ODISSEA – Riassunto e commento 21° libro

ODISSEA

L’ARCO DI ULISSE
LA PROVA DI TELEMACO
SI PREPARA LA VENDETTA
 IL MENDICO OTTIENE L’ARCO
 LA PROVA È VINTA

LIBRO XXI

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Tempo: Trentanovesima giornata dall’inizio del poema
Luoghi dell’azione raccontata: La reggia di Ulisse;  la città di Fere in Messenia (ricordata)

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NEL LIBRO PRECEDENTE
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Ulisse nell’atrio non può dormire perché agitato dal pensiero della vendetta ed anche Penelope, dopo un breve sonno, si sveglia e pensando alle nozze imminenti invoca la morte per potere, almeno dopo morta, rivedere Ulisse. All’alba l’eroe esce nel cortile ed ha da Giove un fausto presagio. Si prepara intanto il grande banchetto in onore di Apollo. Viene Eumeo e giungono anche il bovaro Filezio e l’insolente Melanzio. I Proci siedono a mensa e, dopoché Ctesippo ha scagliato una zampa di bue contro il mendico, il pretendente Agelao cerca di calmare gli animi ed esorta Telemaco ad indurre sua madre alle nuove nozze. Il giovane afferma che mai egli forzerà Penelope ad una tale decisione e intanto i Proci, cui Minerva ha tolto il senno, ridono e piangono spasmodicamente. Teoclimeno annuncia loro sinistramente la futura strage, ma essi Io deridono, chiamandolo pazzo.
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Penelope, ispirata da Minerva, si reca con le ancelle nelle stanze del tesoro per prendere l’arco di Ulisse, la faretra e le dodici scuri che serviranno alla gara dei pretendenti. Quell’arco ad Ulisse l’aveva regalato Ifito a Fere in Messenia, dove i due eroi s’erano incontrati, Ulisse per ricuperarvi certe greggi predate da bande di Messeni ed Ifito per riavere delle cavalle rapitegli da Ercole.
Penelope, dunque, affacciatasi all’ingresso del mègaron propone ai Proci la gara: è giunta per lei l’ora della decisione ed ella affiderà la sua scelta a questa prova. Chi riuscirà a piegare l’arco e a far passare la freccia attraverso gli anelli delle dodici scuri, verrà scelto da lei come sposo.
Eumeo e Filezio, incaricati di portare ai Proci le frecce e l’arco, piangono alla vista dell’arma del loro signore e sono rimproverati da Antinoo, il quale, pur non nascondendosi la difficoltà di piegare l’arco, è tuttavia fiducioso di superare la prova.
Anche Telemaco invita i Proci all’esperimento, che ha in palio un cosi ambito premio e chiede di potercisi provare lui stesso, nella speranza, qualora vi riesca, che sua madre non voglia abbandonarlo. Il giovane dopo aver disposto in fila le scuri, tenta invano tre volte di piegare l’arma; alla quarta quasi ci riesce, ma un cenno di Ulisse lo fa desistere dal tentativo.
Antinoo allora esorta i compagni alla prova; invano tenta l’aruspice Leòde che, deponendo l’arco fa infausti presagi; Antinoo, sdegnato, ordina a Melanzio di scaldare l’arco e di ungerlo, ma neppure cosi gli altri Proci riescono a piegarlo ed i soli Eurimaco ed Antinoo devono ancora cimentarsi.
Frattanto Eumeo e Filezio escono dal mègaron sulla strada ed Ulisse li segue; l’eroe si assicura ancora della loro sincerità e collaborazione e infine si rivela loro, mostrando quale segno di riconoscimento la cicatrice e promettendo moglie, beni e una casa in cambio della loro fedeltà. I due fedelissimi piangono di gioia, riconfermano il loro aiuto e quindi i tre, dopo essersi bene intesi fra loro, rientrano nella sala.
Eurimaco tenta invano la prova e si rammarica non tanto per la perdita di Penelope quanto per la derisione di cui i pretendenti saranno oggetto presso gli altri. Ma Antinoo Io consola affermando che Apollo, di cui è la festa, non permette loro di piegare l’arco, perché non gli è stata fatta la consueta offerta di vittime. Consiglia quindi di desistere per quel giorno dai tentativi, che si sarebbero potuti riprendere l’indomani, a sacrifici avvenuti.
Quando tutti hanno libato e bevuto il mendico, con parole umili e blande, chiede l’arco per vedere se Io ha proprio abbandonato l’antica gagliardia. Se ne sdegnano i Proci ed in particolar modo Antinoo, che dà dell’ubriaco all’accattone, minacciandolo di inviarlo dal re Echeto se insisterà in una richiesta tanto assurda; interviene tuttavia Penelope a favore del mendico, assicurando i pretendenti che, anche nel caso che l’accattone ce la faccia, non potrà certo aspirare alla sua mano; interviene anche Telemaco, che rimanda la madre nelle sue stanze ed ordina ad Eumeo, di portare l’arco al mendico per la prova.
Ma i Proci inveiscono e minacciano il porcaro, il quale, intimorito, depone l’arco e Io riprende solo per l’insistenza e la collera di Telemaco.
Ulisse, avuto l’arco nelle mani, si assicura scrupolosamente che non sia tarlato, mentre Eumeo ordina ad Euriclea di chiudere le ancelle nelle loro stanze e Filezio serra saldamente le porte del palazzo. I Proci si meravigliano che il mendico tratti l’arma con tanta disinvoltura ed ancor più rimangono attoniti quando egli, curvato l’arco, scocca la freccia e trapassa le dodici scuri.
Allora, dopo essersi compiaciuto con se stesso, Ulisse fa un cenno a Telemaco, il quale si arma e si pone accanto al padre, sulla soglia.
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COMMENTO – Come nel libro XVII abbiamo visto che la poesia si concentrava tutta intorno alla creatura più umile della reggia di Ulisse, il cane Argo, cosi questo XXI canto, nel quale culmina la poesia dell’intero poema, tutto si concentra intorno all’arco di Ulisse. Canto dell’arco, dunque, ché l’oggetto, così caro all’eroe, cosi ricco di valori affettivi per lui e, ora, per coloro che fedelissimi piangono al ricordo di Ulisse, diventa il protagonista del canto dalla prima all’ultima scena.
L’idea di proporre ai Proci la prova dell’arco, che potesse discriminare le brame dei pretendenti alla donna e, più, al regno e alle sue ricchezze, era venuta a Penelope stessa nel canto XIX. E il mendico-Ulisse subito aveva incoraggiato la regina ad attuare quella sua idea e fin da allora, anche se non ancora palesemente, il motivo dell’arco è divenuto motivo di vendetta. Con quell’arma in mano Ulisse ha intuito che diverrà nuovamente il signore della sua casa, il re della sua reggia, il marito di sua moglie.
In questo canto noi conosciamo quest’arco; un arco particolare che ha un suo singolare pregio, in grazia del quale esso neppure è stato portato alla guerra da Ulisse, ma conservato gelosamente, per vent’anni, nella stanza dei tesori. Omero ci narra la storia di quest’arco, né ci meraviglia questo racconto che s’inquadra nelle abitudini dell’epica, cui siamo avvezzi, ed anzi chiarisce poeticamente il valore sentimentale dell’arma.
I Proci hanno accettata la prova, sicuri nella loro vuota iattanza di poter fare anch’essi quel che Ulisse faceva per gioco. Ma la prova si annuncia, fin dai suoi primi sviluppi, densa di incubi e di foschi presagi. Sono molti i pretendenti e iniziano i più fiacchi di essi, i meno probabili con un crescendo di probabilità e di insuccesso e di tormento per chi non riesce e per chi ancora deve provare. Mancano solo Eurimaco ed Antinoo.
E intanto Ulisse, fuori del mègaron, sulla strada dove ha raggiunto Eumeo e Filezio, si rivela loro con scena tanto rapida quanto commovente, di commozione repressa ed inespressa, ché la necessità incalza; e si accorda con loro.
Nella sala anche Eurimaco tenta ora, invano, e si rammarica e si contrista per sé e per gli altri. Solo Antinoo non si umilia, più superbo di tutti e temporeggia lui, questa volta, cercando con un pretesto di rimandare al di seguente la prova.
Ulisse in silenzio ha assistito alla scena. Il poeta non ci dice quali sentimenti egli abbia provato in cuore di fronte all’insuccesso, del resto scontato, dei suoi nemici. Ora Ulisse parla umile, dimesso e chiede l’arco per provare quante di quelle energie di un tempo abbia perdute, quante conservi. Ma sul capo del mendico si scatena la bufera. Penelope interviene ed elimina, sapientemente, le difficoltà alla prova del mendico; interviene Telemaco: Ulisse ha l’arco tra le sue mani.
La scena è di una spasmodica attesa, di una sospensione solenne. Ulisse non ha fretta: gode di quell’arco tra le sue mani e piange: sono vent’anni di vita!
Gode ed esamina il corno. Poi, con destrezza, sottende la corda che risuona come garrula voce di rondine, incocca la freccia, trapassa tutti gli anelli. L’eroe ha ora in mano il suo destino e quello dei Proci e Telemaco gli si pone accanto in armi, pronto a diventare, con suo padre, strumento di inesorabile giustizia.
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