SCRITTORI POLITICI DELL’800 ITALIANO – GIUSEPPE MAZZINI

Trovo sia opportuno far conoscere anche scrittori più propriamente politici che, nella prima metà dell’Ottocento, agitarono il problema nazionale, o storicamente o filosoficamente; schiera copiosa e gloriosa: della quale non possiamo che ricordare pochi nomi.

I più di questi scrittori discendono in linea retta da Vittorio Alfieri, di cui hanno fatto propria l’italianità, e, talvolta, l’avversione alla Francia. Conquistare coscienza di popolo, era la prima condizione per la indipendenza e per la libertà. Ed era necessario che gli Italiani sentissero la grandezza del proprio passato, per poter costruire l’avvenire.
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Tra i primi alfieriani si ricordano Santorre di Santarosa, torinese: che fu l’anima della rivoluzione piemontese del 1821: dopo l’esito infelice della quale emigrò in Inghilterra, e poi in Grecia; ove morì per la libertà di quel popolo, nel 1825, a Sfacteria, una piccola isola della Grecia meridionale posta presso la baia di Pilo, nel Peloponneso.
Del nobilissimo agitatore si sono pubblicate recentemente le Speranze degli Italiani.
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Suo amico Cesare Balbo, anche lui torinese. Fu soldato e diplomatico; nel ’21 sperò che il principe avrebbe data la costituzione: nel’48 fu presidente del Consiglio dei ministri: e si dimise dopo Novara. Morì nel 1853. Negli anni che precedettero la sua vita pubblica, egli si dette agli studi storici, che significarono per lui conoscenza dell’anima italiana e della missione
dell’Italia attraverso i secoli.
Da quelle meditazioni uscirono i due volumi sulla Storia d’Italia, dal tempo della invasione longobardica: la Vita di Dante (1839), che è dei libri di più fervido e ragionevole ossequio a quel primo degli Italiani: il Sommario della Storia d’Italia (1846), libro di idee più che di notizie; in cui una visione soverchiamente simpatizzante per la Chiesa non consentì all’autore un’equa valutazione degli altri elementi della nostra civiltà.
Due anni prima si erano pubblicate le Speranze d’Italia, che furono un evento nazionale. Per la prima volta il problema italiano era pubblicamente e concretamente trattato: e, al disopra delle congiure, stava, assai più efficace, la discussione.
In ciò fu l’importanza del libro, più che nelle tesi dell’autore: la prediletta delle quali era che l’Italia dovesse mirare ad ottenere dall’Austria spontaneamente la libertà e l’autonomia, per compenso degli aiuti che essa le offrirebbe in una impresa interessante la civiltà europea e cristiana: la guerra contro la Turchia.
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Un altro grande torinese fu l’abate Vincenzo Gioberti, la cui altissima speculazione filosofica non perde mai di vista il problema nazionale, anzi è come il presupposto alla sua soluzione.
Esule, dal 1833, a Parigi, e poi a Bruxelles, ove insegnò in un istituto e trovò tempo e fede per comporre le più fervide sue opere, accorse nel ’48 a Torino, ove fu eletto presidente della Camera, poi ministro dell’istruzione pubblica nel gabinetto Collegno. Dopo Novara, Vittorio Emanuele lo volle nuovamente al governo. Il suo atteggiamento ostile a Mazzini lo rese odioso ai repubblicani, come ai clericali l’atteggiamento liberale.
Mori nel 1852, a Parigi, poco più che cinquantenne; né fu estraneo alla morte prematura il gigantesco lavorio mentale.
La produzione del Gioberti coincide quasi tutta cogli anni dell’esilio. Il Primato morale e civile degli Italiani  (pubblicato nel 1843) fu l’opera che lo rese a un tratto famoso.
E’ una esaltazione dell’Italia nel suo passato e nel suo presente: come della nazione che la provvidenza ha eletto a maestra e guida per un ritorno dell’Europa alla vita dello spirito. La salute d’Italia è per l’autore in una federazione dei vari Stati, sotto la presidenza del papato, la più italiana e più universale delle potenze. Ma il clero non rispose alla chiamata del Gioberti, che lo voleva parte viva nella rinnovazione morale e politica della nazione. I Gesuiti si opposero; e contro di essi il Gioberti scrisse il Gesuita moderno (1847), e poi l’Apologia del Gesuita moderno (1848).
Dell’anno precedente la sua morte è Il Rinnovamento civile d’Italia: un esame degli avvenimenti del ’48 e del’49, il quale conclude alla necessità della unificazione d’Italia sotto lo scettro di casa Savoia, contro l’idea federale espressa nelle opere anteriori.
In tutt’altro campo dal politico, interessa il trattato Del Bello, strettamente connesso alla filosofia idealistica del Gioberti, che egli espose in varie opere: La protologia, o Scienza prima…, l’Introduzione allo studio della filosofia…, La teoria del soprannaturale.
La critica gli riconosce oramai uno dei posti più eminenti nel pensiero contemporaneo.
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Terenzio Mamiani della Rovere, da Pesaro, esule dopo i moti di Romagna del ’31, richiamato e fatto ministro da Pio IX, nel 1860, col Cavour, ministro dell’istruzione, morto nel 1885, fu autore di Inni sacri, in versi sciolti, condotti nella maniera degli inni così detti omerici: e di molte scritti filosofici; tra cui il Rinnovamento della filosofia antica italiana (1834) è una celebrazione del pensiero e della cultura italiana di fronte al pensiero e alla cultura straniera.
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GIUSEPPE MAZZINI

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Ma il più eloquente ed inspirato degli scrittori politici del tempo, ed insieme il maggiore agitatore della coscienza nazionale, fu Giuseppe Mazzini.
Nacque a Genova il 18055. La madre, austeramente religiosa, contribuì non poco all’alto senso di moralità e alle tendenze mistiche del figlio. Tra passione della poesia e della letteratura prese l’adolescente: ma, più forte, la passione dell’Italia.
Affigliato alla Carboneria, fu arrestato e condotto nel carcere di Savona: passò poi in Corsica. La conoscenza della politica francese lo persuase sempre più della necessità che l’Italia facesse da sé. Si era già staccato dai Carbonari, francesizzanti; e fondò la Giovine ltalia, società di fervidi patrioti, il cui periodico di battaglia, dello stesso nome, correva, nelle più diverse e ingegnose guise, per tutta l’Italia: e in tutta l’Italia sorgevano le Congreghe.
In Piemonte si scopersero i nuovi congiurati. Molti fucilati: Jacopo Ruffini, l’intimo del Mazzini, si uccise. Il Mazzini era a Marsiglia; tentò una spedizione in Savoia, attraverso la Svizzera (1834), fallita miseramente.
Condannato a morte dal re di Sardegna, rimase alcuni anni in Svizzera: spiato continuamente dalla allora internazionale polizia austriaca, riparò nel ’37 a Londra. Provò la miseria, e l’avvilimento; ma presto si riprese. Collaborò in giornali inglesi e fondò l’Apostolato popolare. E di là suscitava i vari movimenti rivoluzionari italiani; di Bologna, del ’43, dei fratelli Bandiera, del ’44, (benché egli cercasse invano di dissuadere i temerari giovani dal tentativo); di Rimini, del’45.
Spesso riusciva a comparire fra noi. Fu nel ’48 a Milano, ove fondò l’Italia del popolo: nel ’49 a Roma, triumviro, con l’Armellini e il Saffi, della gloriosa Repubblica difesa da Garibaldi e uccisa dalle armi francesi. Allora nuovamente riparò il Inghilterra e continuò ad eccitare le congiure: miserabile quella che condusse ai processi di Mantova e al patibolo i martiri di Belfiore (1851-53).
Penetrò in Milano nel ’53, a rincuorarvi una insurrezione parimente infelice: e ancora era in Italia nel’57, e fomentava sommosse a Genova, a Livorno, a Napoli.
Ma se le congiure esprimevano la forma eroica dell’italianità, il continuo insuccesso di quelle persuadeva altra via: quella proclamata dal Balbo, dal Gioberti e dal D’Azeglio: di affermare apertamente i diritti dell’Italia, e di raccogliere intorno ad uno stato forte, come il Piemonte, le simpatie nazionali. Così alcuni mazziniani stessi abbandonarono il maestro.
Alle Congreghe si sostituì la Società Nazionale, fondata nel 1857 dal messinese Giuseppe La Farina, storico non degli ultimi. Il Cavour segretamente approvava.
Così si venne alla fortunata guerra del ’59, alla spedizione garibaldina del ’60, e alle annessioni. Il Mazzini, tenace nelle sue idee di repubblicano unitario, apprezzatore del sacrificio anche più che del successo, rimase a poco a poco solo, e circondato da oblio e da calunnie.
Deputato di Messina nel ’65, la sua elezione fu annullata dal Parlamento. L’Italia ufficiale lo riguardava ormai come un pericoloso nemico. Nel ’70, nell’ultima sua venuta in Italia, fu arrestato a Gaeta. Morì a Pisa nel 1872 e fu sepolto a Genova, nel camposanto di Staglieno.
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Giuseppe Mazzini fu oggetto di tenaci amori e di ingenerosi odi. Oggi sta al disopra dei partiti. Si può ancora accusare come non pratica la sua politica. Non si può non ammirare !a sua rigida concezione morale, la sua fede nell’innato eroismo delle moltitudini, la sua religione del sacrificio, la sua volontà di una Italia grande innanzi tutto spiritualmente, e per la terza volta maestra di civiltà al mondo, la sua comprensione di ogni più delicato problema dello spirito, la sua religiosità.
Gli scritti del Mazzini sono dettati in una prosa poetica, tutta fiamme di entusiasmo. Sono per lo più lunghi articoli, pubblicati nei periodici di cui fu collaboratore o direttore. Altri furono pubblicati dopo la morte, come le Note autobiografiche, interessantissime a conoscere la storia di quell’anima, i suoi propositi, i suoi entusiasmi e gli abbattimenti.
Giovane, fu appassionato di letteratura; e lasciò saggi notevoli: quali Dell’amor patrio di Dante, ove riecheggiano le idee del Foscolo sul poeta: Della fatalità come elemento drammatico, in cui preludia alla nuova tragedia, non più generata dal Destino, né dal Caso, ma dalla Provvidenza…, il Parallelo tra Byron e Goethe…, la Filosofia della musica.
Degli scritti politici, che sono assai più, ricordiamo la Lettera di un italiano a Carlo Alberto di Savoia (1831); Lo Statuto della Giovine Italia; alcuni articoli fondamentali per la intelligenza del pensiero mazziniano, quali Dell’unità italiana (del 1833), la Lettera ai Siciliani a proposito della rivoluzione di Palermo del ’48, la Lettera al Ministero francese, in difesa della Repubblica romana, l’Ammonimento ai giovani d’Italia del 1859, dopo la delusione del trattato di Villafranca, Italia e Roma…, la Questione morale…, Agli Italiani., programma dell’ultimo giornale da lui fondato, la Roma del popolo; il saggio sulla Rivoluzione francese.
Tutta la sua predicazione contro il materialismo e l’individualismo, che egli considerava come i nemici maggiori del progresso e della dignità umana, e intorno alla necessità del sacrificio, egli concluse nel libretto I doveri dell’uomo, diretto agli operai.
Le innumerevoli Lettere del Mazzini, raccolte dopo la sua morte, sono documenti di una spiritualità e di una sensibilità ricchissima.
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Altri scritti e scrittori ci riconducono al Mazzini. Del Mazzini fu intimo, e collaboratore nell’Indicatore LivorneseCarlo Bini, da Livorno, morto giovane il 1842, autore del Manoscritto di un prigioniero, strano libro di tristezza e di ironia.
Il romagnolo Felice Orsini, affigliato alla Giovine Italia, difensore di Venezia nel ’48 e di Roma nel ’49, fu condannato a morte a Mantova, e poi andò esule in Inghilterra, finché, in Francia, attentò alla vita di Napoleone III, perché ancora non si era mosso in aiuto dell’Italia: e fu suppliziato il 1859. Lasciò le sue Memorie politiche (1856).
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Un pio sacerdote, monsignor Luigi Martini, che accompagnò al patibolo quasi tutti i martiri di Belfiore, narrò le ultime giornate di quei fervidi mazziniani, in un libro semplice e commovente, cui pose il nome di Confortatorio, così era chiamata la cella della fortezza, ove i condannati si preparavano alla morte.
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Ma dei martiri precedenti narrò nobilmente la vita i pistoiese Atto Vannucci, morto il 1883, nell’opera I martiri della libertà  italiana dal 17944 al 1848.
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