a cercare un pubblico notaio e gli si impone di stendere un Atto di Sovranità del popolo”.

Compagnoni

Questo episodio è stato ricordato dal Saitta come una prova del “robespierrismo” dei giacobini italiani, intendendo con robespierrismo “tutto un complesso di principi ideologici, di aspirazioni politiche e sociali, e, soprattutto, di metodi di lotta politica”.
Altri elementi di “robespierrismo” sono stati messi in rilievo dal Saitta negli atteggiamenti di giacobini italiani.
Nel 1797, dopo Campoformio, Giuseppe Compagnoni, un giacobino che in altri aspetti della sua attività appare di tendenze moderate, delineò in una sua lettera un deciso piano di azione rivoluzionaria, che egli riteneva attuabile in un momento di crisi generale. “Tenterei”…  egli scrisse… “di porre tutti gli spiriti in ardenza … proclamerei l’unione di tutti i Popoli liberi d’Italia, e chiamerei i Patrioti da tutte le parti non rivoluzionate ancora”.
Dalla crisi, appunto, la rivoluzione avrebbe potuto trarre forza:
“L’incendio si fa generale, e la terribile collisione metterà in orgasmo gli spiriti. Se dovessimo perire, periremmo grande argomento alla Storia. Ma saremo liberi, subito che Io vorremo. Gli egoisti, gli imbecilli dovranno tacere, pagate, essere scannati”.
Si sarebbe dovuto “decretare l’Italia in pericolo; associare al Direttorio alcuni bravi ed energici Patrioti Veneziani, Piemontesi, Toscani, Papalini, Napoletani; sospendere la Costituzione; e servirsi del dispotismo per salvare la patria, giacché il dispotismo l’abbruttisce troppo”. L’elemento ideologico del “robespierrismo” non potè però assumere in Italia un’efficacia paragonabile a quella che ebbe in Francia, per la debolezza dei gruppi giacobini e per il fatto che in Italia le masse popolari non risposero ai loro appelli.
Nello studiare il giacobinismo e nel cercarne la più completa caratterizzazione possibile occorre sempre ricordare che si trattò di un movimento assai complesso: non solo è infatti possibile individuare in esso una corrente moderata ed una corrente radicale, ma anche nella posizioni di singoli giacobini si può rilevare una certa discordanza di atteggiamenti, giacché essi appaiono ora di tendenze moderate ed ora di tendenze radicali. Si può osservare, in linea generale, che nella loro attività ideologica occorre distinguere due momenti: quello riguardante la fase iniziale della rivoluzione e quello riguardante la costruzione di uno stato democratico.

I giacobini appaiono infatti quasi tutti assai decisi a fare ricorso ad ogni mezzo ed anche all’appello diretto al popolo quando si tratta di dare slancio all’iniziativa rivoluzionaria; essi invece si dividono, e si differenziano in modo notevole, quando si tratta di delineate le strutture della società futura e l’azione da sviluppare dopo la conquista del potere. Su questo problema è facile riscontrare una notevole diversità di atteggiamenti e distinguere i democratici dai moderati.

Il De Felice ha proposto di considerare il giacobinismo in quattro aspetti fondamentali: politico, sociale, religioso e psicologico-morale; e questa distinzione può essere assai utile per individuare i fondamentali motivi ideologici che guidano l’attività dei giacobini. Va anche tenuto presente che, almeno nello studio dell’aspetto politico e di quello sociale, occorre distinguere le posizioni della corrente democratica da quelle della tendenza moderata, sicché è piuttosto difficile arrivare a conclusioni che siano valide per tutti i giacobini.

La legge agraria

Si consideri anzitutto quello che può essere ritenuto il più importante elemento di caratterizzazione del giacobinismo sul piano sociale: l’atteggiamento assunto dai suoi rappresentanti verso la legge agraria.
È stato osservato dal De Felice che le formule agrarie ed egualitarie possono essere considerate “residui ideologici e vagheggiamenti letterari tipicamente settecenteschi”. Ma per la “legge agraria” si deve non solo ricordare il terrore che essa sempre gettò tra le classi dominanti, ma si deve anche mettere in giusto rilievo il fatto che in un periodo di crisi generale della società anche formule letterarie o utopistiche potevano assumere un forte peso politico, potevano diventare delle parole d’ordine di notevole efficacia. Non si dimentichi che, se nei periodi di pace i moti contadini rimasero fenomeni isolati, nei momenti di crisi, nel 1799 come nel 1820, nel 1848 come nel 1860, essi assunsero un peso ben maggiore.
Nel Settecento, data la frammentarietà dei moti contadini, una discussione sulla legge agraria poteva anche restare accademica. Ma in un periodo in cui le strutture della società andavano in pezzi, la legge agraria veniva ad indicare alle masse contadine un preciso obbiettivo sociale, il solo che avrebbe potuto portarle dalla parte della rivoluzione.
Le posizioni dei giacobini su questo problema assumono perciò una grande importanza per una loro precisa caratterizzazione.

Sulla “legge agraria” assai avanzati furono in quel periodo gli atteggiamenti di Ugo Foscolo, che così ne scrisse:

“Dico che la legge agraria, in qualunque modo, diretto o indiretto, si voglia eseguire, oltreché ella è utilissima e necessaria, ella è altresì lecita e dovuta”.

Il Foscolo faceva una chiara distinzione tra diritto di proprietà e diritto alla libertà, scrivendo:

“La proprietà è un diritto civile, perchè s’appartiene agli individui; la libertà è un diritto pubblico, perchè s’appartiene all’universalità della nazione; quindi, quando la proprietà è sì sistemata che opprime li libertà, le leggi devono fare che necessariamente e santamente si infranga il diritto civile per il diritto pubblico, vale a dire che il bene comune sia anteposto al bene degli individui”.
Questo del Foscolo non fu certo un atteggiamento isolato.

Nicio Eritreo – Enrico L’Aurora

La terra, scrisse Nicio Eritreo “non è stata dalla comune madre donata ad un solo, non a pochi, non ad un popolo, o due, ma indistintamente è stata da lei concessa a tutti; di modo che chiunque ha ricevuto e riceve la vita, nel tempo stesso riceve anche il diritto di potersi appropriare quella porzione di terra che sia bastante a sostentarlo”.
Da questa affermazione Nicio Eritreo traeva delle conseguenze pratiche di grande peso, giacché scriveva: “Queste due o tre parti del genere umano che si veggono spogliate senza loro colpa di un donativo fattogli dalla natura, al quale neppur volendo possono o devono rinunciare, perchè altrimenti perirebbero ovvero vivrebbero infelicemente, questo gran numero d’uomini, dico io, ha tutto il pieno e legittimo diritto di rivendicare dalle mani dei proprietari quella porzione di terra che per essi è sostanzialmente necessaria e che all’incontro è superflua ed eccedente per la sussistenza dei ricchi. Niuna violenza, nessun delitto commetterebbero gli uomini indigenti ciò facendo, perchè verrebbero a riacquistare la propria loro roba che un tempo ingiustamente perdettero”. Per livellare i beni non è nemmeno invocato l’intervento dello stato, la forza della legge; Nicio Eritreo sembra invece voler legittimare le occupazioni di terre, l’uso diretto della forza popolare contro le grandi proprietà.
Un altro giacobino, Enrico L’Aurora, delineando l’immagine di una ideale società futura, scrisse:
“Tutti i proprietari che tengono molte possessioni in fondi di terre, non potranno coltivare per proprio conto che la quarta parte delle loro terre, o parte veruna. Il Senato farà una legge, per la quale vi sarà stipulato il numero di pertiche di terra che potrà travagliare ciascuno dei cittadini. Verun cittadino non potrà coltivare nè far coltivare per suo conto che la quantità di terra che sarà stipulata per la legge, e con cotesta disposizione si farà valere il diritto naturale che tutti gli uomini tengono, di possedere una parte di quella terra che il Creator supremo creò per tutti gli uomini in generale”. Mi sono fermati su queste posizioni perchè il problema della terra è in realtà il problema di fondo per lo studio dei rapporti tra giacobini e contadini ed è, di conseguenza, il problema di fondo per la questione del legame fra la loro attività ideologica e l’azione pratica.
Se è vero, come ha osservato il Maturi che “le giornate nell’Italia giacobina le organizzavano i preti, (ma è vero solo in parte perchè anche durante la Santafede ci furono momenti in cui, in alcune zone, i contadini furono accanto ai repubblicani), è anche vero che non mancò nei giacobini di tendenze più radicali la consapevolezza della necessità rivolgersi ai contadini.
Ma non tutti i giacobini furono sostenitori della legge agraria.
Il Galdi, per esempio, scrisse:
“Il primitivo e più grande oggetto delle leggi civili si è quello di regolar le proprietà de’ cittadini. In una repubblica è necessario non solo che un cittadino abbia una proprietà, ma che possa liberamente disporne, e che goda con sicurezza e in tutta la sua estensione il sacro diritto di proprietà”. Date queste premesse “le leggi agrarie sono non solamente insufficienti a quest’oggetto, ma talvolta funeste”.
Anche il Galdi però riteneva che le leggi dovevano far sì che la proprietà fosse diffusa il più possibile “in tutte le classi dei cittadini” e serbasse “la massima ragione possibile all’eguaglianza”.
Altri repubblicani si preoccuparono di dare un preciso, e limitato, significato alla parola eguaglianza. Melchiore Cesarotti, rispondendo a quanti si chiedevano se la vera eguaglianza non dovesse cominciare “da un più giusto ripartimento delle sostanze” osservava che “una tal uguaglianza sarebbe impossibile e quel che è peggio, fatale a voi stessi ed alla Società”,  ed arrivava ad affermare: “Chi ricercasse le cause della miseria di molti, troverebbe forse che più d’uno non può incolpare de’ suoi mali altro che se stesso”.
Se un’eguaglianza del genere fosse stata realizzata non si sarebbe trovato più nessuno disposto a “prestarsi agli altrui servigi”, a “sudar sui solchi”, ad “occuparsi nell’arti più laboriose”.
Scriveva il Cesarotti:
“L’inuguaglianza di fortune … mette in movimento tutti gli spiriti, aguzza l’ingegno… fa raddoppiare gli sforzi per migliorare il suo stato”; da essa perciò nasceva “il commercio scambievole di servigi e di mercedi, di fatiche e di compensi, di benemerenze e di premi”.
Il suo atteggiamento verso le classi popolari era soltanto paternalistico:
“Vi basti che un saggio Governo apra l’adito a ciascuno per migliorare la sua sorte; che la gabella non divori il frutto dei sudori del povero; che vi sia una proporzione tra i prezzi e i prodotti; che l’ultima classe non abbia a morir di stenti per vivere; che ogni operaio trovi occupazione e profitto; e che la povertà non sia d’ostacolo all’esercizio delle arti”.Ho già accennato al Ranza ed alla sua attività rivoluzionaria. Ma proprio su un giornale del Ranza viene riprodotta la definizione alfieriana del popolo come di “quella massa di cittadini, e contadini, più o meno agiati, che posseggono propri lor fondi, o arte, e che hanno moglie e figli e parenti; non mai quella più numerosa forse ma tanto meno apprezzabile classe di nullatenenti dell’infima plebe”. Verso di essa qualsiasi governo, “persino la schietta Democrazia, non dee nè può usar loro altro rispetto che di non lasciarli mai mancare nè di pane, nè di giustizia, nè di paura”.

Moderati e democratici

Anche in politica esiste una linea di demarcazione, sia pure non molto netta, tra moderati e democratici. Per i primi si può ricordare il Compagnoni, a conferma del fatto che un atteggiamento favorevole a soluzioni estreme nel momento in cui si trattava di mobilitare il popolo per difendere la rivoluzione da un pericolo grave o per abbattere i vecchi regimi non coincide necessariamente con una concezione radicale delle strutture della società sorta dalla rivoluzione.
Nel 1798 il Compagnoni scrisse:

“Ciò che non ha fatto una rivoluzione strepitosa, deve farlo la Costituzione; creando un nuovo diritto segna le tracce della vera giustizia sociale; la nostra saviezza percorrerà gradi a gradi queste tracce. Il cammino è un po’ lungo, e l’opera esige più calcolo che energia. Ma il successo è sicuro; e ciò che è ben prezioso, è senza il danno di terribile scossa”.

Questo del Compagnoni non era solo un atteggiamento tattico, ma un aspetto di una più vasta concezione politica che, dopo la vittoria militare della rivoluzione, poneva ad essa come obbiettivo quello di una lenta evoluzione delle strutture sociali. Di conseguenza, nessuna. concessione all’anarchia:
“L’anarchia è lo stato di pubblico disordine; e la democrazia non sussiste che per la Costituzione, che è lo stesso che dire per l’ordine”. Ma un altro giacobino, a proposito dell’anarchia, scriveva che essa era “un’idea astratta”, con cui “gli astuti birbanti cercavano di sorprendere gli sciocchi, per scagliarli contro i rivoluzionari”.
Egli affermava la legittimità di una “continua rivoluzione”, scrivendo che il rivoluzionario vede che “la rivoluzione è sempre durata nel mondo, e che in tutti i giorni il governo ha sempre avuto qualche linea di cambiamento”.. e “crede che un governo stabile non possa durare nel mondo e che lo stato naturale dell’universo sia quello d’una continua rivoluzione”.

In queste affermazioni c’è indubbiamente una concezione della vita politica diversa da quella esposta nelle osservazioni del Compagnoni che ho riportato sopra: la tesi che non esistono governi stabili ed in cui non avvengano mutamenti continui, dà maggior rilievo all’attività dei gruppi di opposizione, al loro tentativo di influite dall’esterno sull’azione dei governi, costringendoli a spostarsi su posizioni più avanzate.

Lo strumento più efficace di propaganda dei giacobini era la stampa. Di qui la decisa richiesta della libertà di stampa, strumento indispensabile per la mobilitazione popolate. Di qui la necessità di operare un linguaggio pubblicistico che fosse comprensibile anche alle masse popolati.
Scrisse la De Fonseca Pimentel, sul Monitore napoletano:
“Molti zelanti cittadini pubblicano anche ogni giorno delle civiche ed eloquenti allocuzioni dirette al popolo; sarebbe però da desiderarsi che se ne stendessero alcune destinate particolarmente a quella parte di esso, che chiamasi plebe, proporzionate alla costei intelligenza e ben anche nel costei linguaggio”.
Giovanni Gioannetti fece stampare e distribuire gratuitamente opuscoli rivoluzionari, che fossero comprensibili anche per le masse popolari.
Il suo Circolo ambulante è stato considerato uno degli sforzi più seri del giacobinismo italiano “per elaborare un linguaggio ed una forma letteraria il più possibile adatti ad essere compresi dalle plebi agricole” (De Felice).
In esso un “campanaro”, a proposito della necessità d’istruire i contadini, diceva:
“Una gran parte di questi miei fratelli non sa nè leggere nè scrivere. Li nostri giornalieri travagli e la distanza della città non ci permettono di approfittarci delle molte istruzioni che colà si danno. Dall’altra parte vediamo che, dovendo essere d’ora innanzi sovrano il solo popolo, è troppo necessario che noi pure conosciamo i nostri diritti e doveri, che sappiamo una volta cosa sia questa libertà, quest’eguaglianza che ci sentiamo ogni giorno sussurrar all’orecchio; in che consiste la vera e perfetta democrazia, come, introducendosi essa fra noi, venga poi assicurata la sovranità del popolo, e come essa si eserciti e possa conservarsi senza alterazioni e finalmente come dobbiamo noi regolarci individualmente per sfuggire tutti quei pericoli nei quali la contrarietà delle opinioni ci può far cadere nostro malgrado”.(Del Gioannetti va ricordata anche l’intensa attività rivoluzionaria, svolta su posizioni radicali. Nel dicembre 1796, a Bologna, egli attaccò violentemente i nobili e l’oligarchia, chiedendo provvedimenti contro i ricchi e gli speculatori, e destando le preoccupazioni dei moderati.  Nel febbraio del 1797 egli fu allontanato da Bologna, ma vi ritornò pochi mesi dopo e diede vita a manifestazioni contro gli aristocratici ed i ricchi, spingendo il comitato centrale cispadano a fare arrestare alcuni banchieri.  Nel giugno il Gioannetti fu imprigionato. Venne liberato nel novembre del 1797 e si diede ad una intensa attività pubblicistica. All’arrivo degli austriaci fu nuovamente arrestato e condannato. In seguito, tornato alla libertà, riprese la sua attività rivoluzionaria e fu implicato anche nei moti bolognesi del 1802).

Giacobini e religione

Nel rinnovamento generale della società, che fu voluto da tutti i giacobini, un posto di rilievo ebbe anche il rinnovamento religioso. Per il Ranza, “Gesù Cristo … si fece il rivendicatore delle nazioni, abolì la monarchia e aristocrazia sacerdotale, e instituì nella nuova Chiesa la egualità e libertà democratica fondate sulle virtù”; egli voleva perciò una riforma religiosa che corrispondesse “alla semplicità e dignità del governo democratico”. Il popolo era per lui “la sorgente dei poteri tutti civili e religiosi”; di conseguenza “a lui solo toccava eleggere i suoi rappresentanti nella curia egualmente che nella chiesa. i non eletti da lui erano tutti illegittimi ed intrusi, cominciando dal vescovo di Roma, fino al più piccolo parroco del più oscuro villaggio”.

Altri giacobini considerarono il problema della religione in modo assai realistico. A proposito del miracolo di San Gennaro che, come è noto, si verificò anche in presenza dei generali francesi, la “Gazzetta nazionale della Liguria”: scrisse:
“Non è niente condannabile… il nuovo governo di Napoli, che rispettando la pia credulità del popolo, ha saputo tirarne partito per condurlo al bene, come forse se ne era tirato partito in altri tempi per condurlo al male. È un dovere del governo retto e repubblicano l’istruire il popolo, e fargli conoscere la verità, quando si è certi che prende un fenomeno per un miracolo: giacché la nostra religione non ha niente bisogno di sostenersi con questi errori. Ma intanto, finchè il popolo non è istruito, non è possibile di trattarlo come se lo fosse; e fanno veramente pietà certi novissimi ragionatori, i quali, appoggiati al principio che il popolo nella democrazia deve essere illuminato, suppongono a dirittura che sia illuminato, e pretendono di slancio di guidare gli idioti, come guiderebbero i filosofi, e poi si meravigliano di avere seguiti i buoni principi, e aver fatto peggio”. C’è, qui, un senso della gradualità che non significa attenuazione dello slancio repubblicano, ma piuttosto consapevolezza delle difficoltà oggettive che incontrava l’azione di rinnovamento, ed anche questo è un aspetto del giacobinismo che va ricordato.
Per completare l’esame dei quattro aspetti fondamentali del giacobinismo secondo la distinzione del De Felice, occorre ricordare quello psicologico-morale che, a parere del De Felice, ne costituirebbe la “vera essenza”, riassumendo in sè anche gli altri: “la fede nella Rivoluzione, nella grande opera rigeneratrice di essa”.
Si può aggiungere che si trattò di una fede che spinse molti alla morte. Negli anni della rivoluzione all’impegno ed al sacrificio isolato si sostituì la lotta di un’intera generazione intellettuale, quella, appunto, dei giacobini, una lotta in cui i singoli ebbero chiara consapevolezza dell’importanza dell’azione collettiva, sicché anche la sconfitta, la prigionia e la morte furono considerati episodi di una vicenda più vasta, di una battaglia che poteva subire battute d’arresto, ma che sarebbe stata ripresa, ad opera di altri.
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NB – Per una chiara ed equilibrata esposizione delle vicende politiche e degli atteggiamenti ideologici dei giacobini italiani si veda Storia dell’Italia moderna  – Le origini del Risorgimento (G. Candeloro)…,  La prima repubblica cisalpina e il sentimento nazionale italiano (S. Canzio).
I passi virgolettati di scrittori giacobini riportati in questa pagina sono tratti da Giacobini italiani (D. Cantimori – R. de Felice)…,  I giornali giacobini italiani (R. De Felice)…, Illuministi settentrionali – Riformatori napoletani (F. Venturi)…., La rivoluzione napoletana del 1799 (B. Croce)…,  Il tramonto della Repubblica di Venezia e l’assolutismo illuminato (M. Petrocchi)…,  I patrioti anarchistes e l’idea dell’unità italiana (G. Vaccarino)…, La questione del giacobinismo italiano (A. Saitta)…,.  Interpretazioni del Risorgimento (W. Maturi).