RODOLFO MORANDI – Un buon socialista italiano

Rodolfo Morandi
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Rodolfo Morandi (Milano il 30 luglio 1902 – Milano, 26 luglio 1955) è stato un economista, politico e partigiano italiano. Laureatosi in legge studiò filosofia ed economia maturando il passaggio da Mazzini, a Hegel, a Marx (frutto degli studi economici fu la Storia della grande industria in Italia, pubblicata nel 1931).
In quegli anni egli venne maturando una profonda e rigida coscienza antifascista che lo portò ad aderire al movimento di Giustizia e Libertà da cui però si staccò per avvicinarsi a posizioni socialiste. La sua azione instancabile alla direzione del Centro interno socialista servì, negli anni dal 1934 al 1937, a provocare una riqualificazione in senso classista e rivoluzionario del socialismo italiano, favorendo un indirizzo politico profondamente unitario.

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Arrestato nell’aprile 1937 per la sua attività antifascista venne condannato dal tribunale speciale fascista a dieci anni di reclusione, che scontò nelle case penali di Castelfranco Emilia e Saluzzo. Scarcerato durante i 45 giorni di Badoglio entrò a far parte della direzione del Partito socialista italiano e prese parte attiva alla Resistenza.
Il 25 aprile 1945 venne nominato presidente del CLNAI.
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Dopo la Liberazione Morandi fu segretario del Psi dal dicembre 1945 all’aprile 1946.
Fu ministro per l’industria e commercio dal luglio 1946 al maggio 1947.
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Rodolfo Morandi rappresentò per il movimento socialista italiano una delle personalità più forti, più vive per la sua eccezionale coerenza ideologica e politica, e perché seppe operare un reale processo di rinnovamento del socialismo italiano attraverso la fusione del pensiero con l’azione, del discorso teorico con gli strumenti politici, nell’ambito di una visione unitaria della lotta del movimento delle classi lavoratrici,
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Questo è il primo dato distintivo che emerge con forza nell’opera di Morandi, soprattutto se si considera la natura tradizionale del socialismo italiano, prima e dopo il 1945, i suoi limiti, il suo continuo movimento pendolare tra le posizioni di riformismo di natura socialdemocratica e quelle estremiste di sinistra, parolaie ed inconcludenti.
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Proprio tenendo presente questi limiti tradizionali dei socialisti italiani, di cui è ricca tutta la loro storia, possiamo vedere meglio il valore ed il significato della figura di Morandi, nella corrente della sinistra del PSI, del ruolo nuovo ed originale che essa ha svolto nel tentare di dare risposte nuove al problema del superamento della tradizionale antitesi che aveva, in momenti drammatici della storia del nostro Paese, relegato nell’impotenza il socialismo italiano.
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È proprio nel tentativo di conferire al socialismo italiano una sua posizione originale, che scaturisse dalle precise condizioni storiche nazionali e dalle lotte dei popoli per la loro emancipazione contro l’imperialismo e per il socialismo, che troviamo l’impegno di Morandi in uno dei più seri e generosi sforzi di rinnovamento ideologico e politico che la storia socialista possa annoverare.
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Su tre temi, si può dire, Morandi spinse a fondo la propria ricerca, l’analisi ideologica e politica e la sua applicazione pratica che rimangono aspetti distintivi del suo pensiero.
Essi sono: la socialdemocrazia; la politica unitaria di classe; il dialogo con il mondo cattolico. La realtà politica odierna, conferisce a questi stessi problemi una attualità, tanto da rendere il pensiero morandiano ancora straordinariamente vivo, da costituire un preciso punto di riferimento per quelle forze che credono ad una funzione classista ed unitaria della componente socialista del movimento operaio italiano.
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La lotta decisa e coerente – e a volte anche spietata – di Rodolfo Morandi alla socialdemocrazia non fu mai un fatto di circostanza, dettato da ragioni empiriche o di mera opportunità politica. Basterebbe, per meglio sostanziare questo giudizio, risalire alle sue prime esperienze politiche, ai suoi primi studi sulla democrazia e il socialismo, sulla storia della grande industria e sulle sue analisi teoriche della economia regolata e sui criteri organizzativi dell’economia collettiva, per arrivare al ruolo che egli esercitò come presidente del CLNAI e come ministro dell’industria.
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Le ragioni che furono sempre alla base della sua visione avevano ben precise giustificazioni ideologiche, politiche  e morali che caratterizzarono tutti i suoi atti fino al suo ultimo discorso di Perugia (1955), ai giovani socialisti.
La scelta socialdemocratica era, per Morandi, una scelta essenzialmente anticomunista. Precisava infatti, nel suo discorso al XXVI Congresso del PSI di Roma, all’indomani della scissione di Giuseppe Saragat (Torino, 19 settembre 1898 – Roma, 11 giugno 1988)  che:
“Il nostro partito deve su questo punto [anticomunismo] dichiararsi con fermezza assoluta, poiché senza di questo noi corriamo, come socialisti, il più grave pericolo, il pericolo di disancorarci dalla realtà politica dei nostri tempi, nei quali non si può praticare dell’anticomunismo senza fare dell’antidemocrazia. E chi perde questo ancoramento finisce fatalmente come un relitto alla deriva: ciò che sta accadendo al Partito socialista francese, ciò che sta capitando a quel mostriciattolo di partito socialista che i compagni allontanatisi da noi stanno di propria mano seppellendo in disonorata terra”.
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All’indomani del 18 aprile 1948, quando la guerra fredda in Europa e nel mondo veniva sospinta verso le sue forme più esasperate, quando il ruolo della socialdemocrazia si delineava sempre più nell’ambito della politica egemonica statunitense, Morandi nella lettera “ai compagni della sinistra” del PSI, nel precisare che i rapporti con i comunisti non potevano essere modificati da ragioni di circostanza, senza modificare le direttive generali di una politica di classe, affermava che “lo schieramento della socialdemocrazia nella coalizione anticomunista viene giustificato con il pretesto d’inserirsi come terza forza neutra nello sviluppo della lotta di classe sul piano dei rapporti internazionali: idea questa che si collega direttamente alla concezione corporativa, la quale pretende di superare la lotta di classe all’interno delle nazioni. Così facendo la socialdemocrazia abdica alla funzione storica del socialismo di essere, in seno al movimento operaio e nella lotta del proletariato contro il capitalismo e l’imperialismo, la forza portatrice dell’idea e del metodo democratico e rinunzia all’autonomia che un partito socialista deve per prima salvare: quella nei confronti delle forze capitalistiche e delle ideologie borghesi! La cecità di questa politica si misura tutta dall’avventurosa adesione data al blocco militare delle potenze d’occidente”.
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In più occasioni Morandi mise in guardia a non cadere nell’errore, per abitudine di linguaggio, di confondere “la socialdemocrazia dei nostri tempi con il riformismo, perché o la socialdemocrazia quale noi l’abbiamo davanti è nata dalla crisi dell’Internazionale socialista. Altro che ricevere lezioni da questi signori di internazionalismo. È la socialdemocrazia di oggi, sono quei partiti socialisti di occidente, che hanno spento in sé ogni anelito alla solidarietà internazionale del proletariato”.
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Per Morandi, dunque, la socialdemocrazia di Saragat non era l’espressione della componente riformista del movimento socialista prefascista che, con tutti i suoi limiti, rappresentava pur tuttavia una tradizione di lotta per il socialismo.
Celebrando il 10° anniversario dell’assassinio di Matteotti, affermava tra l’altro:
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“Una volta per tutte, poi, spieghiamoci chiaro, a confronto dei ciurmadori che allungano le mani sull’eredità del martire. A nessuno è dato di vivere sulle benemerenze del proprio passato, sottraendo gli atti che compie nel presente al giudizio del popolo. Nessuno, che abbia mai concesso un sol palmo di terreno ai nemici del popolo, può pretendere di campare di rendita, diciamolo brutalmente, sul proprio antifascismo passato. Se lo tengano per detto coloro che, per carpire la borsa di Giuda, prestarono mano il 18 aprile al tentativo di liquidare il legato della Resistenza; coloro che incalliti nella colpa furono poi caldeggiatori strenui del Patto atlantico, istigatori della legge truffa e sono oggi sostenitori accaniti della CED. Tanti e tanti che furono maestri o discepoli di Matteotti, fautori nei loro anni del gradualismo riformista contro la necessità e la crudezza della rivoluzione, sarebbero da nominare a questo proposito, per osservare che mai nessuno di essi concepì di subordinare a pretese superiori esigenze dello Stato borghese, le rivendicazioni sacrosante dei lavoratori. È vero, infatti, che quando alcuno osò, di tra le file socialiste, pronunziarsi per le imprese coloniali, o comunque schierarsi
dalla parte della guerra, fu cacciato con moto unanime e isolato dalla generale condanna. E come non mai si videro questi uomini accampare gli interessi della democrazia, per dare una mano alla classe dominante nel reprimere l’esercizio delle fondamentali libertà del proletariato e delle masse popolari, così come mai si vide dare adesioni da essi a macchinazioni belliciste, ed usare della parola pace e della parola neutralità, se non nel loro significato più semplice e genuino, nella loro accezione integrale, che esige la avversione radicale e intransigente della guerra”.
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La socialdemocrazia odierna, per Morandi, era l’espressione quindi di un presente, di un ampio disegno internazionale per dividere il movimento operaio e per operare nell’Europa occidentale una restaurazione capitalista.
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Conseguentemente alla critica politica ed ideologica della socialdemocrazia, Morandi diede il massimo dei contributi alla continua elaborazione della politica unitaria di classe.
Troviamo, l’impegno di Morandi come uomo politico, come organizzatore e come uomo d’azione, per dare alla politica unitaria di classe quella dimensione e quel contenuto che la realtà politica richiedeva, Morandi non ebbe mai una visione statica, legata a schemi prefabbricati. Capì però che il ruolo del partito era nella definizione e nella realizzazione di una politica che fosse l’espressione dell’intero movimento di classe e in questo senso, si può dire, egli diede il più poderoso ed originale dei contributi.
Perché due partiti che si richiamano alla stessa matrice ideologica?
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“La sinistra, che considera l’esistenza di due partiti proletari come una manifestazione della lotta di classe, se si sdoppia storicamente su un piano nazionale e su un piano internazionale, ritiene di capitale importanza la coordinazione e lo stretto affiancamento di essi nell’azione, quale espressione differenziata in questa fase di transizione di uno stesso interesse e di una stessa finalità di classe. La destra, invece non trova spiegazione a questo fenomeno, né giustificazione storica ad una prassi di partito che fa perno intorno alla potenza sovietica come originaria forza di espansione della rivoluzione proletaria, e persiste a giudicare il comunismo militante come una degenerazione del socialismo e qualcosa di abnorme, col quale i contatti non debbono essere tanto più intimi di quelli che possono tenersi con altri partiti”.
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Conquistare il partito socialista alla consapevolezza della validità della politica unitaria, come momento di elaborazione e di azione dell’intero schieramento di classe, era per Morandi una preoccupazione costante.
Essa diventa ancora più forte, all’indomani della rottura del PSIUP con la scissione saragattiana e di fronte ai precisi tentativi di ricacciare la situazione italiana sul piano inclinato della involuzione moderata attraverso l’attacco alle libertà politiche e sindacali.
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Nel discorso letto a Modena (aprile 1910) al IV Convegno giovanile socialista, Morandi pose con forza le ragioni e gli obiettivi della politica unitaria, in un momento in cui la guerra fredda toccava in Italia e in Europa il suo apice e dietro la quale si sviluppava, a tappe forzate, la ricostruzione capitalistica.
Nel rispondere a certi interlocutori interni ed esterni al partito, Morandi precisava:
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“La politica unitaria non è una invenzione della nostra mente, che consenta futili variazioni. Essa trova le sue ragioni nella stessa realtà sociale dalla quale è espressa; in altre parole, non è una politica che si possa concepire di porre ad ogni momento sotto un segno particolare. Bisogna su queste cose intenderci bene. Quando qualche volta ancora sentiamo dire che il partito deve avere una sua politica, che non vuole confondersi con il partito comunista; e una tale politica si dimostra di saper vedere solo in differenze quali che siano da segnare rispetto alla politica comunista, sorge in noi giustificato il dubbio che non si sia mai compreso ciò che vuol dire proporsi e praticare una politica unitaria. Rispetto al partito comunista, rispetto ad un partito della classe operaia, come noi siamo, una politica unitaria si definirà se mai sul piano delle identità e non sul piano delle differenze. Non si confonda con questa questione quella che attiene alle caratteristiche e alle finalità che a noi come partito sono proprie. Se di questo si tratta, allora è facile vedere che per noi socialisti vengono prima di tutto in questione i partiti socialisti e non il partito comunista. Allora il tanto tormentato problema della nostra caratterizzazione questo piuttosto richiede: di stabilire le differenze che sono, sul piano ideologico e programmatico, tra noi e il socialismo spurio. Voglio dire le differenze che debbono essere segnate da noi nei confronti dei partiti e delle forze, che, generati dal ceppo socialista; queste loro origini di lotta tradiscono, prosternandosi oggi ai dettami del nemico di classe”.
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A questi concetti, che egli espose all’indomani della conquista del PSI da parte della sinistra, Morandi ha poi successivamente uniformato e sviluppato ulteriormente tutto il suo impegno di grande organizzatore del movimento socialista. In particolare, egli seppe portare l’organizzazione di partito al più alto grado di rinnovamento e di espressione democratica, spezzando le incrostazioni clientelari e l’elettoralismo deteriore che lo caratterizzavano, attraverso la proiezione di tutto il partito nell’azione unitaria di massa.
Morandi capi che il partito doveva e poteva, di fronte all’evolversi della situazione, tentare un incontro con i lavoratori cattolici, attraverso un dialogo con il partito che li rappresentava sul piano politico.
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Il successo, però, di quell’incontro, aveva una condizione: che il PSI dovesse presentarsi così com’era, con tutto il suo patrimonio ideale, con tutta la sua elaborazione politica ed ideologica, insomma con tutti i suoi connotati.
Fino all’ultimo dei suoi atti politici egli tenne ad affermare che bisognava vedere se esistevano i presupposti “di un possibile accostamento, che rispetti la personalità, intendo dire le istanze di fondo e la libera determinazione dei partiti che dovrebbero essere i protagonisti”.
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L’incontro con il mondo cattolico, diceva al congresso di Torino (1955) non doveva avvenire, per essere valido, sulla base di “precarie combinazioni trasformistiche”.
Quindi il PSI si presentava all’appuntamento anche con la politica unitaria e questo non poteva costituire una remora giacché “il denominatore costante dell’unità d’azione è stato sempre la conquista e la difesa della democrazia”.
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Su questo tema Morandi ha elaborato ben poco, poiché la morte lo colse proprio nel momento in cui fu lanciata la politica del dialogo con i cattolici. Abbiamo a disposizione solo due discorsi estremamente interessanti pronunciati al Congresso di Torino ed al Convegno nazionale del movimento giovanile nel 1955.
L’incontro con i cattolici non doveva essere, per Morandi, la condizione per imporre al socialismo italiano di ripercorrere a ritroso la strada della socialdemocrazia italiana ed europea, nell’ambito di una scelta anticomunista imposta dal disegno internazionale dell’imperialismo.
Non poteva essere questo lo scopo né dichiarato né occulto dell’incontro, giacché il discorso si riproponeva proprio in quanto era fallito quello con la socialdemocrazia.
Rivolto alla Democrazia Cristiana, Morandi, infatti, precisava:
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“Volete forse che il PSI vi aiuti ad andare avanti per la strada che avete percorso, finché non ci saremo rotti tutti il collo? Toglietevi dalla mente di poterci imporre revisionismi e depurazioni. Se insistiamo tanto nel rappresentarvi la pericolosità di una situazione come questa, non è certo perché noi si cerchi riparo dietro il vostro sforacchiato scudo. Se mai dovessimo ispirarci a esclusivi interessi di partito, non avremmo davvero ragione di muovere un dito, non avremmo che da lasciarvi cuocere nel vostro brodo”.
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La D.C., insomma, deve capire che il socialismo italiano è quello che è, per la condizione particolare creatasi nel nostro paese ed in particolare per la lotta a fondo condotta conto il fascismo e non va preso strumentalmente come una “eresia totalitaria rispetto ai ‘principi’ della Internazionale socialista”.
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Il PSI, attraverso una sua più vigorosa partecipazione alla lotta ed anche attraverso duri sacrifici dei propri militanti e dirigenti, ha riguadagnato un posto “degno della sua lunga storia e del suo generoso passato, nella vita politica italiana. Tutto questo (non abbiamo difficoltà ad ammetterlo, e anzi teniamo a dichiararlo alto e forte) non è stato fatto allo scopo futile di ‘differenziarci’. È invece semplicemente conseguito a una accresciuta e più sicura capacità di assolvere alla funzione assegnataci dai tempi.  E quale è essa, compagni? Essa non è più quella di una alternanza o altalena tra riformismo e massimalismo ma, nella totale carenza della classe dirigente e della borghesia italiana nel suo insieme, è piuttosto quella che a noi tocca di rivestire da democratici conseguenti, che le vie della democrazia intendono di tenere aperte, perché sia la libera determinazione delle masse, la loro maturità di giudizio, a regolare il corso della rivoluzione sociale indirizzata alle mete del socialismo”.
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Più avanti precisava, sempre nel discorso di Torino, che “la fiducia e la confidenza dei lavoratori cattolici debbano guadagnarsi, spiegando loro per primo, con semplici e piane parole, quanto ci sia costato persistere in questi due anni in una politica aperta, che non ha concesso al massimalismo, e meno che mai all’anticlericalismo di maniera, rifiutandosi alle provocazioni, quando pure sulle nostre organizzazioni si sono abbattuti colpi su colpi”.
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L’esigenza dell’incontro con il mondo cattolico che il PSI poneva, non aveva secondo Morandi, scopi nascosti, così come non era una predisposizione al trasformismo. Precisava, infatti, a Perugia, al Convegno giovanile, pochi giorni prima della morte, che “non si tratta di manovre sinuose. Le intenzioni che proclamiamo e le nostre profferte – la cui validità non va commisurata all’ascolto che sul momento possono trovare – sono schiette come acqua di fonte.
Questo per la ragione molto semplice che non comportano rinunzia di sorta alla funzione storica del partito, la quale resta solidamente ancorata, come abbiamo sempre tenuto a ribadire, alla lotta di classe, che sta per sua natura sotto il segno dell’unità; così come non implicano in nessuna maniera un accantonamento delle finalità assegnate alla nostra lotta, alle quali non è per caso, e non è certo per una semplice civetteria storica, che si richiama lo statuto e che ha avuto sanzione dal recente congresso, tali finalità essendo la costruzione della società socialista”.
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Questo incontro che il PSI auspicava, non voleva dire che fosse l’unica strada obbligata che i socialisti avessero di fronte.
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“Certo è anche nostro debito dichiarare che, se intendiamo indirizzare principalmente per questa via i nostri sforzi, non significa che noi si rinunzi e si rinuncerà mai, ad aprirci altre vie, qualora questa, con sprovveduto calcolo, dovesse essere sbarrata”.
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La morte interruppe questo discorso morandiano, e fu un male, veramente, per tutto il movimento operaio italiano. Rodolfo Morandi, nella sua aspra e difficoltosa prosa, nell’attività incessante prestata al socialismo italiano, rappresentò una figura di leader che sarebbe indubbiamente piaciuta a Piero Gobetti.
Un socialista ‘moderno’, ‘nuovo’, estraneo a quel tanto di tradizione massimalista, festaiola, paesana che esiste nel socialismo italiano. Comunque un politico che ancora oggi, se ripreso criticamente e con serietà, mantiene una sua attualità feconda.
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Rodolfo Morandi, 1953