DOTTRINE POLITICHE – IL LIBERALISMO DI JOHN LOCKE

John Locke  

Libertà e proprietà in Locke

Il liberalismo. Si può far risalire la concezione liberale a John Locke (1632-1704). II pensiero politico di questo esponente dell’empirismo filosofico si muove attorno alle vicende della rivoluzione borghese nell’Inghilterra del XVII secolo, e particolarmente intorno alla soluzione moderata su cui essa si assesta nel 1688. La sua concezione giustifica e fonda la monarchia costituzionale.
Locke assume l’ipotesi di uno stato di natura in cui l’uomo è libero. Fonda la libertà nella natura stessa e ne fa perciò un principio insopprimibile. Al tempo stesso, nello stato di natura la libertà di ciascuno è costantemente minacciata dalla libertà altrui. Nasce di qui la necessità di un patto, o contratto, con cui gli uomini si uniscono in società ed alienano il proprio potere ad un potere politico generale, lo Stato.
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“Se l’uomo nello stato di natura è così libero come s’è detto, s’egli è signore assoluto della propria persona e dei propri possessi, eguale al maggiore e soggetto a nessuno, perchè vuol disfarsi della propria libertà?
Perchè vuol rinunciare a questo impero e assoggettarsi al dominio e al controllo di un altro potere? Al che è ovvio rispondere che sebbene allo stato di natura egli abbia tale diritto, tuttavia il godimento di esso è molto incerto e continuamente esposto alla violazione da parte di altri, perchè, essendo tutti re al pari di lui, ed ognuno eguale a lui, e non essendo, i più, stretti osservatori dell’equità e della giustizia, il godimento della proprietà ch’egli ha è in questa condizione molto incerto e malsicuro. Il che lo rende desideroso di abbandonare una condizione, che, per quanto libera, è piena di timori e di continui pericoli, e non è senza ragione ch’egli cerca e desidera unirsi in società con altri che sono già riuniti, o hanno intenzione di riunirsi, per la mutua conservazione delle loro vite, libertà e averi, cose ch’io denomino, con termine generale, proprietà.
Perciò il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà, al qual fine nello stato di natura mancano molte cose.
In primo luogo manca una legge stabilita, fissa, conosciuta, la quale per comune consenso sia stata ammessa e riconosciuta come regola del diritto e del torto, e misura comune per decidere tutte le controversie; perchè, sebbene la legge di natura sia evidente e intellegibile ad ogni creatura ragionevole, tuttavia gli uomini, in quanto sono influenzati dai loro interessi e la ignorano per mancanza di studio, tendono a non riconoscerla come una legge che li obblighi ad applicarla ai loro casi particolari.
In secondo luogo, nello stato di natura manca un giudice conosciuto ed imparziale, con autorità di decidere tutte le divergenze in base alla legge stabilita; perchè, ciascuno essendo, in quello stato, tanto giudice quanto esecutore della legge di natura, ed essendo gli uomini parziali nei propri riguardi, la passione e la vendetta tendono a portarli troppo lontano e a renderli troppo ardenti nei propri casi, mentre la negligenza e la noncuranza tendono a farli troppo trascurati in quelli degli altri.
In terzo luogo, nello stato di natura spesso manca un potere che appoggi e sostenga la sentenza allorchè sia giusta, e le dia la dovuta esecuzione. Quelli che hanno commesso un’ingiustizia raramente mancano, quando ne sono capaci, di sostenere con la forza la loro ingiustizia: tale resistenza spesso rende pericolosa e sovente mortale la punizione per coloro che la tentano.
È così che gli uomini, dal momento che, nonostante tutti i privilegi dello stato di natura, si trovano in fondo in una cattiva condizione finchè vi permangono, sono tosto spinti a entrare in società, perciò accade ch’è raro vedere un gruppo di uomini vivere per qualche tempo insieme in questo stato. Gli inconvenienti a cui vi sono esposti per l’esercizio irregolare e incerto del potere che ognuno ha di punire le trasgressioni degli altri, fanno sì che essi si rifugino sotto la protezione delle leggi stabilite di un governo, e in esse cerchino la conservazione della loro proprietà. E’ questo che fa sì che essi così volentieri rinuncino ciascuno al proprio diritto di punire, perchè sia esercitato da quello soltanto che fra loro vi sarà designato, e secondo quelle norme che la comunità, o chi ne sarà autorizzato da essa, converrà. Nel che troviamo il diritto originario e l’origine del potere sia legislativo che esecutivo, come pure degli stessi governi e delle società medesime…
Ma, sebbene gli uomini, quando entrano in società rimettono l’eguaglianza, la libertà e il potere esecutivo, che essi hanno nello stato di natura, nelle mani della società, onde il legislativo ne disponga secondo che il bene della società lo richieda, tuttavia, poichè ciò non accade che per l’intenzione che ciascuno ha d’una migliore conservazione di sè, della propria libertà e proprietà – perchè non si può supporre che una creatura ragionevole cambi la sua condizione con l’intenzione di star peggio – il potere della società, o il legislativo da essi sostituito, non si può mai supporre che trascuri il bene comune, ma è obbligato a garantire la proprietà di ciascuno, cioè prendere misure contro tre difetti sopra menzionati, che rendono così incerto e scomodo lo stato di natura.
E così chiunque detenga il potere legislativo o supremo d’una società politica è tenuto a governare secondo leggi fisiche stabilite, promulgate e note al popolo, e non secondo decreti estemporanei, con giudici imparziali e integri, che decidano le controversie secondo quelle leggi, e a impiegare la forza della comunità, all’interno, esclusivamente per l’esecuzione di tali leggi, e, all’esterno, per prevenire o reprimere le offese straniere, e garantire la comunità da incursioni e invasioni, e a dirigere tutto ciò a nessun altro fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”. (*)
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Nella lettura di queste pagine si sarà notato un elemento ricorrente: il principio della proprietà e della sua difesa. Il nesso che Locke stabilisce tra libertà e proprietà è costante:
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Se l’uomo nello stato di natura è così libero come s’è detto, s’egli è signore assoluto della propria persona e dei propri possessi...”. (*)
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L’uomo entra in società per garantirsi “il godimento della proprietà”, cioè la sua libertà. Senza proprietà, insomma, non vi è libertà. Il nesso proprietà – persona umana (sua difesa ed affermazione) stabilito dal pensiero cristiano della scolastica viene qui recepito e dilatato nel nesso proprietà-persona-libertà.
Siamo ad una evidente espressione della concezione cristiano-borghese della proprietà e della libertà. La funzione dello Stato di tutore della proprietà è affermata con chiarezza:
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“…il potere supremo non può togliere ad un uomo una parte della sua proprietà senza il suo consenso, perchè, dal momento che il fine del governo e la mira di tutti quelli ch’entrano in società è la conservazione della proprietà, ciò necessariamente presuppone ed esige che il popolo abbia una proprietà, senza di che si dovrebbe supporre che, coll’atto di entrare in società, si perda ciò che costituiva il fine per cui si è entrati in società: assurdità troppo grossolana perchè essa possa essere ammessa da alcuno.
Perciò, poichè gli uomini in società hanno una proprietà, essi hanno sui beni che, in base alla legge della comunità, sono loro appartenenza, tale diritto che nessuno ha il diritto di toglier loro la sostanza o parte di essa, senza il loro consenso; senza di che non hanno per nulla proprietà, perchè non posso veramente dire d’aver proprietà su ciò che un altro può con diritto togliermi quando vuole, contro il mio consenso. Per il che è un errore credere che il potere supremo o legislativo di una società politica possa fare ciò che vuole e disporre degli averi del suddito arbitrariamente, o toglierne una parte a suo piacimento. Questo pericolo non sussiste nei governi in cui il legislativo risiede, interamente o in parte, in assemblee che sono variabili, i cui membri, allo scioglimento dell’assemblea, sono soggetti alla legge comune del loro paese, allo stesso modo che gli altri. Ma nei governi, in cui il legislativo si trova in una sola assemblea sempre in funzione, oppure in un solo uomo, come nelle monarchie assolute, allora vi è sempre pericolo ch’essi pensino di avere interessi distinti dagli altri membri della comunità, e quindi tendano ad accrescere la propria ricchezza e il proprio potere col togliere al popolo ciò che vogliono: perchè la proprietà di un uomo non è per nulla sicura, per quanto vi siano leggi valide ed eque che ne stabiliscano i limiti fra lui e i suoi con sudditi, se chi comanda quei sudditi ha il potere di togliere a un privato quella parte della sua proprietà ch’egli vuole, e se ne serva e ne disponga come meglio crede”. (*)
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La giustificazione dello Stato costituzionale-liberale avviene dunque in funzione della proprietà (essa è, ai tempi di Locke, essenzialmente la proprietà della tema).
Il richiamo allo stato di natura, in cui esisterebbe una proprietà e libertà incondizionata (perciò non sicura) è, ovviamente, del tutto utopico, non ha nessuna giustificazione storica, ma è di natura essenzialmente ideologica. Etnologia e storia diranno poi come la proprietà personale non preceda la società, ma vada gradatamente formandosi all’interno delle società tribali già costituite, e la sua funzione si accentui man mano che la vecchia comunità tribale viene posta in crisi dal suo differenziarsi in classi sociali (sulla base della proprietà).
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(*) Trattato sul governo – John Locke
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