IL MESSIANISMO

UNA PROTESTA AVVOLTA NEL MITO

Una delle prime nozioni su cui è giusto attirare l’attenzione, quando si affronta lo studio dello sviluppo della religione ebraica e delle prime origini cristiane, è quella dell’equivalenza dei due termini messianismo e cristianesimo.

Linguisticamente, la cosa non ha bisogno di dimostrazioni:
Cristo, dal verbo greco chrio, ungere, cioè l’unto, il re, secondo la prassi delle corti orientali, non è altro che la traduzione esatta dell’ebraico Mascià, ampiamente usato per indicare i sovrani delle grandi monarchie accentratrici della società antica, basata sui rapporti di schiavitù.
Ma questa osservazione ha un valore che va ben al di là dei semplici raffronti etimologici e non deve essere limitata al campo delle indagini di carattere ideologico. Siamo qui di fronte a uno degli aspetti più tipici del processo di “alienazione” nel mondo delle idee, di esperienze fondamentali fatte prima dagli uomini sul terreno economico, politico e sociale.
All’inizio della nostra era, che solo molti secoli più tardi alcuni cronologisti o calendaristi in senso stretto fecero coincidere con l’inizio della leggenda cristiana, il popolo ebraico aveva perduto ormai ogni possibilità di vita indipendente. Tutti i vecchi aggruppamenti nazionali nei quali era stato diviso sino a quel momento il mondo antico, o meglio quella parte della civiltà antica che gravitava ai margini del bacino del mar Mediterraneo, erano caduti l’uno dopo l’altro sotto i colpi dell’impero romano. Non si trattava, naturalmente di “nazioni” nel senso moderno della parola, ma di confederazioni di tribù gentilizie, giunte a gradi diversi di sviluppo economico, ma accomunate dal sistema prevalente dello sfruttamento schiavistico e rette ormai da secoli a monarchia.
Gli ebrei non erano sfuggiti alla sorte comune. Per la loro stessa posizione geografica, in Palestina, territorio che aveva sempre costituito un punto d’incontro e di scontro tra le maggiori monarchie orientali, essi avevano visto distrutta la loro indipendenza sin dal VII – VI secolo avanti Cristo ed erano poi passati di dominio in dominio.
Gli assiri, i babilonesi, i persiani, Alessandro Magno, i sovrani della Siria ellenizzata avevano successivamente esercitato il loro potere in Palestina e lasciato tracce durature nella vita sociale, economica, culturale e religiosa del popolo d’Israele. La mano di ferro dei conquistatori romani aveva ribadito, con l’appoggio degli strati più ricchi della società palestinese, questo doppio stato di servaggio: economico e nazionale allo stesso tempo.
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È vero che la lotta per l’indipendenza non era mai cessata, durante questo lungo periodo, e che negli stessi anni degli imperatori Augusto e Tiberio aveva non di rado assunto aspetti di ribellione armata e di insurrezione popolare contro i dominatori romani. Proprio nel periodo in cui dovrebbe cadere, secondo la tradizione, la nascita di Gesù, il procuratore romano Sabino si era lasciato sorprendere con la sua legione a Gerusalemme e tre capi dei ribelli, in parti diverse della Palestina, si erano fatti proclamare dai loro seguaci, per la maggior parte pastori, contadini poveri e schiavi, “re di Israele”.
Il legato di Siria, Quintilio Varo, era allora intervenuto, aveva soffocato nel sangue la rivolta e, per dare un esempio, aveva fatto mettere in croce – la crocifissione era il genere di punizione riservato agli schiavi fuggitivi o ribelli – duemila degli insorti. E di episodi analoghi è piena tutta la storia del tempo.
Ma in generale, da cinque o sei secoli, si era diffusa tra il popolo ebraico la convinzione che solo l’intervento di forze soprannaturali, identificate in un “re” di origine divina o superumana, il Messia, avrebbe potuto restituire al paese l’indipendenza e assicurare ai più poveri, ai più oppressi, un’esistenza di benessere e di giustizia sulla terra.
Cacciati e dispersi in tutti gli angoli del mondo allora conosciuto (la dispersione degli ebrei fuori della Palestina è incominciata praticamente nel VI secolo avanti Cristo, con la caduta di Gerusalemme in mano ai babilonesi), essi avevano portato con sè questa fede nell’avvento di giorni migliori.
La speranza messianica degli Ebrei partiva sì da presupposti di una liberazione strettamente nazionale, ma finiva poi con l’estendersi agli altri popoli, presso i quali la dottrina della salvezza aveva assunto forme diverse, e si presentava talvolta con tutte le caratteristiche di un “riscatto” dalla miseria, dalla sofferenza materiale e spirituale, dai vincoli della schiavitù.
Questa concezione ebraica della salvezza si esprimeva evidentemente in forme religiose, con un linguaggio religioso, e quindi contribuiva a mantenere gli uomini fuori della realtà portandoli di sogno in sogno verso l’accettazione di soluzioni fantastiche, mitiche, incapaci di cambiare le condizioni di vita prevalenti nella società schiavistica. In essa si manifestava precisamente tutta la tragedia della classe degli schiavi, che non portavano con sè la possibilità di forme nuove di produzione e di organizzazione economica, non avevano coscienza storicamente chiara delle loro condizioni di servitù e non potevano perciò costituire una forza veramente rivoluzionaria.
Tuttavia, al pari dei culti popolari sorti ai margini del paganesimo greco-orientale, che promettevano in un’altra esistenza agli schiavi e agli oppressi in generale quella “liberazione che la vita di ogni giorno negava loro sulla terra” anche la dottrina ebraica del Messia rispondeva ad aspirazioni largamente diffuse negli strati più umili della società, partiva da una aspra condanna del tipo di organizzazione politica ed economica del mondo greco-romano ed alimentava quella che a ragione potrebbe essere definita una delle “letterature di opposizione” dell’antichità, la letteratura messianica ed apocalittica.
I conquistatori romani se ne erano accorti sin da principio. Di qui quel loro disprezzo, quasi odio, per il popolo ebraico, che pervade la letteratura latina, da Cicerone a Tacito, da Quintiliano a Svetonio, e che ha, come l’antisemitismo razzista di questi ultimi decenni, una chiarissima origine sociale.
“Spregiatissima raccolta di schiavi” – ha definito Tacito gli ebrei. E in questo giudizio di classe vennero poi associati, nei primi secoli dell’Impero, gli stessi cristiani, prima che la Chiesa diventasse a sua volta, nel crollo del mondo antico, l’espressione organizzata delle nuove classi dirigenti.
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