IL SETTIMO SIGILLO – Ingmar Bergman

IL SETTIMO SIGILLO

Titolo originale – Det sjunde inseglet
Lingua originale – Svedese
Paese di produzione – Svezia
Anno 1957
Durata 96 minuti
Dati tecnici – B/N
Genere – Epico, fantastico, drammatico
Regia – Ingmar Bergman
Soggetto – Ingmar Bergman (dal suo dramma Pittura su legno)
Sceneggiatura – Ingmar Bergman
Produttore – Allan Ekelund
Casa di produzione – Svensk Filmindustri (SF)
Distribuzione in italiano – Globe Films International
Fotografia – Gunnar Fischer
Montaggio – Lennart Wallén
Musiche – Erik Nordgren
Scenografia – P.A. Lundgren
Costumi – Manne Lindholm
Trucco – Nils Nittel

Interpreti e personaggi

Max von Sydow: Antonius Block, il cavaliere
Gunnar Björnstrand: Jöns, lo scudiero
Bengt Ekerot: la Morte
Nils Poppe: Jof
Bibi Andersson: Mia
Inga Gill: Lisa
Maud Hansson: strega
Inga Landgré: Karin Block
Gunnel Lindblom: giovane donna che segue lo scudiero
Bertil Anderberg: Raval
Anders Ek: monaco
Åke Fridell: Plog, il fabbro
Gunnar Olsson: Albertus Pictor
Erik Strandmark: Jonas Skat

Doppiatori italiani

Emilio Cigoli: Antonius Block, il cavaliere
Pino Locchi: Jöns, lo scudiero
Bruno Persa: la Morte
Gianfranco Bellini: Jof
Maria Pia Di Meo: Mia
Vittoria Febbi: strega
Lydia Simoneschi: Karin Block
Renato Turi: Raval
Ferruccio Amendola: il monaco
Giorgio Capecchi: Plog, il fabbro
Manlio Busoni: Jonas Skat
Gualtiero De Angelis: predicatore

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VIDEO – IL SETTIMO SIGILLO – Ingmar Bergman

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L’idea venne a Bergman contemplando gli affreschi delle chiese medievali: menestrelli ambulanti, appestati, flagellanti, streghe sul rogo, crociati e poi la Morte che gioca a scacchi. Il soggetto deriva peraltro da un atto unico scritto da lui stesso nel 1954 per un saggio di recitazione degli allievi dell’Accademia Drammatica di Malmö. Era una breve rappresentazione scenica di una cinquantina di minuti, intitolata Pittura su legno, e servì molto bene per l’uso cui era destinata. Conteneva parti per tutti gli allievi. Ce n’era una anche per il meno dotato: quella del cavaliere muto perché i saraceni gli avevano mozzato la lingua.
Un paio d’anni dopo Bergman, mentre ascoltava il disco dei Carmina burana di Orff, ebbe l’idea di trasformare Pittura su legno in un film. Ma il produttore non ne volle sapere. Poco dopo Sorrisi di una notte d’estate veniva presentato a Cannes e gratificato da un grande successo. Forte del risultato ottenuto, Bergman ripropose il soggetto del Settimo sigillo. La risposta fu positiva, a patto chela realizzazione non durasse più di trenta giorni. Così fu. “È un film disuguale cui tengo molto – dice Bergman – perché venne girato con mezzi poverissimi, facendo appello alla vitalità e all’amore. Nel bosco notturno dove viene bruciata la strega si intravedono tra gli alberi le finestre delle case di Rasunda”.

Il film consolidò la fama del regista. Ebbe al Festival di Cannes del 1957 il Premio speciale della Giuria e nel 1958 ricevette il Gran Premio dell’Accademia francese del cinema. In Italia, dove fu proiettato quattro anni dopo, ricevette il Nastro d’argento; in Spagna, a Valladolid, il Labaro d’oro.

TRAMA – Il Cavaliere Antonius Block sta tornando a casa dopo una Crociata. È sfiduciato, stanco, deluso. Lo vediamo in riva al mare con il suo scudiero, Jöns, mentre una voce fuori campo legge alcuni versetti dell°Ap0calísse. È l’alba, il cielo è nuvoloso, il mare mosso. Il Cavaliere prega in ginocchio, a mani giunte. Sopraggiunge la morte: è venuta a prenderlo, è da molto che lo segue. Block dice di non essere pronto: “Il mio spirito lo è ma non il mio corpo. Dammi ancora del tempo”. Sfida la morte a una partita a scacchi: sarà salvo finché la partita durerà. Cavaliere e scudiero ripartono. Lo scudiero canta una canzone e racconta episodi terribili e misteriosi. Si imbatte in una persona accovacciata per terra, la tocca e si accorge che è morta.
Il saltimbanco Jof sta parlando col suo cavallo quando ha la visione celestiale della Madonna col bambino. Sveglia la moglie Mia, che lo esorta a non abbandonarsi alle solite fantasticherie. Si sveglia anche L’attore che vive e lavora con loro. Si sveglia anche il figlioletto, per il quale il padre immagina un avvenire luminoso. È una famiglia felice.
Mia ripete a Jof che lo ama tanto.
Lo scudiero incontra un pittore che sta affrescando una parete. Il soggetto è la “danza della morte”. Il pittore informa Jöns del dilagare di una terribile pestilenza. Intanto il Cavaliere prega davanti a un crocifisso. Intravvede un monaco dietro una grata (in realtà si tratta della Morte) e gli si confida: “Il mio cuore è vuoto come uno specchio… Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi?”. Aggiunge che intende usare il tempo supplementare concessogli dalla Morte per compiere qualcosa di utile.
Lo scudiero racconta al pittore i disagi della Crociata. Fuori hanno catturato una ragazza accusata di stregoneria. La esorcizzano con sangue di cane nero. Proibiscono al Cavaliere di parlarle. Lungo il cammino lo scudiero si imbatte poi in un furfante, Skat, che sta derubando un cadavere. È la stessa persona che anni prima l’ha indotto a partecipare alla Crociata. Jöns lo insulta e lo percuote.
I saltimbanchi mettono in scena lo spettacolo. L’attore, beffeggiato dagli spettatori, si allontana e comincia ai corteggiare una donna del luogo di nome Lisa. La recita è interrotta da una processione di flagellanti. Un monaco invasato tiene dal palcoscenico un terribile sermone sulla peste come punizione divina. Più tardi alla locanda scoppia un tafferuglio e Jof viene percosso. Malconcio e claudicante, raggiunge moglie e figlio che, presso il carro, sono in compagnia del Cavaliere. Questi mette i due sposi in guardia contro la peste eli invita ad attraversare la foresta con lui e a sostare nel suo castello.
Il fabbro Plog scopre la moglie Lisa in compagnia dell’attore. Dopo un’accesa discussione, la donna chiede perdono al marito e l’attore cerca di cavarsela fingendo il suicidio. Si arrampica poi su un albero per passare la notte al sicuro: la Morte gli si avvicina, gli sega il ramo e lo fa precipitare al suolo. Più tardi il Cavaliere e i suoi compagni assistono ai preparativi del rogo per la ragazza ritenuta strega. Block chiede alla giovane se è stata assieme al diavolo: “Voglio incontrarlo anch’io, voglio domandargli di Dio”.
La piccola comitiva è accampata per la notte. Arriva un appestato moribondo: non c’ë nulla da fare per aiutarlo. Block riprende la partita a scacchi con la Morte. ]of se ne accorge e si spaventa. Prende moglie e figlio e cerca di allontanarsi. Block riesce a distrarre per un momento la Morte, facendo cadere gli scacchi col mantello, e la famigliola riesce a mettersi in salvo. Il Cavaliere così ha compiuto la sua buona azione. La Morte gli dà scacco matto. Il Cavaliere ha ormai poco tempo. Giunto al castello, è accolto dalla moglie Karin, sola. Tutti gli altri sono fuggiti per paura della peste. Karin legge agli ospiti un brano dell’Ap0calisse. Arriva la Morte, tutti le si presentano. Il Cavaliere prega, lo scudiero lo irride. “L’ora è venuta”, dice qualcuno. A questo punto vediamo la famigliola del saltimbanco in salvo, sulla spiaggia. Jof indica, sulla sommità della collina, un macabro corteo: la Morte danza con Block e con gli altri personaggi, “allontanandosi lietamente nel chiarore dell’alba verso un altro mondo ignoto”.

COMMENTO – Il film inaugura la tematica religiosa che sarà al centro di molti importanti film di Bergman. I due personaggi chiave sono il Cavaliere, credente ma assalito dal dubbio, e lo scudiero, indifferente, materialista, beffardo. La crisi del Cavaliere deriva dalla delusione della Crociata cui ha preso parte. Confidandosi col monaco che poi si manifesterà come la Morte, Block dice: “Vorrei confessarmi ma non ne sono capace perché il mio cuore è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura, indifferenza verso il prossimo, verso i miei irriconoscibili simili”. Si anticipa qui il tema dello specchio, che sarà sviluppato ampiamente nella trilogia e anche altrove. Si anticipa la concezione dell’uomo disperato perché non riconosce se stesso nei suoi simili, perché non riesce a capire il valore del suo essere uomo. Si anticipa il tema della paura, che tanto spazio avrà nella poetica bergmaniana. Il vuoto mette paura, quando non provoca una sensazione di disgusto.
Alla domanda della Morte “Non credi che sarebbe meglio morire?” il cavaliere risponde: “L’ignoto mi atterrisce. Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi, per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché dovrei aver fede nella fede degli altri? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me, sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto, egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? Vorrei sapere senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza. Voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli”. “Il suo silenzio non ti parla?”, incalza la Morte. “Lo chiamo e lo invoco – replica Block – e se egli non risponde penso che non esiste. Allora la vita non è che un vuoto senza fine. Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza”.

È espressa qui in modo didascalico tutta la problematica esistenziale del cinema bergmaniano. Qui, a differenza che altrove, la parabola è lineare, chiara. Il cavaliere difatti, dopo aver attraversato nel suo simbolico itinerario i segni dei drammi e delle tragedie degli uomini (la guerra anzitutto, poi la peste, la collera, l’adulterio, la superstizione), si riscatta sottraendo alla morte la famigliola felice (“Voglio usare il tempo che mi è concesso per un’azione utile…”).
Al termine della vita, nel castello, quando arriva la Morte per l’appuntamento definitivo, il Cavaliere è pronto: ha riconosciuto in sé il volto del prossimo e nel prossimo il suo volto. Ha riconosciuto il volto dell’uomo. Accoglie la Morte in preghiera: “Dall’oscurità che tutti ci attornia mi rivolgo a te, Signore Iddio. Abbi misericordia di noi che siamo inetti e sgomenti e ignari… Dio, tu che in qualche luogo esisti, che devi certamente esistere, abbi misericordia di noi”.
Il settimo sigillo è l’ultimo di quelli che, secondo 1′Apocalisse di San Giovanni, impediscono la lettura del libro tenuto in mano da Dio. Dobbiamo ricordare che quel “libro” in realtà era un rotolo di papiro, e non un codice rilegato. Ciò spiega come Giovanni abbia potuto vedere che esso è scritto anche sul verso, cosa che non avrebbe senso con un codice. I papiri, invece, una volta arrotolati, erano chiusi con sigilli lungo il bordo esteriore del foglio che era così incollato a rotolo. Era questa, tra l’altro, la disposizione richiesta dal diritto romano per i testamenti.
Pertanto non si può cominciare la lettura di quei testi senza aver rotto i sette sigilli. Il settimo è dunque l’ultimo sigillo, quello la cui rottura condiziona la rivelazione suprema dei segreti contenuti nel libro di Dio. Solo l’Agnello – e cioè, secondo un sinonimo aramaico, il Servo, cioè il Cristo – può procedere a questa rivelazione, a dissigillare il libro. Le scene corrispondenti a ogni apertura di sigillo non costituiscono tanto una rivelazione parziale del contenuto del libro, quanto il simbolo dei problemi fondamentali che caratterizzano la condizione umana e costringono l’uomo a interrogarsi sul senso della sua presenza nel mondo.

“E allorché l’Agnello aprì il settimo sigillo – è scritto nell’Apocalisse – si fece un gran silenzio nel cielo per circa mezz’ora”. “Quel silenzio impressionante, magnificamente evocato nel film dall’aquila giovannea immobile tra le nuvole, sottolinea l’importanza suprema della Rivelazione, mentre il Libro dei Sigilli, ormai dissigillato, si svolge, lentamente. Tutto il film si colloca in questa mezz’ora. Questo è il tempo di dilazione che il Cavaliere, rigettato sulla spiaggia, chiede alla morte. Mentre i flagelli continuano ad infierire quaggiù, bisogna cercare di interrogare questo silenzio del cielo, questo segreto che forse si nasconde al di là dell’ultimo sigillo infranto. Ma per Bergman questo interrogativo resterà senza risposta. Il Libro dei Sigilli si è forse aperto, ma nessuno sa che esso ha un contenuto. In ogni caso nessuno l’ha potuto interpretare. Bergman resta alla soglia dell’Apocalisse, alla soglia della Rivelazione. “La domanda rimane”, egli dirà.
Secondo me, se essere cristiano significa affermare ciò che nega l’ateo e viceversa, Bergman non è né l’uno né l`altro: Egli non afferma né nega, ma interroga, senza fare sperare che per la sua domanda possa esserci una risposta. Ma si rende conto che la domanda è posta male? Il dilemma è forse meno rigoroso di quanto egli pensi. Tra la fede spontanea, naturale, ingenua del giocoliere e l’incredulità brutale e lucida dello scudiero, tra l’ottimismo infantile del cuore e il pessimismo adulto dell’intelligenza, tra la vita vissuta felicemente. sul filo della natura e dell’istinto e la morte, dappertutto all`opera, in un mondo cattivo, vi è ancora posto, al di là della credulità e del dubbio, per una fede senza compiacenza; per una fede che, secondo la parola di Sant’Agostino, continua a cercare poiché ha già trovato. Probabilmente tutto questo, a ben guardare, trova posto nel complesso dell’opera bergmaniana e anche in Il settimo sigillo, almeno secondo una rilettura a distanza, cioè dopo aver visto Come in uno specchio, Luci d’inverno. Sussurri e grida. Il film è una sorta di mistero medievale ricchissimo di motivi spiritualistici e che l’angoscia dei personaggi, esistenziale e metafisica, è «coscienza della vacuità della loro condizione umana e al tempo stesso vertigine dell’assoluto. L’autentico significato del film consiste proprio nella rinuncia da parte dell’autore a fornire una risposta univoca all’angoscioso problema del crociato: egli ne ha invece adombrata una soluzione nella salvezza della Grazia che assiste i semplici. Una speranza, quindi, e al tempo stesso un monito. Sempre a posteriori, si può indicare anche un’altra strada, che è quella dell’amore. Il crociato chiede alla morte una dilazione per fare qualcosa di buono, e riesce a farlo, salvando i saltimbanchi dalla sua falce. È un atto d’amore, appunto, che – come Bergman ripeterà in film successivi – consente di leggere in questo modo un riflesso di Dio.
Il tutto è filtrato attraverso un’esperienza cinematografica di grande suggestione. Per descrivere l’emozione visiva si è citato Dürer, si sono evocate le sacre rappresentazioni medievali. Esemplare è, tra le altre, la scena in cui i saltimbanchi offrono al cavaliere le fragole e il latte (*). Bergman gioca magistralmente con la luce. Il bianco e il nero della scacchiera sulla quale il Cavaliere e la Morte giocano la partita definitiva della vita si ripropone in uno smagliante contrasto di ombre e luci nelle potenti sequenze destinate a illustrare simbolicamente i sigilli apocalittici: la peste, la violenza, la carestia, la fame, il potere.
Viene rappresentato un nordico secolo XIV attraverso l’evocazione di pitture e sculture, religiose e profane. Il gioco intellettuale dell’allegoria, dei richiami simbolici, del dubbio esistenziale si sposa armoniosamente – come di rado accade nella storia del cinema – con una raffinata poesia delle immagini.
Elemento non marginale della buona riuscita dell’opera è il cast. Vediamo Max von Sydow, uscito dalla Scuola d’Arte Drammatica di Stoccolma, per la prima volta in vesti di protagonista sotto la direzione di Bergman, del quale diventerà uno degli interpreti abituali. E vediamo brillantemente all’opera Bibi Andersson alla prima esperienza e Nils Poppe, celebre come attore comico, alle prese per la prima volta con un ruolo drammatico.

(*) In quelle immagini di pacata bellezza si fa presente una esemplare sintesi della condizione umana, dove l’uomo coglie, insieme al limite della sua esistenza e all’ansia della sua inesausta ricerca, la gioia della vita, il gusto del latte e delle fragole, la grazia di un bambino, la tranquilla felicità di un prato verde.

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