ASSISI, BASILICA SUPERIORE DI SAN FRANCESCO – GIOTTO

Assisi, Basilica Superiore, interno
La luminosa struttura, uno dei prototipi del gotico italiano, è sorta in previsione di una complessa decorazione ad affresco, avviata prima del 1280, distribuita in tutti gli spazi disponibili. Il programma iconografico prevede uno stretto rapporto simbolico fra le Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, dipinte nelle parti alte della navata e lungo il transetto, mentre le Storie di San Francesco lungo lo zoccolo, si propongono come la realizzazione esemplare dell’insegnamento della Bibbia.

L’avvio della decorazione è nel transetto, e i lavori proseguono poi lungo le fiancate, nelle zone
più alte. Dopo i primissimi interventi di maestri anonimi, la responsabilità degli affreschi passa a Cimabue e collaboratori e a un gruppo di pittori provenienti da Roma. Giotto si inserisce gradualmente, durante l’ultimo decennio del XIII secolo, dipingendo una delle volte e alcune scene bibliche (molto deteriorate), all’altezza delle finestre. In seguito, divenuto il protagonista della decorazione, affronta la fascia inferiore, destinata alle Storie di San Francesco.
A trent’anni Giotto dimostra di aver ormai acquisito uno stile di piena personalità, non solo nell’articolazione delle scene, ma anche nello sviluppo narrativo dell’intero ciclo.
Anni dopo, Giotto tornerà ad Assisi, per sovrintendere alla realizzazione di alcuni cicli di affreschi nella Basilica Inferiore.
Isacco respinge Esaù (1290) Assisi, Basilica Superiore
L’episodio, la cui attribuzione a Giotto vede oggi concordi molti studiosi, fa parte delle Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, affrescate nella fascia fra le finestre, inizialmente sotto il controllo dei maestri romani Filippo Rusuti e Jacopo Torriti. Nonostante il precario stato di conservazione il giovane Giotto offre qui un precoce saggio di coerenza spaziale e di attenzione per le espressioni dei protagonisti, liberandosi dalle rigide convenzioni delle regole iconografiche della tradizione bizantina.
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L’omaggio di un semplice (1295-1300) Assisi, Basilica Superiore
È uno dei momenti della giovinezza di San Francesco, ambientato in un contesto urbano tratto dalla realtà. Un uomo stende il proprio mantello al passaggio di Francesco nella piazza centrale di Assisi, nel cui sfondo spiccano il prospetto classico del tempio romano dedicato a Minerva e il Palazzo Comunale. La leggibilità degli edifici è agevolata dalla discreta conservazione.
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La rinuncia ai beni paterni (1295-13 00) Assisi, Basilica Superiore
Il decisivo distacco di San Francesco dal padre e dai beni è sottolineato da Giotto mediante una forte interruzione compositiva. Il santo, seminudo e ricoperto dal mantello del vescovo di Foligno, si rivolge a una mano che esce dal cielo, mentre il popolo di Assisi si stringe intorno al padre, a stento trattenuto. Due complicati edifici, costruiti con una prospettiva a ancora ingenua ma con un senso dei volumi già molto evoluto, sottolineano i due blocchi in cui si divide l’azione.
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Il presepe di Greccio (1295-1300)  Assisi, Basilica Superiore
La scena, in evidente rapporto con l’episodio della Natività, è una delle più direttamente collegate con le Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, affrescate negli ordini superiori della navata, e che costituiscono il “precedente” delle vicende di San Francesco. La capacitò di misurare lo spazio in profondità da parte di Giotto tocca qui uno dei momenti più intensi, con l’iconostasi vista da dietro, e quindi con il Crocifisso sagomato e gli altri arredi che si sporgono verso il fondo dell’affresco, affollato di fedeli.
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La predica davanti a Onorio III (1295-1300( Assisi, Basilica Superiore
La ricerca spaziale di Giotto si muove verso una progressiva consapevolezza: la “scatola” tridimensionale dell’aula in cui si svolge il dibattito è sottolineata dall’accorta disposizione degli elementi architettonici e delle figure umane, che assumono così un valore volumetrico.
Come tutte le scene del ciclo francescano, anche questa è stata restaurata un po’ troppo pesantemente in passato.
La morte del cavaliere di Celano (1295-1300) Assisi, Basilica Superiore
Il soggetto ricorda l’avverarsi istantaneo di una profezia di San Francesco che preconizza al cavaliere la salvezza eterna ma anche la morte immediata. La contrapposizione di “pieno” e di “vuoto” nella struttura compositiva collega i personaggi con l’ambiente, e la figura del santo fa da giuntura tra i due diversi spazi: nei dolenti intorno al cadavere del cavaliere Giotto trova accenti di dramma corale, passando attraverso vari sentimenti e stati d’animo.
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Assisi, Basilica Superiore
Realtà e leggende della giovinezza di Giotto, fino alla rivelazione degli affreschi di Assisi  

Ci sono pervenute solo scarse notizie sulla giovinezza e la formazione di Giotto. Non sappiamo nemmeno se il suo nome sia completo oppure un diminutivo di Biagio o di Agnolo. La data di nascita non è attestata da documenti, ma ricavata dal fatto che il pittore è morto nel gennaio del 1337 a settant’anni: il 1267 è comunque una data molto plausibile, in stretta coincidenza con la nascita di Dante, che cade, com’è noto, nel 1265.

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Nato in una famiglia contadina di Colle di Vespignano, non lontano da Firenze – il padre, Bondone, è “lavoratore di terra e naturale persona” – Giotto viene descritto dai più antichi commentatori (in particolare da Lorenzo Ghiberti seguito poi da Vasari) come un fanciullo prodigio. L’incontro tra il pastorello che graffisce le pecore sui sassi del Mugello e il grande maestro Cimabue, in strada verso Bologna, è uno dei più tipici e ripetuti esempi di “talento naturale” dell’intera storiografia artistica. A di là della verosimiglianza dell’antica leggenda (recentemente però riproposta per vera da Luciano Bellosi), è certa l’esistenza di un rapporto molto diretto tra Cimabue e Giotto, tanto che è possibile che maestro e allievo abbiano lavorano assieme ad alcune opere, come la Madonna della prepositura di Castelfiorentino.
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Lo stile di Cimabue rappresenta l’evoluzione dell’arte bizantina in Italia: le pose delle figure, lo scarso interesse neo confronti della rappresentazione dello spazio, i gesti e i lineamenti rispondono alle regole dettate dalla tradizione orientale. D’altro canto, Cimabue ha una visione grandiosa e drammatica della storia sacra, un senso di conflitto tra bene e male che si traduce in una nuova energia plastica nei suoi dipinti, con risultati di forte impatto emotivo, “espressionistico”.

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Altrettanto importante dell’alunnato presso Cimabue, un altro episodio segna la formazione artistica del giovane Giotto: un viaggio a Roma. Prima di entrare a far parte del grandioso cantiere della Basilica di San Francesco ad Assisi il giovane pittore va per la prima volta nella “città eterna”. Giunto là, incontra una situazione particolare: un centro di trentamila abitanti, circa la metà di Firenze, in cui emergono montagne di monumenti antichi in rovina.
Fra le macerie dell’antica Roma spiccano le splendide costruzioni delle basiliche cristiane, parecchie delle quali sono state decorate con mosaici e affreschi nel corso del XIII secolo.
In quel tempo si sviluppa un’importante scuola romana di pittura, i cui rappresentanti principali sono Piero Cavallini, Jacopo Torriti e Filippo Rusuti. Senza rinnegare del tutto l’iconografia bizantina, i pittori e i mosaicisti romani recuperano la tranquilla monumentalità dell’arte classica: nella città del papa sembra rinascere un’arte imperiale, alla quale partecipa anche lo scultore e architetto toscano Arnolfo di Cambio, autore a Roma di significativi complessi ornamentali.
Anche se non sono state finora identificate opere certe di Giotto anteriori agli affreschi di Assisi (qualcuno suggerisce di cercare tracce della giovinezza di Giotto fra i mosaici del Battistero di Firenze), i critici sono concordi nel sottolineare l’importanza decisiva del suo soggiorno romano, al punto che si discute se Giotto sia arrivato nel cantiere di San Francesco d’Assisi al seguito di Cimabue oppure nell’ambito degli artisti provenienti da Roma.
Comunque, dall’ultimo decennio del Duecento inizia il suo stretto rapporto con l’ordine dei Francescani, che saranno a più riprese suoi committenti.
Il grande complesso architettonico del Convento e della Basilica di San Francesco era stato avviato solo due anni dopo la morte del santo, caduta nel 1226, e si era velocemente sviluppato, fino a diventare il più importante monumento dell’architettura e della pittura italiana tra Duecento e Trecento. Una cripta sotterranea (in seguito murata, poi riaperta nel Settecento)
costituisce il primo livello: in essa si trova la tomba di San Francesco. Sopra la cripta è impostata la bassa e larga Basilica Inferiore, di architettura ancora romanica, terminata già poco dopo il 1230; sopra sorge la Basilica Superiore, consacrata nel 1253.
Come la chiesa sottostante, è a navata unica, ma è molto più slanciata, ormai del tutto gotica. Grandi bifore con vetrate istoriate la rendono molto luminosa, in contrasto con l’oscurità e il senso di raccoglimento della Basilica Inferiore, e lo spazio viene tranquillamente ritmato dal semplice avanzare di quattro campate con volte a crociera; inoltre, grandi pareti sono lasciate libere, pronte a essere decorate con affreschi.
Nei due ambienti i lavori procedono in parallelo, anche con l’apporto di artisti nordici, ma mentre nella Basilica Inferiore, dalla pianta più articolata, si individuano diverse cappelle e zone, affidate via via a differenti artisti, i vasti muri della Basilica Superiore suggeriscono un programma unitario, ancor oggi leggibile nonostante i gravissimi danni subiti dagli affreschi nel corso dei secoli.
Le Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento sono infatti collegate all’illustrazione di passi della Legenda Maior, la vita e i miracoli di San Francesco secondo il racconto di San Bonaventura, composto nel 1260-1263. Il santo viene presentato non in modo agiografico o anedottico, ma storico, come se il disegno divino, attraverso i precedenti della Bibbia e del Vangelo, trovasse in Francesco una logica e diretta conseguenza.
Intorno al 1277-1280 è dunque Cimabue a dare un impulso straordinario alla decorazione del transetto sinistro, comprese le volte, affrescando tra l’altro la drammatica scena della Crocifissione. In seguito, verso il 1285, pur mantenendo Cimabue la direzione dei lavori, l’esecuzione degli affreschi passa ai suoi collaboratori, fra cui emergono il romano Jacopo Torriti e l’esordiente senese Duccio da Boninsegna.
Si iniziano così a decorare le parti alte della navata, in particolare gli spazi fra le finestre con Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, sovrapposte su due registri. In questa fase, all’altezza della quarta campata, si assiste alla prima comparsa della mano di Giotto.
L’attribuzione a Giotto di alcuni episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento è generalmente accettata, mentre ancora controversa è la cronologia, da fissare comunque intorno al 1290.
Nella volta della campata d’ingresso, meglio conservata rispetto alle pareti laterali e alla controfacciata, sono dipinti i quattro Dottori della Chiesa, seduti davanti a leggii e scansie che simulano la decorazione geometrica a mosaico tipica del romanico laziale, mentre nel contiguo sottarco sono visibili piccole coppie di santi.
Ancor più interessanti sono le poche parti conservate delle scene bibliche ed evangeliche fra le finestre. Divise in regolari spazi quadrati di tre metri per lato, queste scene sono uno dei campi privilegiati per lo studio della pittura italiana alla fine del Duecento: la personalità del giovane Giotto è presto avvertibile, specie nelle due Storie di Isacco e nella frammentaria Deposizione nel sepolcro, nei termini di una sottile attenzione al gioco delle espressioni e dei sentimenti, mentre il racconto segue la scansione di un metro classico, regolare e pausato, e non il ritmo incalzante e drammatico di Cimabue.
Ma se nelle Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento Giotto collabora con altri importanti pittori, confrontandosi con essi, passando al registro inferiore diventa il solo protagonista.
La parte bassa delle pareti è leggermente aggettante, e sembra essere stata appositamente predisposta, durante la costruzione della basilica, per far da supporto a un ciclo di affreschi.
Le Storie di San Francesco, sviluppate secondo un senso di lettura che parte dal fondo della parete destra per risalire, passando per la controfacciata, lungo la sinistra, segnano l’affermarsi di un’idea nuova nell’arte.
Composte durante la seconda metà degli anni Novanta del Duecento, seguono la vita di san Francesco dall’adolescenza fino ai miracoli compiuti dopo la morte: senza precedenti iconografici (se non per le fattezze del santo), Giotto può affrontare liberamente l’impresa, e solo in alcune delle ultime scene si nota un certo allentamento della qualità, segno dell’intervento di allievi.
La novità di questi affreschi consiste nell’aver presentato San Francesco in carne e ossa (si veda il nudo parziale della Rinuncia ai beni paterni), fra la sua gente (spesso rappresentata in modo corale, come nella Morte del cavaliere di Celano, in luoghi riconoscibili e concreti (la piazza di Assisi fa da sfondo all’Omaggio di un semplice; e, soprattutto, in spazi architettonici o naturali concepiti in modo tridimensionale e funzionale alla scena rappresentata.
Ad esempio, le linee delle colline del Dono del mantello a un povero convergono verso la testa del santo, che diventa così il vertice non solo dell’episodio narrativo, ma di tutto il paesaggio; le architetture del Colloquio col Crocifisso di San Damiano e della Conferma della regola sono autentiche “scatole” spaziali, descritte con un’inedita visione a tre dimensioni, il anticipo sulle ricerche della prospettiva: notevole, in tal senso, è l’iconostasi vista da dietro nel Presepe di Greccio.
Senza disperdersi in un racconto puramente biografico, e anzi mantenendo testualmente il programma iconografico, Giotto realizza una sequenza di immagini, di personaggi e di scenari reali, chiudendo in modo definitivo ogni rapporto con lo stile bizantino. L’equilibrio delle sue scene raggiunge l’obiettivo di un racconto commovente ed emozionante per il semplice fedele, denso di interesse di novità per gli artisti e gli uomini di cultura.
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