Gabriele Mucchi |
Poiché noi riconosciamo che il cammino dell’arte, già svoltosi attraverso i secoli secondo una direzione pressoché costante, tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, insieme alla fase di estremo sviluppo della società capitalista e alla formazione dell’imperialismo con le sue terribili contraddizioni, ha subito rotture e involuzioni. Di rottura in rottura, di evasione in evasione, di contraddizione in contraddizione, il cammino dell’arte è giunto fino all’astrattismo a quella forma, cioè, che in quanto non soltanto rifiuta i contenuti della realtà, ma attribuisce valore di contenuto alla forma stessa è all’opposto degli intenti del realismo.
Ecco quindi il presentarsi della necessità di quelle ‘riscoperte’. Esse, appena intraprese, portarono l’espressione artistica realistica a forme così diverse da quelle a cui il gusto del pubblico e quello dei critici stessi era abituato, che non meraviglia affatto lo scandalo da parte degli avversari e anche una certa incomprensione da parte degli stessi amici del realismo. Sembra infatti che non tutti siano d’accordo sulla necessità stessa, o almeno sull’ampiezza di queste ‘riscoperte’.
Ecco il punto in discussione, che si collega direttamente con l’altro problema: sul modo di intendere il concetto di “tradizione nazionale”.
Che cosa significa “tradizione nazionale”? Per i realisti italiani significa ritrovare, per le opere realiste e per tutta l’arte contemporanea, il grande filone dell’arte figurativa, contro le tendenze del cosmopolitismo, contro quelle tendenze cioè, che si sviluppano in molti paesi del mondo ma sono l’espressione del modo di pensare e degli interessi di ristretti cerchi culturali e sociali, anziché del modo di pensare e degli interessi di tutti gli uomini di ogni paese. Incapaci quindi di essere l’espressione del genio nazionale di quei paesi.
Ora, se si parla di interpretazione più o meno rigida del concetto di tradizione nazionale, si parla di qualche cosa sulla quale tutti possono essere d’accordo e di cui bisogna soltanto valutare i limiti, ma se si parla di “banale ripetizione dell’illustrativismo ottocentesco”, come ha fatto il critico Trombadori in un suo articolo, esaminando la Difesa di Venezia di Pizzinato esposta alla Biennale nel 1954, è ovvio che Pizzinato difenda il suo modo di intendere il problema della tradizione nazionale: poichè è questo ciò che egli fa quando parla di una “visione classica delle cose”.
“Io stesso”… dice Mucchi… ” non accetto l’interpretazione di Trombadori al piccolo quadro di Pizzinato, mentre accetto, e chi non lo farebbe?, il suo avvertimento sul pericolo di schematismi, ripreso anche da Treccani“.
Ma quando si lasciano le parole e si sta con la tavolozza davanti alla tela, le faccende assumono aspetti diversi.
Allora può darsi che diventi schematismo l’idea che essere nuovi significhi ripetere quelle ‘novità’ di cui si sono nutriti in un determinato periodo della “nostra formazione” (è sempre Mucchi che parla), ma che sono d’impedimento anziché d’aiuto allo sviluppo del realismo (per esempio certi modi picassiani, o certa esasperazione espressionistica, o certo pittoricismo, certo decadentismo ecc. – e perfino certa ripresa di modi della pittura francese dell’800), equivalente alla criticata ripresa di modi nella pittura italiana dello stesso periodo…).
E del resto si nota che, se anche vi sono punti di vista differenti da un artista all’altro, questo è ciò che un po’ tutti hanno fatto in questi ultimi anni, Renato Guttuso passando dalle Cucitrici del 1947 alla Battaglia del ’52 e al Boogie Woogie…., Zigaina dall’Occupazione delle terre del ’50 a Erba ai conigli del ’54…, Pizzinato dal Contadino ucciso del ’49 alla Fucilazione di patrioti del ’54…, Treccani dalla Morte di Maria Margotti dei ’50 al Ritorno a Fragalà del ’53 e lo stesso dal Bombardamento di Gorla del ’49 al Partigiano assetato dl 1954, – per citare soltanto opere di alcuni artisti.
quali questi, che sono accolti da tutti, e cioè: primo, che i contenuti del realismo si trovano nella realtà che nasce e si sviluppa e non in quella che deperisce e muore, il che implica una certa tematica del realismo: secondo, che il linguaggio del realismo deve essere il più chiaro, il più esplicito, il più lineare, il più sano possibile – il meno incerto, il meno allusivo, il meno involuto, il meno decadente possibile.
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