I “BARABBA” – Patrioti italiani

Fucilazione degli insorti del 6 febbraio 1853
(Illustrazione di Edoardo Matania)

I “BARABBA”

Negli anni dal 1850 al 1853 una grave crisi colpì l’economia italiana ed europea in generale e, in particolare, quella lombarda. Questa grave crisi colpì non solo le campagne, ma anche le città, e soprattutto Milano, dove era raccolta la nascente industria. Questa aveva un carattere, nel complesso, arretrato, ancora settecentesco, ma a Milano esistevano complessi industriali con diverse centinaia di operai. Ora, fra il ’51 e il ’53, queste industrie cittadine e, pertanto, anche gli operai furono colpiti dalla grave crisi, che provocò scarsità di lavoro e, di conseguenza, peggioramento delle loro condizioni; alla mancanza di lavoro si aggiunse il rincaro eccessivo dei generi alimentari di prima necessità.

Anche la borghesia soffriva per la crisi economica che non l’aveva affatto risparmiata. La borghesia aveva precisa coscienza di questo fatto ed i rimedi che tentava lo dimostravano chiaramente. Chiedeva, anzitutto, al governo austriaco l’allargamento del mercato con una saggia ed adeguata politica di accordi commerciali e di leghe doganali con gli altri Stati della penisola e senza posa avanzava l’esempio del vicino Piemonte, in cui una politica liberistica consentiva un fervore di opere ed uno sviluppo delle forze industriali sconosciuti alla Lombardia.
Ma la crisi di quegli anni traeva le sue origini anche dall’eccessivo carico tributario imposto dall’Austria per sfuggire alla imminente minaccia di fallimento.
Il ceto borghese fremeva degli arbitrii dell’Austria e covava sotto sotto una sorda ribellione dovuta al fatto che il regime austriaco violava tutte le sue aspirazioni, che si riassumevano particolarmente nel desiderio di una maggior libertà di movimenti: ma, d’altra parte, motivi profondi di dissenso lo dividevano anche dalla classe lavoratrice, verso cui avrebbe voluto attuare una politica energica di repressione. Insomma agivano su di esso due esempi, quello della politica liberistica del Piemonte e l’altro della politica antioperaia di Napoleone III, esempi che riteneva adatti ad una maggiore espansione dell’attività industriale.
Ma sia l’uno che l’altro, però, erano tali da metterlo in contrasto con gli operai e, pertanto, si può capire la sua scarsa partecipazione al moto del 6 febbraio, data la prevalenza assunta nella organizzazione clandestina e nell’insurrezione stessa dai popolani.
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Più volte Giuseppe Mazzini ebbe a dichiarare che la preparazione del moto milanese del 6 febbraio 1853 era stata opera esclusivamente dei popolani, di quelli che i rapporti di polizia definirono come la più “vile feccia” della popolazione. Gli operai si raccoglievano a cospirare soprattutto nelle osterie, dove avevano sempre l’aiuto degli osti, che erano spesso anche dei capi della congiura.
Il Pollini nel suo libro sul 6 febbraio ci dà un lungo elenco di queste osterie, alcune delle quali poi furono oggetto di particolare attenzione da parte della polizia, senza, però, che venisse scoperto nulla: le osterie dell’Iseo portofranco, del Paradiso a Porta Vigentina, della Portalunga in via Broletto, della Cassoeula a Porta Tosa, della Riviera presso Porta Comasina, ecc.
 I popolani erano divisi per compagnie, ciascuna dell’e quali comprendeva gli appartenenti ad una stessa arte, o ramo di industria: ad esempio della compagnia A facevano parte i facchini, della B i falegnami, della C i calzolai, della F i facchini ed i carbonai, i cosiddetti tencitt, e via dicendo.
E lo stesso Pollini riferisce una canzone che i tencitt cantavano:
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“Amici, alla fabbrica
allegri andiamo:
corriamo, dei popoli
la lega facciamo.
È questo il momento
del nostro cimento;
amici, alla fabbrica
allegri andiamo”.
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Una bella canzone che esprime una ingenua fiducia nell’avvenire ed anche uno spontaneo senso di solidarietà fra i popoli.
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L’osteria milanese della “Cassoeula”, fuori Porta Tosa, ora Porta Vittoria
(Dipinto di A. Fermini)
Ingenua fiducia nell’avvenire: ed effettivamente il continuo sviluppo dell’ organizzazione e le prove sempre più ardite che gli operai avevano dato o che avevano il coraggio di tentare, erano tali da far nascere veramente quella fiducia.
Il 25 giugno l’uccisione della spia Vandoni aveva gettato lo spavento fra gli austriaci ed i loro seguaci per la rapidità con cui eta stata eseguita, per la segretezza da cui era stata circondata. E poi ancora alcune dimostrazioni, fra cui la partecipazione di cinque o seicento persone ad una messa funebre nell’anniversario del supplizio dei fratelli Bandiera, avevano rivelato la forza notevole raggiunta dall’organizzazione operaia.
L’organizzazione, come si vede, era limitata alle classi popolari, poichè il ceto medio e l’alta borghesia si erano ritirate ed avevano rinunciato ad una decisa azione contro gli austriaci. Forse agiva su di essi il timore di rendere più aspre le rappresaglie austriache soprattutto di natura economica: confische, sequestri di beni, ecc.
Per questi ed alti motivi, di cui ho parlato sopra, la borghesia si tenne lontana dalla organizzazione clandestina rivoluzionaria operaia che, indubbiamente, si trovò di fronte ad una svolta decisiva quando il Mazzini si accorse della sua forza e decise di prendere contatto con essa per influenzarla e dirigerla verso i suoi intenti politici.
È il Mazzini stesso che lo dice:
“La parte popolana […], che nel ’47 i migliori dicevano incapace di fare e che diede una solenne smentita ai ragionatori, quella parte, vuol fare. Quando mi fui convinto che non erano semplici ebollizioni di taverna, ma concetti che avevan del serio, stimai debito mio l’accostarmi e, nel caso in cui persistessero dare aiuto quanto poteva”.
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E più chiaramente nel suo scritto sulla insurrezione:
“S’era formata spontanea, ignota a noi tutti, nel 1852 in Milano una Fratellanza segreta di popolani, repubblicani di fede e con animo deliberato di preparare l’insurrezione e compierla. Non s’era rivolta per aiuti e consigli ad abbienti o letterati; non aveva cercato contatti con noi, aveva prima voluto essere forte”.
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Un’attività cui si dedicava specialmente l’associazione operaia era quella della diffusione di manifestini, che aveva condotto all’arresto ed alla condanna a morte di Amatore Sciesa: erano piccoli foglietti di carta, stampati, ma spesso scritti anche a matita che venivano incollati con la mollica sui muri e, di preferenza, sulle porte delle chiese, in quanto si sperava che potessero sfuggire all’attenzione della polizia, dato anche che, in genere, iniziavano con le parole: “Avviso sacro”.
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Le testimonianze sono, come abbiamo visto, concordi nel dire che l’organizzazione degli operai aveva raggiunto, agli inizi del ’53, una certa consistenza ed una discreta forza.
Eppure nel pomeriggio del 6 febbraio, tra le 4,30 e le 5, quando ebbe inizio l’insurrezione, il numero dei congiurati che si riuscì a raccogliere fu di gran lunga inferiore a quelle diverse migliaia di cui si era prima parlato: in tutto qualche centinaio di uomini.
Lo scoppio del moto era stato preceduto da un certo fermento dei popolani, e ne sentiamo un’eco in queste affermazioni che un oste fece alla polizia:
“Anzi qui mi torna opportuno di deporre che la domenica 6 febbraio p.p. circa verso le ore due pomeridiane, entrò nel negozio una compagnia di sette od otto individui che io vedeva per la prima volta, perciò tutta gente estranea alla mia osteria, di una classe più bassa di quella che solitamente ci aveva, tutti in generale malvestiti, e questi vi vollero una stanza separata, che li venne da me fornita; poi si chiusero in quella, come perchè non venissero sentiti i loro discorsi… [corre allora ad avvertire l’ispettore di polizia, il quale, tuttavia, venuto, non trova nulla di sospetto e lascia quegli individui liberi]. Partito però l’Ispettore anche coloro se ne partirono. E fu appunto sull’atto della loro partenza che io osservai addosso ad altro di coloro un triangolo o lima di falegname, di qualche dimensione ed acuminato”.
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Ma, con tutto ciò, la partecipazione al moto degli operai fu piuttosto scarsa tanto che l’insurrezione dovette suddividersi in tanti episodi isolati e parziali, in cui ebbe grande rilievo il coraggio individuale dei popolani (che non esitarono, ad esempio, ad assaltare la Gran Guardia del Palazzo Reale, pur essendo soltanto una ventina di uomini), ma che non poteva avere, fin dall’inizio, alcuna probabilità di successo.
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Per tutta la città fu una caccia ai soldati austriaci isolati o in pattuglia, fino a quando l’effervescenza sfociò nella costruzione di barricate, che la classe operaia sperava potessero rinnovare i miracoli del ’48.
In un Rapporto giornale del 7 febbraio del R. Commissario di Polizia del I Circondario è detto:
“Nella impossibilità di potere in un rapporto descrivere minutamente ogni fatto, parvemi bastante l’accennare che i riottosi e loro aderenti pure l’infima classe del popolo [i barabba] hanno tentato di rinnovare le scene sanguinose e rivoluzionarie del 18 marzo 1848, mentre già in alcuni luoghi furono erette barricate e si valeva anche del campanile della chiesa di S. Subino stata invasa da un branco di quei malfattori per suonare a stormo; ciò che non è riuscito, essendo fuggito il custode di detta chiesa”.
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Il grande coraggio di questi barabba destò ammirazione in tutti gli storici che hanno parlato dell’episodio e l’Austria si vendicò della paura che, per un momento, aveva di nuovo provato, erigendo sedici forche: sedici martiri che vennero ad aggiungersi alla lunga schiera dei morti per la Patria.
Ma è chiaro che un problema storico molto importante ci rimane da affrontare, se possibile, da risolvere: come mai dalle diverse migliaia di congiurati del periodo precedente il 6 febbraio si passò, poi, alle poche centinaia di attivi partecipi alla insurrezione?
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“La causa principale [del fallimento], scriveva lo stesso Mazzini il 20 febbraio, è stata il fatale dissenso della classe media; la colpevole condotta dei nostri migliori repubblicani appartenenti a quella classe. Essi sostennero fino all’ultimo che il popolo non avrebbe potuto o voluto prendere l’iniziativa. E si tennero in disparte. Se vi fossero stati cinquanta del loro nucleo, pronti a mettersi a capo, anche nel caso che fallissero tutti i coups de surprise, l’iniziativa si sarebbe mutata in una regolare guerra di barricate; e ventiquattr’ore d’una guerra simile avrebbe fatto muovere tutte le città della Lombardia; e il movimento lombardo sarebbe stato il movimento italiano”.
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 Milano – Lapide a Giuseppe Piolti de Bianchi
Limpida figura di patriota, Giuseppe Piolti De’ Bianchi (nato a Como il 25 ottobre 1825 – morto a Milano il 3 novembre 1890), combatté nelle Cinque Giornate di Milano, partecipò nell’anno successivo alla difesa di Roma, rientrò clandestinamente a Milano verso la fine dell’anno e fece uscire, firmando con lo pseudonimo di “Eugenio Minta”, il periodico La solitudine, che lo soppresso il 20 febbraio 1850; dopo qualche mese Piolti De’ Bianchi fece uscire il giornale La società (costituito dalla fusione de La solitudine con la Domenica del Cesana) e, poi, dopo la soppressione di questo,  La Fenice, a sua volta subito soppressa.
Nel settembre del 1852, tramite Benedetto Cairoli, Giuseppe Mazzini gli affidò la direzione del Partito a Milano. Nel gennaio del ’53 si incontrò con Mazzini a Lugano e tentò dissuaderlo da un’azione insurrezionale, che gli pareva intempestiva.  Decisa, invece, l’insurrezione per il 6 febbraio, egli fu attivo nel movimento preparatorio e nell’infausta giornata, tentando, inutilmente, tutto quanto fosse possibile perchè il moto non fallisse. Restò, dopo la sconfitta, nascosto a Milano, donde il 5 maggio, sospettando che il suo rifugio fosse stato scoperto, riparò a Stradella.
 La direzione del Partito a Milano rimase affidata ad Ambrogio Ronchi e Piolti De’ Bianchi, da Torino, fu tramite attivissimo fra Milano e Londra, ma, scoperta la sua attività dovette, dopo un periodo di carcere, ritirarsi sul Lago Maggiore nel Canton Ticino, e di lì prosegui la sua opera.
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