IL FLAUTO MAGICO – Ingmar Bergman

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IL FLAUTO MAGICO

Titolo originale – Trollflöjten
Regia – Ingmar Bergman
Soggetto – Emanuel Schikaneder (libretto de Il flauto magico)
Sceneggiatura – Alf Henrikson, Ingmar Bergman
Produttore – Måns Reuterswärd
Casa di produzione – Sveriges Radio
Lingua originale svedese
Paese di produzione – Svezia
Anno 1975
Durata 135 minuti
Genere musicale
Fotografia – Sven Nykvist
Montaggio – Siv Lundgren
Musiche – Wolfgang Amadeus Mozart (da “Il flauto magico”), Direttore: Eric Ericson con la Swedish Radio – Symphony Orchestra
Scenografia – Henny Noremark
Costumi – Karin Erskine, Henny Noremark

Interpreti e personaggi

Britt-Marie Aruhn: prima dama
Jerker Arvidson: guardia
Gösta Bäckelin: sacerdote
Ingmar Bergman: pubblico
Ulrik Cold: Sarastro
Jane Darling: damigella
Elisabeth Erikson: Papagena
Sixten Fark: sacerdote
Helene Friberg: ragazza nel pubblico
Håkan Hagegård: Papageno
Herta Frankel: damigella
Arne Hendriksen: sacerdote
Helena Högberg: damigella
Sven-Erik Jacobsson: sacerdote
Hans Johansson: guardia
Ulf Johansson: secondo sacerdote
Folke Jonsson: sacerdote
Erland Josephson: pubblico
Sonja Karlsson: damigella
Josef Köstlinger: Tamino
Ansgar Krook: secondo ragazzo
Hans Kyhle: sacerdote
Käbi Laretei: pubblico
Einar Larsson: sacerdote
Elina Lehto: damigella
Urban Malmberg: primo ragazzo
Birgit Nordin: Regina della notte
Sven Nykvist: pubblico
Gösta Prüzelius: primo sacerdote
Carl Henrik Qvarfordt: sacerdote
Erik Sædén: l’oratore
Birgitta Smiding: terza dama
Siegfried Svensson: sacerdote
Ragnar Ulfung: Monostato
Liv Ullmann: pubblico
Irma Urrila: Pamina
Kirsten Vaupel: seconda dama
Erland von Heijne: terzo ragazzo
Lena Wennergren: damigella
Lisbeth Zachrisson: damigella

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VIDEO – IL FLAUTO MAGICO – Ingmar Bergman

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TRAMA

IL FLAUTO MAGICO, che è la fedele trasposizione dell’opera Il flauto magico di Mozart, alterna spazi puramente teatrali a spazi cinematografici, e Bergman pone attenzione a fare continuamente riferimento all’opera teatrale per non trasportare brutalmente lo spettatore nella dimensione cinematografica.
All’inizio del film si vede così apparire sotto i titoli di testa il castello settecentesco di Drottningholm, ambiente ideale per l’opera mozartiana, costruito da Gustavo III di Svezia vicino a Stoccolma e un vecchio teatro che è stato ricostruito in uno studio televisivo, mentre il volto di una bambina appare continuamente per ricordare che si tratta di una rappresentazione e per riassumere con l’innocenza dei suoi tratti infantili come deve porsi lo spettatore-ascoltatore di fronte al capolavoro di Mozart. L’orchestra intanto esegue l’Ouverture, mentre sullo schermo appaiono volti di persone di etnie differenti a simboleggiare che la comunicazione musicale è universale.

COMMENTO

Il rapporto con la televisione consentì a Bergman di realizzare un antico sogno: impegnarsi nel film- opera. Avrebbe voluto dirigere Il flauto magico già venticinque anni prima a Malmö, ma non aveva osato farlo ritenendo di non avere a disposizione gli artisti più adatti e di non essere egli stesso
ancora abbastanza maturo.
Mozart, dunque: uno degli antichi amori di Bergman insieme con Chopin, Wagner, Bach. La musica è onnipresente nell’opera del regista, ma Il flauto magico è rimasto l’unico esempio di immersione totale nell’opera. Avrebbe voluto fare anche il Don Giovanni, ma l’idea non si è mai trasformata in un progetto, forse perché egli ha sempre ritenuto non corrisposto il suo amore per la musica . Il flauto magico è rimasto un prototipo difficilmente eguagliabile non solo nella sua filmografia, ma anche nella storia generale dell’opera cinematografata. Il film è stato osannato dai critici cinematografici e ancor più dai musicofili. “Più intelligente, più agile, il ritmo dell’illustrazione della musica non è meno strettamente collegato alla musica, che anzi esso la raddoppia, la rende anche più esplicita, senza mai sostituirvisi. Rare volte è accaduto di allontanarsi da una sala di proiezione in così alto stato di estasi.
Il film è la fedele, completa trascrizione dell’opera tanto da poter sostituire la realtà di una rappresentazione teatrale del Flauto magico con ugual diritto e maggiore corposità di un’dizione discografica. Qui Bergman è in primo luogo regista di teatro d’opera; si comporta cioè non diversamente da un visconti davanti a Manon, da uno Zeffirelli in Otello. Entro i limiti dell’assoluto rispetto al testo nella sua integrità, che accetta con evidente amore e devozione, il regista a sua disposizione ha quel di più che il mezzo cinematografico gli offre, cioè una libertà, uno svincolo dallo spazio obbligato, una molteplicità di punti di ripresa che certo un palcoscenico vero non consente agli spettatori in teatro. E ovviamente la genialità di Bergman rifulge in questo di più che trasforma la trascrizione del Flauto magico anche in un film gradevolissimo.
Vediamo ora in che cosa si risolve questo “di più. Anzitutto l’alternarsi di spazi prettamente teatrali con spazi cinematografici. Bergman non trasporta di peso lo spettatore nella dimensione cinematografica, ma fa continuo riferimento a quella teatrale per ancorare l’opera al suo tempo, al suo modo di nascere, al suo tradizionale modo di essere rappresentata. Vediamo così all’inizio, sotto i titoli di testa, gli esterni del castello settecentesco di Drottighol, fatto costruire da Gustavo III presso Stoccolma, ambiente ideale per l’opera mozartiana.
Poi lo spettatore viene quasi invitato a entrare. Il vecchio teatro è ricostruito in uno studio televisivo in modo da poter aprire le sue quinte, di volta in volta, ai voli della fantasia creativa del regista cinematografico Ma continuamente un volto di bambina fa da contrappunto alla rappresentazione, quasi a ricordare che di rappresentazione si tratta, quasi a riassumere nell’innocenza dei suoi lineamenti la posizione migliore di uno spettatore-ascoltatore di fronte al capolavoro mozartiano. D’altra parte, mentre l’orchestra eseguiva l’Ouverture, Bergman ci ha mostrato scorci di pubblico, facce di persone di tutte le razze, quassi a simboleggiare l’universalità della comunicazione musicale. E sul susseguirsi dei volti ha dato un clamoroso esempio di adeguamento dell’immagine al ritmo della musica.
I trucchi sono prettamente teatrali, anche se ricreati con tecnica cinematografica: si veda ad esempio la mongolfiera sulla quale volano i tre Geni. La scenografia all’inizio strizza l’occhio al barocco, ma poi, nelle scene dell’iniziazione, lascia il posto a un gioco di luci e di ombre che va molto al di là dell’atmosfera ricreabile su un palcoscenico. Di tanto in tanto, per sottolineare questa o quella frase, i personaggi stessi mostrano agli spettatori i sottotitoli scritti su grandi cartelli di legno. Si dice che quando nello spettacolo c’è un elemento di disturbo una delle soluzioni per renderlo innocuo consiste nell’enfatizzarlo.
Così Bergman si diverte a farci vedere che è possibile giocare anche con i sottotitoli: si neutralizzano addirittura inserendoli nell’azione.
Quanto all’aspetto musicale, c’è da dire che Bergman ha svolto questa volta anche il ruolo di impresario di teatro lirico e di direttore artistico. Egli stesso ha scelto gli interpreti secondo personali criteri di aspetto fisico e di doti vocali.
“Una delle mie preoccupazioni principali – dichiarò in un’intervista – è stata di trovane cantanti che avessero delle voci naturali, se così si può dire, non voci artificiali ma voci che dessero l’impressione di venire direttamente dal cuore”.

Ha aggiunto del suo anche a un livello più profondo, pur senza turbare l’equilibrio del capolavoro. Anzitutto fra i temi dell’opera ha accentuato – meglio dire privilegiato – quello dell’amore. Il flauto magico contiene una morale che mi piace: cioè che l’amore è la cosa più importante tra gli esseri umani, e la più importante del mondo. Per sottolineare questo punto ha dovuto renderlo esplicito; è uno dei rari cambiamenti che abbia ritenuto necessari rispetto al libretto originale. E tocca al primo sacerdote, Sarastro, un saggio, sottolineare questo tema. Difatti qualche piccola variante rispetto all’originale c’è. Si notano colpetti di forbice (il terzetto Tarnino-Pamina-Sarastro nella ventesima scena del secondo atto) e discreti rimaneggiamenti nel testo: proprio le frasi didascaliche che il regista fa pronunciare a Sarastro all’inizio del secondo atto. Lo è condotto per mano verso la percezione del significato centrale dell’opera.
Un altro elemento bergmaniano che si inserisce nell’universo mozartiano è quello femminile. Gran narratore di storie di donne, il regista dedica qui particolare attenzione al personaggio di Pamina e alla sua metamorfosi. Quando Pamina varca il tetro regno della notte; quando affronta gli orrori che fanno da diaframma alla festa della libertà e della luce, allora la sua identificazione si completa cancellando la dolce principessa. Ne prende il posto una donna bergmaniana: una di quelle creature che, mentre il compagno attraversa la vita suonando il suo flauto a occhi chiusi, lo guidano con polso fermo e hanno il tragico coraggio di guardare la realtà.

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