GABRIELE MUCCHI E IL REALISMO


In attesa dei pescatori – Gabriele Mucchi
Sulla questione di una ”crisi” del realismo in arte vi sono stati pareri contrastanti, ma direi nel campo critico più che in quello dei pittori. I pittori, forse perchè più del critici sanno quali sono le possibilità dell’arte; loro, sono ottimisti e danno un significato di progresso alla crisi.

E questo è anche il parere di Gabriele Mucchi (Torino, 25 giugno 1899 – Milano, 10 maggio 2002) figlio del pittore Anton Maria Mucchi, fu pittore, architetto e designer attivo a Milano, Parigi e Berlino. Intellettuale di idee antifasciste, vicino al movimento Corrente, prende parte in Val d’Ossola alla guerra partigiana, con la moglie Genni Wiegmann. Mosso da un forte impegno civile e politico, è fra i protagonisti della ricostruzione milanese.


Gabriele Mucchi 
“”Se c’è una crisi è certamente una crisi di crescenza, nel senso che i più responsabili e attenti pittori realisti in quegli ultimi anni Cinquanta del secolo scorso si pongono problemi d’espressione che non si ponevano anni prima, quando l’importante era di prendere posizione di fronte alla realtà in qualsiasi modo e con qualunque mezzo espressivo.
“La caratterizzazione di un volto, di una mano, I’ambizione di dipingere un paesaggio nuovo,
cioè nè impressionista nè metafisico, e di conseguenza la riscoperta di un colore e di un disegno adeguati”…, come dice Zigaina, sono alcuni fra molti di questi problemi.
Come risolverti? Qui è il punto delicato.

Poiché noi riconosciamo che il cammino dell’arte, già svoltosi attraverso i secoli secondo una direzione pressoché costante, tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, insieme alla fase di estremo sviluppo della società capitalista e alla formazione dell’imperialismo con le sue terribili contraddizioni, ha subito rotture e involuzioni. Di rottura in rottura, di evasione in evasione, di contraddizione in contraddizione, il cammino dell’arte è giunto fino all’astrattismo a quella forma, cioè, che in quanto non soltanto rifiuta i contenuti della realtà, ma attribuisce valore di contenuto alla forma stessa è all’opposto degli intenti del realismo.

È dunque questa la strada da seguire? No, evidentemente. Non intende cosi Zigaina quando parla della necessità di ‘riscoprire’ (quindi cercare qualche cosa che è già stato e che non è più) il disegno e il colore adeguati a caratterizzare un volto o una mano) o un paesaggio realista? Non intende anche che non sia in Kandinski o in Klee che si ‘riscopre’ il linguaggio del realismo, ma cercando fuori di loro, fuori anche da Matisse e Picasso dove essi sono responsabili, anche se con opere d’eccezione, proprio delle rivoluzioni antirealistiche dell’arte moderna?
Ecco perchè alcuni realisti, anche se per un certo periodo del loro lavoro si erano serviti dei modi della pittura ‘moderna’ (per essersi essi stessi formati nel clima di quell’arte) a un certo momento hanno sentito che non era possibile continuare ad usare linguaggi storicamente e criticamente antirealisti per esprimere i contenuti del realismo.
Ecco quindi il presentarsi della necessità di quelle ‘riscoperte’. Esse, appena intraprese, portarono l’espressione artistica realistica a forme così diverse da quelle a cui il gusto del pubblico e quello dei critici stessi era abituato, che non meraviglia affatto lo scandalo da parte degli avversari e anche una certa incomprensione da parte degli stessi amici del realismo. Sembra infatti che non tutti siano d’accordo sulla necessità stessa, o almeno sull’ampiezza di queste ‘riscoperte’.
Ecco il punto in discussione, che si collega direttamente con l’altro problema: sul modo di intendere il concetto di “tradizione nazionale”.

Che cosa significa “tradizione nazionale”? Per i realisti italiani significa ritrovare, per le opere realiste e per tutta l’arte contemporanea, il grande filone dell’arte figurativa, contro le tendenze del cosmopolitismo, contro quelle tendenze cioè, che si sviluppano in molti paesi del mondo ma sono l’espressione del modo di pensare e degli interessi di ristretti cerchi culturali e sociali, anziché del modo di pensare e degli interessi di tutti gli uomini di ogni paese. Incapaci quindi di essere l’espressione del genio nazionale di quei paesi.

Ma qualcuno ha creduto di dover suonare un campanello d’allarme, sembrando che alcuni realisti interpretassero troppo rigidamente, oppure, come per polemica forse un po’ affrettata fu lasciato intendere, troppo comodamente questo richiamo alla tradizione nazionale: nel senso che invece di inserirsi nella tradizione attraverso l’elaborazione degli apporti delle varie tendenze dell’arte moderna, alcuni realisti si adagiassero sulla facile ripresa di schemi dell’arte antica o addirittura sulla ripetizione di forme ottocentesche.
Ora, se si parla di interpretazione più o meno rigida del concetto di tradizione nazionale, si parla di qualche cosa sulla quale tutti possono essere d’accordo e di cui bisogna soltanto valutare i limiti, ma se si parla di “banale ripetizione dell’illustrativismo ottocentesco”, come ha fatto il critico Trombadori in un suo articolo, esaminando la Difesa di Venezia di Pizzinato esposta alla Biennale nel 1954, è ovvio che Pizzinato difenda il suo modo di intendere il problema della tradizione nazionale: poichè è questo ciò che egli fa quando parla di una “visione classica delle cose”.

“Io stesso”… dice Mucchi… ” non accetto l’interpretazione di Trombadori al piccolo quadro di Pizzinato, mentre accetto, e chi non lo farebbe?, il suo avvertimento sul pericolo di schematismi, ripreso anche da Treccani“.

Ma ci possono essere schematismi e schematismi. Chi può essere in disaccordo quando Treccani dice che si tende “alla formazione di un uomo nuovo e quindi di un artista nuovo”?
Ma quando si lasciano le parole e si sta con la tavolozza davanti alla tela, le faccende assumono aspetti diversi.

Allora può darsi che diventi schematismo l’idea che essere nuovi significhi ripetere quelle ‘novità’ di cui si sono nutriti in un determinato periodo della “nostra formazione” (è sempre Mucchi che parla), ma che sono d’impedimento anziché d’aiuto allo sviluppo del realismo (per esempio certi modi picassiani, o certa esasperazione espressionistica, o certo pittoricismo, certo decadentismo ecc. – e perfino certa ripresa di modi della pittura francese dell’800), equivalente alla criticata ripresa di modi nella pittura italiana dello stesso periodo…).

Mentre forse non è schematismo il voler uscire determinatamente dalle facilità, dalle approssimazioni, dalle tortuosità delle “esperienze” moderne, per ritrovare la grande strada maestra in punti più sicuri e aperti e anche più italiani.

E del resto si nota che, se anche vi sono punti di vista differenti da un artista all’altro, questo è ciò che un po’ tutti hanno fatto in questi ultimi anni, Renato Guttuso passando dalle Cucitrici del 1947 alla Battaglia del ’52 e al Boogie Woogie…., Zigaina dall’Occupazione delle terre del ’50 a Erba ai conigli del ’54…, Pizzinato dal Contadino ucciso del ’49 alla Fucilazione di patrioti del ’54…, Treccani dalla Morte di Maria Margotti dei ’50 al Ritorno a Fraga del ’53 e lo stesso dal Bombardamento di Gorla del ’49 al Partigiano assetato dl 1954, – per citare soltanto opere di alcuni artisti.

Ma per finire bene non posso non ricordare che qualunque siano i diversi punti di vista bisognerà almeno che ogni realista resti fedele ad alcuni principi essenziali del realismo fra i

quali questi, che sono accolti da tutti, e cioè: primo, che i contenuti del realismo si trovano nella realtà che nasce e si sviluppa e non in quella che deperisce e muore, il che implica una certa tematica del realismo: secondo, che il linguaggio del realismo deve essere il più chiaro, il più esplicito, il più lineare, il più sano possibile – il meno incerto, il meno allusivo, il meno involuto, il meno decadente possibile.

Ciò anche perchè il realismo sia capace, come dice Treccani, di farsi intendere dalla classe operaia, e, aggiungo io, da tutti.
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