GALILEO GALILEI – Vita e opere

 

Quando Galileo Galilei nacque, il 15 febbraio 1564 a Pisa, la società italiana del tempo, divisa nelle diverse strutture principesche, indipendenti l’una dall’altra e fra di loro in relazioni di diffidente vigilanza, aveva già manifestato i segni di quella complessa crisi che, all’inizio del secolo XVI, dopo la scoperta di nuove terre e di nuove vie di comunicazione, aveva investito non solo l’Italia ma tutta l’Europa, spostando decisamente i termini della vita civile, ponendo nuove prospettive e, per mezzo di nuove forme di attività economica, nuove possibilità di ricchezza e di dominio.

II tempo di Galileo

Questo complesso fenomeno storico, accentuando nella vita sociale la portata e l’incidenza del potere politico, aveva posto con urgenza il problema di una radicale trasformazione dei rapporti tra società politica e società civile nei singoli Paesi e richiedeva la rapida attuazione di quel movimento inteso a creare, attorno alla dinastia regnante, il centro di ogni potere e di ogni attività. Tuttavia all’Italia mancò la possibilità di cogliere, di quella crisi, gli aspetti positivi e produttivi: la vita economica subisce un grave rallentamento, con la scoperta di nuove vie commerciali con l’Oriente, il pesante controllo del potere religioso sulla vita intellettuale mortifica e sgomenta le menti più aperte e “l’idea dello Stato, come autonoma struttura politica, benché formulata dal Machiavelli, non esce dall’astratto principio dell’autorità quale centro attivo dello Stato stesso, espresso, secondo l’esperienza signorile, nel concetto del Principe” (A. BANFI, Galileo Galilei, Milano 1961, pagina 20).
Anche la Toscana, unificata politicamente sotto il potere dei Medici (che con la non lontana investitura pontificia della dignità granducale, convalidata poi dall’Imperatore, avevano potuto veder riconosciuta la loro aspirazione al dominio su tutta la regione), poteva sperare, per la propria floridezza economica e intellettuale, nello stimolo e nell’iniziativa del suo signore. Però, dopo la spinta innovatrice impressa da Cosimo I, l’inettitudine di Francesco I aveva danneggiato fortemente la fiorente città di Pisa, orgogliosa del suo Studio e della sua funzione di punta avanzata dello Stato mediceo nella mercatura e nella vita finanziaria, per i molti mercanti, fra i quali il padre di Galileo, per i banchieri per le ricche botteghe di setaioli: sotto il principato di Francesco I nacque appunto il nostro scienziato, la cui famiglia nel 1574 fu costretta a lasciare, in notevole disagio economico, la città di Pisa per Firenze.
Tuttavia, nonostante il rallentato ritmo della vita civile, nonostante la riduzione di ogni attività all’unico centro capace di propulsione e di iniziative, la corte principesca, non bisogna dimenticare che la tradizione rinascimentale, ancora presente, costituiva, sia pure in modo ideale, un modello di attività intellettuale che gli stessi signori non potevano mettere del tutto da parte: si deve anzi riconoscere che in molti settori della vita cittadina la concezione rinascimentale dell’uomo era attiva e sentita, dai traffici marittimi alle operazioni bancarie, dalla industria mineraria all’ingegneria idraulica, dall’architettura militare alla balistica e all’ottica. Essa anzi operava al di là del suo campo di origine, il mondo delle lettere e delle arti, ma anche in quello della tecnica e dell’impresa economica. L’apprezzamento delle attività artigianali e della pratica dei mestieri si era anzi venuto modificando, dal Medioevo al Rinascimento, in relazione alle mutate esigenze della classe signorile, che intese appunto circondarsi di una cultura e di una scienza che fossero immediatamente produttive di potere e di prestigio: nelle condizioni politiche del tempo, per la mancanza di libertà e a causa della generale ignoranza delle masse popolari, all’intellettuale del tempo non restava, dopo la rovinosa caduta delle illusioni politiche del sec. XV, che svolgere questa funzione ornamentale e strumentale, al servizio dei detentori del potere politico!
Di tale situazione contraddittoria e al tempo stesso involutiva della vita civile italiana nel sec. XVI è buona testimonianza la famiglia di Galileo Galilei, che traeva origini da un membro del governo fiorentino al tempo della cacciata del Duca d’Atene, nel 1343; più tardi, verso la metà del sec. XV, un “magister Galilaeus de Galilaeis” – in onore del quale il nostro scienziato ripeté il nome – fu Gonfaloniere di Giustizia e medico illustre. Il padre di Galileo, Vincenzo, si era dedicato alla musica e le sue opere di teoria musicale (quali “Il Fronimo” e il “Dialogo sulla musica antica e moderna”) ebbero ampia diffusione e rinomanza; ma le difficili condizioni di quella media borghesia di discendenza comunale, a cui apparteneva la sua famiglia, lo costrinsero a dedicarsi al commercio, stabilendosi perciò a Pisa, dove nacque appunto il primogenito Galileo; ma della antica tradizione di fierezza comunale, di dignità intellettuale e di libertà della sua stirpe egli conservò sempre viva coscienza, e a questi ideali venne appunto educandosi il giovane Galileo.

Giovinezza di Galileo

Questi studiò da giovinetto, in qualità di novizio, nel convento di Vallombrosa, e qui apprese i primi elementi di logica e le altre parti della cultura scolastica, della cui conoscenza sono testimonianza le sue opere polemiche verso la tradizione culturale peripatetica. Ritornato a Firenze verso i quindici anni si dedicò a studi umanistico-letterari, alla musica e al disegno, dalle quali attività il suo spirito ricevette al tempo stesso profonda sensibilità letteraria ed umana e disciplina di metodo.
Nel 1581 venne iscritto, senza che avesse dimostrato una particolare inclinazione, ai corsi di medicina dello Studio pisano: il padre, che aveva così deciso, sperava di rinnovare nel figlio il prestigio dell’antico parente. Tuttavia, durante un periodo di vacanze, nel 1583, il giovane Galileo aveva conosciuto un amico del padre, Ostilio de’ Ricci da Fermo, insegnante di matematica della scuola dei paggi granducali e più tardi lettore di matematica nello studio fiorentino; fu appunto messer Ostilio de’ Ricci ad impartirgli, dapprima all’insaputa del padre e poi con il suo consenso, le prime lezioni di matematica, che subito entusiasmò il giovane, a tal punto che ben presto trascurò gli studi di medicina, sicché nel 1585 abbandonò definitivamente gli studi universitari facendo ritorno a Firenze.
Ma la passione per la matematica aveva svelato al giovane Galileo un campo di ricerche e di attività mentale ben più ricco e ben più interessante della medicina. L’insegnamento di (Ostilio de’ Ricci, nonostante la sua breve durata, aveva lasciato una traccia indelebile nella mente del nostro scienziato e se ne può ritrovare la presenza in quel particolare interesse di Galileo ad applicare la matematica, come strumento raffinatissimo d’investigazione naturale, alla fisica e alle altre scienze. Era stato infatti il Ricci allievo del celebre algebrista Nicolò Tartaglia e da questi aveva appreso a considerare la matematica in funzione di indagini più concrete e di lavori pratici, come quelli di architettura e di ingegneria: una concezione quindi della matematica del tutto strumentale, che Tartaglia vedeva già attuata per la prima: volta nel pensiero di Archimede.
Euclide, Apollonio, Tolomeo, Pappo e, soprattutto, Archimede furono le nuove letture di Galileo: le matematiche si presentavano a lui come il mezzo più sicuro per il progresso della mente umana nello studio della natura: uno strumento che, per le vicende stesse della cultura rinascimentale e post-rinascimentale, si presentava completamente esente dalla soggezione, così pesantemente esercitata sugli altri campi del sapere, alla filosofia peripatetica che, nelle rinnovate condizioni di illibertà intellettuale e di sospetto verso le menti aperte, era tornata a costituire un potente strumento di dominio degli ingegni a vantaggio delle forze dominanti nella società e nella vita politica del tempo, fortemente diffidenti verso ogni cenno di novità e di progresso.
Lo studio della matematica si presentava dunque congeniale al giovane Galileo, che già negli anni universitari aveva dimostrato un carattere indipendente, tanto che essendosi sempre dichiarato nelle discussioni di filosofia naturale “sempre contrario alli più acerrimi difensori d’ogni detto aristotelico” s’era acquistato la fama di essere uno “spirito della contraddizione”. Il fatto è che l’interesse per la realtà naturale – come anche per quella umana, così viva in una personalità tanto impetuosa e schietta – spingeva il giovane Galileo a respingere ogni inframmettenza, ogni schema filosofico che provocasse disordine e confusione, mortificando lo spirito di ricerca: fu questo un abito costante nella mentalità scientifica del nostro scienziato, una norma della sua etica scientifica che non abbandonerà mai.

Le prime opere

Nel 1586, dalla lettura di due trattati di Archimede (“De aequi ponderantibus” e “De his quae vehuntur in aqua”) Galileo fu indotto a ricercare il metodo preciso seguito dall’antico scienziato siracusano per determinare se veramente era stato compiuto, come si sospettava, un furto ai danni di Gerone, tiranno di quella città, da parte di un orefice incaricato di costruire una corona d’oro. Galileo espose la sua ricostruzione del metodo archimedeo in una scrittura, “La Bilancetta”, che non fu stampata, ma circolò manoscritta fra i suoi amici: essa indicò, comunque, in modo preciso la sua intenzione di studiare le matematiche in funzione di obiettivi di ricerca più concreti, nel campo delle indagini di fisica.

Disegno sull’applicazione del principio di gravità alle leve

Studio per le esperienze condotte sui piani inclinati

L’anno successivo, il 1587, compose i “Theo­relnata circa centrurn gravitatis solidorum”, che gli consentiranno di entrare in relazione con i più autorevoli studiosi del tempo, Guidobaldo Del Monte e il padre gesuita Cristoforo Clavio. Nel frattempo non disdegnava di cimentarsi in discussioni letterarie e tenne all’Accademia fiorentina due lezioni “Circa la figura, sito e grandezza dell’ Inferno di Dante”, che pur essendo un’arida dimostrazione della validità della tesi sostenuta dal Manetti sulla disposizione dell’Inferno dantesco, prova il suo interesse per la cultura letteraria che troverà uno sviluppo, l’anno successivo, con le “Considerazioni sul Tasso”, poeta da lui non apprezzato e, forse, non appieno compreso, poichè troppo distante era il suo carattere forte, realistico e aperto dall’animo tormentato del poeta della “Gerusalemme liberata”: a differenza dell’Ariosto, di cui ammirò la sbrigliata fantasia, la leggiadra vivacità delle immagini, il senso pieno della vita, come dimostrano le sue “Postille” all’Ariosto, composte via via con il più completo entusiasmo per il poeta ferrarese. Converrà anzi notare a questo punto che persino nelle sue opere più rigorosamente scientifiche la sua prosa è logica, stringata, acuta e sobria, ma non mai secca ed arida; anzi, quando l’argomento lo consente, essa si fa anche ricercata, assumendo un tono ampio, un movimento largo e vario, senza mai perdere in naturalezza ed efficacia: come nel metodo scientifico, così nel suo stile il gusto del particolare si avverte e si manifesta, pur senza smarrirsi nella sua contemplazione. Di qui appunto la differenza (nonostante qualche concessione formale che si ritrova soprattutto nelle lettere più legate alle abitudini del tempo) tra il suo linguaggio e la moda letteraria del Seicento.

Lo Studio pisano

Nel 1589, grazie alla stima che s’era conquistata fra i più insigni matematici del tempo e mercé l’appoggio di Guidobaldo Del Monte, Galileo Galilei potè ottenere un incarico triennale di lettore di matematica presso lo Studio pisano, dove ritornava, così, come insegnante, dopo essersene allontanato quattro anni prima senza aver conseguito alcun titolo. Furono anni senza dubbio proficui quelli trascorsi dal 1589 al 1592, sia per lo sviluppo delle sue conoscenze in fatto di meccanica, sia perchè si sottrasse alla soggezione delle teorie aristoteliche relative al concetto di movimento, in seguito alla lettura di un’opera di Giovanni Benedetti (“Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber”), da cui fu spinto a considerare con favore la teoria, condivisa dal Benedetti e formulata fin dal sec. VI da Giovanni Filopono (e ripresa poi nel sec. XIV da Giovanni Buridano e dagli altri cosiddetti “fisici parigini”), secondo cui la causa del movimento di un proietto è dovuta ad un ‘impetus’ impresso nei corpi insieme col movimento stesso.
Ma il temperamento irrequieto, che già aveva avuto modo di manifestarsi durante gli anni degli studi universitari, e l’insofferenza verso la formale gravità dei costumi accademici da lui derisi in un mordace componimento, “Contro il portar la toga”, gli alienarono le simpatie del corpo accademico pisano, che non mancò di manifestargli la propria ostilità; s’aggiunga, poi, un contrasto avuto con un membro della famiglia dei Medici, don Giovanni, figlio naturale di Cosimo I, del quale aveva criticato un’invenzione tecnica da applicarsi agli impianti portuali di Livorno: tutti questi incidenti, uniti alla sopravvenuta morte del padre, che lo caricava dell’obbligo di assistere la madre e la numerosa famiglia (fra cui le sorelle da maritare), lo indussero a cercare altrove un incarico più remunerativo e, ancora una volta con l’appoggio di Guidobaldo Del Monte, potè essere chiamato nel settembre 1592 presso l’Università di Padova, con un incarico quadriennale di matematica.

A Venezia e Padova

Nella generale decadenza della società italiana nel sec. XVI, Venezia con il suo governo patrizio a carattere accentrato, con la sua rete molteplice di traffici e mercati, con la sua potente flotta, con le sue ben note ricchezze e con la maggiore libertà concessa agli intellettuali, Venezia si presentava a Galilei come una “meravigliosa città”. In effetti per tutto quel secolo fu la città più lussuosa e più ricca, nonostante la pressione dei Turchi, la perdita di Cipro e l’aumento del costo della vita; le attività molteplici che sorgevano sul filone principale dell’economia regionale, il traffico marittimo e la mercatura, consentivano a chi avesse avuto volontà e ingegno, di affermarsi. Galilei trovò ben presto nel vivace e anche spregiudicato ambiente padovano e nella vicina capitale (dove amici insigni per intelletto, come fra’ Paolo Sarpi, o per rango sociale, come il Contarini, il Cornaro, lo stesso Sagredo, a lui tanto vicino, gli mostrarono subito simpatia e amicizia) le condizioni migliori per dispiegare la sua attività e il suo ingegno, per affinarne le capacità a contatto con un mondo tanto più vivo e vario. Quando più tardi avrà fatto ritorno a Firenze, ormai già celebre scienziato, egli non mancherà di ricordare lo stimolo che la stessa società veneta provocava alle sue speculazioni scientifiche, come tanto solennemente dichiarerà all’inizio della sua prima giornata della sua grande opera scientifica, i “Discorsi intorno a due nuove scienze”:

“Largo campo di filosofare a gl’intelletti specolativi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale di voi, Signori Veneziani, ed in particolare in quella parte che mecanica si domanda “.

Eppure in quegli anni la Repubblica veneta avvertiva con preoccupazione le conseguenze di avvenimenti storici che provocavano notevole turbamento alla sicurezza dei traffici commerciali con l’Oriente e minacciavano la prosperità dell’oligarchia dominante e, con essa, dell’intera economia veneta: la diminuzione della flotta, specialmente delle navi di stazza maggiore, la concorrenza della Repubblica di Ragusa, la pressione dell’espansione asburgico-spagnola, la continua guerriglia con i Turchi, con gli Uscocchi e con corsari di ogni nazionalità. Come reazione alla precarietà dei commerci marittimi, s’era venuta manifestando la tendenza a convertire il capitale commerciale in ricchezza immobiliare e in investimenti agricoli, nella speculazione sui cambi e nell’esportazione di prodotti delle industrie locali negli altri Stati europei.
Il governo della Serenissima, diretta espressione degli interessi di quell’oligarchia, incoraggiava ogni lavoro, ogni invenzione e ogni trovata utile al consolidamento delle proprietà, al miglioramento dei mezzi di lavoro e di sfruttamento delle risorse, anche quando si trattava di ritrovati tecnici. Galileo ebbe modo di rendersi subito conto di questo interesse pratico del governo: le amicizie veneziane erano bene informate della situazione economica dello Stato e anzi per mezzo di esse potè avere ben presto contatti diretti con gli ambienti della industria e della tecnica: Giacomo Contarini, provveditore dell’Arsenale, lo consultò più volte su progetti di innovazioni tecniche. Nel settembre 1594, poi, Galileo fece brevettare un suo “edifizio da alzar acqua et adacquar terreni”, uno strumento per l’irrigazione, che incontrava interesse e favore specialmente nella zona di Padova, dove frequenti erano gli investimenti capitalistici in colture di riso e di mais.
I docenti dello Studio padovano ricevevano per il loro insegnamento un trattamento economico che variava a seconda della fama e del prestigio; in genere, come ebbe a dire il Procuratore dello Studio al tempo in cui insegnava Galileo, “il viver della cattedra solamente era quasi impossibile e delle lettioni private bisognava farsi pagare”: anche Galileo, giunto nella Repubblica veneta dopo la morte del padre, non disponendo di particolari risorse oltre allo stipendio, fu obbligato a dedicarsi all’insegnamento privato, che poteva anche fruttare più di quello pubblico: non pochi erano infatti i giovani patrizi che, inviati a Padova per perfezionare la loro cultura, preferivano seguire le lezioni private di qualche illustre docente, il quale parlasse loro di questioni più direttamente interessanti la loro futura attività di capi di imprese commerciali o di dirigenti politici e militari dello Stato: il carattere mercantile della Repubblica veneta si avverte anche da queste preferenze e inclinazioni. Si comprende quindi quale interesse potessero suscitare lezioni relative alla costruzione alla difesa e all’attacco di fortezze e di porti, alla traiettoria dei proiettili, alla munizione e fortificazione delle basi militari, specialmente se trattate da un docente universitario; si può anche comprendere con quale compiacimento queste notizie fossero accolte dai responsabili della Serenissima, che vedevano con soddisfazione la stretta rispondenza tra gli interessi superiori, ma concreti e materiali, della Repubblica e le inclinazioni intellettuali dei propri insegnanti.

Studio sull’arte militare

È così che si spiega la stesura della “Breve instruzione all’architettura militare” e il “Trattato di fortificazione”, i cui testi si fondono, sia pure in parte, tra di loro. Essi indicano la costante attenzione di Galileo alla realtà circostante, la piena e libera partecipazione alle vicende del suo mondo, a disposizione del quale, secondo l’ideale scientifico del Rinascimento egli metteva i frutti del suo pensiero. Si potrà, in particolare, osservare come egli, pur tendendo a ridurre la tecnica dell’edilizia militare al principio scientifica dell’equilibrio delle forze, che troverà ampia illustrazione nel trattato delle “Mecaniche”, di fatto tiene sempre d’occhio la tattica degli assalti, degli attacchi e contrattacchi, degli assedi, dei colpi di mano, dell’astuzia dei difensori e della violenza degli assalitori, con profondo senso di realismo, con scrupolosa conoscenza della tecnica militare di cui darà altre significanti prove.
A quest’opera si collega infatti, non solo una lunga e interessante lettera dell’11 febbraio 1609 ad Antonio de’ Medici sulla balistica, ma anche uno strumento da lui inventato, col quale “in pochissimi giorni s’insegna tutto quello che dalla geometria e dall’aritmetica, per l’uso civile e militare, non senza lunghissimi studi per le vie ordinarie si riceve”: il compasso geometrico-militare, che, costruito da lui in diversi esemplari nel 1597, sarà illustrato nelle “Operazioni del compasso geometrico e militare” del 1606, dopo un tentativo da parte di un piccolo avventuriero di contestargli la proprietà dell’invenzione.
Il periodo padovano riservava a Galileo ben altri risultati e successi: il mondo attivo dell’arsenale, l’attività dei tecnici e degli artigiani colpirono l’attenzione dello scienziato e lo stimolarono a cercare un’intesa fra le teorie di fisica e di meccanica e l’operazione manuale, con una conseguente trasformazione dei metodi, dei principi e delle funzioni sia della scienza che della tecnica.
Se per tutto il Medioevo la cultura ufficiale e accademica aveva laboriosamente voltato le spalle al mondo dei meccanici e degli artigiani, non si può certo dire che questo mondo avesse compiuto, dal canto suo, tentativi volti ad uscire dalle condizioni di casualità, precarietà e incertezza in cui si svolgeva il lavoro artigianale: privi di una cultura che raccogliesse ed esaltasse sul piano teorico il proprio lavoro, mancava a quegli uomini la necessaria consapevolezza dei problemi e dei principi di meccanica, di dinamica e di chimica che pure sono indispensabili per rendere sicuro il procedimento tecnico, per rendere apprezzabile l’opera delle mani da parte dell’intelletto e, quindi, della cultura. Perciò la loro condizione permaneva incerta, misconosciuta e non valutata, priva di una coscienza del proprio valore. Il merito di Galileo fu appunto quello di rivolgersi a quel mondo, non già con la sufficienza presuntuosa del dotto che tutto sa, perchè ha trovato tutto nei libri, ma con la disposizione ad accettare quanto potesse essere comunque utile per il progresso della scienza, convinta com’era che il sapere è prodotto dell’uomo, del suo ingegno e del suo lavoro e perciò sempre rinnovabile e integrabile.
Egli seppe rendersi altresì conto delle difficoltà obbiettive – culturali, sociali e mentali – che impedivano a quegli artigiani di compiere la scalata verso più alte dignità sociali senza tuttavia rinunziare alla propria esperienza, allo spirito di conquista delle forze della natura, al carattere ‘aggressivo’, com’egli diceva spesso, con cui bisogna svolgere le ricerche naturali. Fra queste difficoltà egli ritenne più gravi – e di conseguenza più urgente per lui il compito di porvi rimedio – la ignoranza della lingua latina, la lingua dei dotti riservata alle persone di elevata condizione sociale, la lingua dei trattati scientifici e degli scritti filosofici; in secondo luogo, la ignoranza delle leggi della fisica.

Galileo per una cultura popolare

Galileo Galilei fu il primo docente universitario che scrisse le sue opere in volgare: tranne il “Sidereus nuncius” e alcune parti dei “Discorsi intorno a due nuove scienze”, tutto il resto delle sue opere è in lingua volgare: questo suo atteggiamento indica, in primo luogo, la intenzione di rivolgere il discorso scientifico a tutti coloro che erano interessati ad ascoltarlo, senza distinzioni e ostacoli di alcun genere, con una precisa finalità educativa. Nel 1612, scrivendo da Firenze all’amico Paolo Gualdo in merito al “Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua”, così diceva:

“Io l’ho scritta in volgare perchè ho bisogno che ogni persona la possi leggere, et per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo mio trattatello et la ragione che mi muove è il vedere che, mandandosi per gli Studii indifferentemente i giovan; per farsi medici, filosofi etc., sì come altri si applicano a tali professioni essendovi inettissimi, così altri, ché sarìano atti, restano occupati o nelle cure familiari o in altre occupazioni aliene dalla litteratura… et io voglio ch’e’ vegghino che la natura sì come gl’ha dati gl’occhi per veder l’opere sue così bene… gli ha dato anco il cervello da poterle intendere e capire “.

Con la decisione di adottare come lingua personale l’italiano, Galileo operava così una decisa svolta nel costume accademico e culturale, rivoltandosi contro un forte e radicato pregiudizio sociale, respingendo la diffusa convinzione che la cultura è solo ‘otium’, concesso a chi non ha bisogno più, o non ha mai avuto bisogno, di lavorare per vivere: egli che ben conosceva le difficoltà della vita (e che a Padova, per mantenere la madre e i fratelli nonché la famiglia che s’era formata con la sua unione, non regolarizzata, con la veneziana Marina Gamba, da cui ebbe i figli Virginia Livia e Vincenzo) egli intese l’impegno culturale come un lavoro, alla pari del lavoro dell’artigianato.
Ancora più grave, specialmente nell’ambiente veneziano, così fervido di operosità tecnica, l’ignoranza dei principi e delle leggi fisiche e la conseguente leggerezza con cui certi “poco intendenti ingegneri” sognano la costruzione di macchine e impianti, senza avere precise nozioni al riguardo, con il risultato di continuare a giacere nella incerta condizione di provvisorietà e precarietà che fu proprio delle arti della magia e dell’alchimia.

Un maestro rigoroso e tenace

Questo è il motivo occasionale che lo spinse, nel 1593, a comporre un trattato, intitolato “Le Mecaniche”, che contiene, oltre al chiarimento delle caratteristiche delle così dette “macchine semplici”, l’enunciazione di alcuni concetti galileiani molto importanti: quello di ‘momento’, quello sul movimento naturale, in polemica con la definizione aristotelica, ecc. Egli dice:

” Ho visto ingannarsi l’universale dei mecanici, nel volere a molte operazioni, di sua natura impossibili, applicare machine, dalla riuscita delle quali, ed essi sono restati ingannati, ed altri parimente sono rimasti defraudati della speranza, che sopra le promesse di quelli avevano concepita “.

Il successo del tecnico non può essere il risultato di una casuale scoperta, di un avvenimento fortuito, non dipende cioè nè dalla fortuna, nè dal caso, nè tanto poco da graziosa concessione di potenze misteriose, ma risulta dalla capacità intellettuale dell’uomo che dalla composizione e scomposizione delle macchine, dalla prova reiterata dell’esperimento sa conseguire quelle “dimostrazioni vere e necessarie”, che un ragionamento fondato sulla stringata rigorosità della matematica permetterà di ricavare. Il nesso costante e reciproco, il passaggio continuo dall’esperimento al calcolo, è certamente la base di quel metodo sperimentale che giustamente è chiamato ‘galileiano’ e che aprì una nuova era nella storia della scienza, ma è anche la regola etica dello scienziato, l’impegno morale, con cui egli deve procedere: non vi sono, per Galileo, vie intermedie tra il vero e il falso: a nulla vale far ricorso a diversivi o tentare ”con limitazioni, con distinzioni, con storcimenti di parole o con altre girandole di sostenersi più in piede, ma è forza in brevi parole ed al primo assaltato restare o Cesare o niente”.
In questo senso egli fu un grande scienziato, ma fu anche un grande educatore, un maestro rigoroso e tenace, che mirò ad elevare le menti e a favorire il progresso mentale dell’umanità.

Galileo e il cannocchiale

Da quanto è stato detto sui rapporti tra Galileo e il mondo della tecnica si può intendere anche la ragione che lo spinse per primo ad utilizzare uno strumento che era di provenienza artigianale e che era servito soltanto come pura curiosità, intendo il cannocchiale, per rivolgerlo verso il cielo e affidare al suo funzionamento la decisione sulla polemica tra copernicanesimo e concezione tolemaica dell’universo.
Notizie di strumenti ottici che consentissero di vedere cose e persone lontane, erano già circolate nel 1609, specialmente a Venezia, dove un fiammingo avrebbe portato alcuni esemplari dello strumento; e ciò deve rispondere a verità, poichè altre notizie indicano che un primo esemplare risaliva al 1590 ed era di fabbricazione olandese. Ma si trattava soltanto di interesse curioso, non scientifico.
Lo stesso Galilei non nascose affatto tale origine, come dichiarò nel “Saggiatore”, ma rivendicò a se stesso soltanto la ricostruzione, sulla base della descrizione avuta, di uno strumento analogo, fondandosi sulla conoscenza delle leggi di ottica: applicando cioè un criterio razionale e non procedendo per tentativi.
Egli seppe anche sfruttare lo strumento, poiché presentandolo alla Repubblica veneta e vantandone gli enormi vantaggi pratici ai fini della difesa e dell’offesa militare, toccava il centro degli interessi di quel governo, preoccupato di appropriarsi di tutti i mezzi tecnici utili al potenziamento della propria flotta, alla sicurezza dei traffici e alla difesa delle proprie terre. Ma il suo vero merito consiste nell’avere assegnato a quello strumento, con una consapevolezza profonda del valore della tecnica, dell’utilità dell’opera manuale ai fini della scoperta della verità, una funzione storicamente decisiva: l’investigazione del mondo celeste, che fino a quel momento era stato conosciuto soltanto merce la semplice vista umana. Per la prima volta una grossa questione scientifica, come quella della posizione della Terra nel sistema solare, era affidata ad uno strumento e non più al semplice ragionamento astratto. « Oh Niccolò Copernico, – egli dirà nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” – qual gusto sarebbe stato il tuo nel veder con sì chiare esperienze confermata questa parte del tuo sistema ».

L’accettazione del copernicanesimo

Sistema solare secondo Copernico

Quando Galileo avesse accettato la dottrina copernicana che sosteneva il movimento di rivoluzione della Terra, e degli altri pianeti, attorno al Sole, è oggetto di discussione; noi sappiamo con certezza però che almeno nel 1597 egli si sentiva già copernicano: in due lettere di quell’anno indirizzate a Jacopo Mazzoni e a Giovanni Keplero, egli dichiara questa sua adesione; egli anzi a Keplero comunica che la dottrina copernicana gli ha consentito di spiegare molti fenomeni naturali che altrimenti sarebbero stati inspiegabili.
Quali fossero le argomentazioni che lo convinsero del copernicanesimo non è detto, ma si può ritenere che le indagini sul movimento dei corpi, e le altre ricerche di meccanica dovevano avergli provocato il sospetto che la dottrina tolemaica universalmente accettata non fosse valida. Quello che ci pare più interessante è che le scoperte da lui fatte mediante il cannocchiale non furono fortuite e che il gesto con cui levò verso il cielo lo strumento non fu accompagnato da un avventuroso desiderio di novità, ma da una precisa consapevolezza, da una base di riflessioni scientifiche che la visione telescopica doveva poi confermare.
Della costruzione del cannocchiale e delle scoperte egli dette subito notizia con il “Sidereus nuncius” (Annunzio celeste), che cominciò a scrivere subito dopo la più importante di esse: la scoperta di quattro satelliti del pianeta Giove, fin allora mai visti, i quali con il loro movimento contrastavano con tutta la dottrina tolemaica; egli intitolò questi satelliti “stelle medicee”, in onore del granduca Cosimo II de’ Medici, che era stato da ragazzo suo allievo per qualche tempo, durante un suo viaggio a Firenze.
Ma altre sono le cose viste da lui nelle notti che dedicò all’investigazione del cielo: la natura scabrosa, ruvida e accidentata della superficie della Luna che a occhio nudo appare lucida e liscia; la natura della Via Lattea che è costituita da un numero infinito di stelle, le fasi del pianeta Venere e più tardi la composizione di Saturno che al suo cannocchiale, non perfezionato, apparve come formato da tre anelli disposti a catena, ma che, come sappiamo più tardi risulteranno concentrici.
La notizia delle scoperte astronomiche di Galileo si diffuse rapidamente, non solo tra gli uomini dotti e le alte personalità politiche e religiose, che avevano ricevuto il “Sidereus nuncis” scritto dall’autore in gran fretta e pubblicato a due mesi di distanza dalle scoperte dei satelliti di Giove, ma anche negli ambienti filosofici e scientifici italiani e d’oltre Alpe, provocando sorprese, meraviglie, entusiastiche adesioni e risentiti dinieghi: si trattava di scoperte gravide di grosse conseguenze non solo per la cultura Scientific ma per l’opinione comune. Alla disposizione tradizionale del firmamento (con i supposti movimenti dei cieli attorno alla Terra, considerata ferma al centro dell’Universo; con la pretesa esistenza dello Zodiaco che con le sue dodici parti influenzava gli eventi e le nascite) a tutto il bagaglio di superstizioni di credenze astrologiche e di fantastiche pretese di influenze astrali, a tutto questo dunque si sostituiva una rigorosa e tangibile concezione meccanica del cielo, ridotto ormai ad essere sottoposto a criteri di fisica celeste equiparati a quelli della Terra: il sogno umanistico di affermazione dell’ingegno umano nel Creato trovava con le scoperte galileiane una precisa conferma, una realizzazione scientifica e razionale che disperdeva, come incongruenti, le visioni sognanti della stessa concezione di Giordano Bruno, che pure aveva accettato la dottrina copernicana.
La scienza, basata sul preciso metodo sperimentale, sul rigore del calcolo matematico si ergeva così a nuova autorità nel mondo della cultura, una autorità con cui la tradizione filosofica e la tradizione teologica non potevano non fare i conti.

La reazione degli astronomi e dei matematici

Ecco perchè le riserve e le opposizioni pregiudiziali furono tenaci e molteplici: mentre a Galileo giungevano sempre più numerose le richieste di esemplari del cannocchiale e le corti regali d’Europa s’affannavano per ricevere con essi le più particolari notizie e spiegazioni sulle scoperte galileiane, gli ambienti dei filosofi peripatetici, colpiti in modo decisivo, per l’evidente inconsistenza di tante teorie fisiche e astronomiche formulate da Aristotele e perpetuate nel tempo come intangibili, reagirono in modo vivace ma anche maldestro negando sul piano logico-metafisico l’esistenza dei pianeti medicei e dimostrando con ciò l’incapacità loro ad aggiornarsi e a rivedere le proprie posizioni. Ancora più vivace e dura fu l’opposizione degli astronomi e dei matematici, i quali, toccati sul vivo per essere stati scavalcati da Galileo, che peraltro non ambiva al titolo di ‘astronomo’, cercarono di contestare la validità delle scoperte, speculando sulle ovvie imperfezioni dei cannocchiali e sulle difficoltà di indagine celeste in tutte le stagioni; fra queste opposizioni malevoli va ricordato l’atteggiamento degli astronomi bolognesi, capeggiati da Giovanni A. Magini, che nelle sue lettere a corrispondenti stranieri e perfino allo stesso Keplero, deride Galileo Galilei. Infine le opposizioni degli astrologi, per cui basta quanto ebbe a scrivere ad un amico padovano il Manso, studioso del Tasso, il quale ricordava “l’asprissima querela fatta da tutti gli astrologi e da gran parte de’ medici; i quali intendendo che si aggiungano tanti nuovi pianeti a’ primi già conosciuti, par loro che necessariamente ne venga rovinata l’astrologia e diroccata gran parte della medicina, perciocché la distribuzione delle case del zodiaco, le dignità essenziali ne’ segni, la qualità delle nature delle stelle fisse, l’ordine de’ cronicatori, il governo dell’età degli huomini, i mesi della formatione dell’embrione, le ragioni de’ giorni critici, e cento e mill’altre cose, che dipendono dal numero settenario de’ pianeti, sarebbero tutte sin da’ fondamenti distrutte”.

La battaglia galileiana

Si trattava, come ognuno vede, della pervicace resistenza opposta da un insieme di credenze e preconcetti, che, pur condannato inesorabilmente dalle nuove scoperte, non si rassegnava, opponendo alla inconfutabile dimostrazione effettuale riserve, dubbi e critiche, che, in un ambiente chiuso e diffidente, qual’era quello della cultura e del pensiero in una società non democratica e aperta, potevano ritorcersi a danno di Galileo e della scienza moderna che egli aveva fatto sorgere.
È per questo che gli anni che vanno dal 1610, quando avvennero le scoperte, al 1632, anno della condanna da parte del S. Uffizio, sono dedicati dal Nostro alla difesa, non solo delle nuove scoperte, ma di tutta una nuova mentalità, un nuovo costume intellettuale e una nuova dignità culturale che con quelle nascevano. Per questo egli fu portato ad aprire una intensa, abile e difficile battaglia culturale per la liberazione della scienza moderna dagli ostacoli che ne impedivano la libera espressione. In questa difficile impresa egli impegnerà le sue migliori qualità di ingegno, di senso critico e, al tempo stesso, di prudente e oculato realismo. L’impulsività di certe sue manifestazioni, la durezza di certe espressioni polemiche e la violenza con cui attacca una dottrina ritenuta falsa, si uniscono ad un’attenta valutazione delle possibilità concrete di successo, delle probabilità di aiuti e di interventi autorevoli come anche delle eventuali alleanze pericolose dell’avversario.

Il ritorno in Toscana

Fu per questo che, avvenute le grandi scoperte, egli, che aveva sempre mantenuto rapporti di rispettosa devozione con la Corte granducale di Firenze, nella speranza di far ritorno nella sua Toscana, decise di portare a compimento un progetto che era venuto via via determinando, del quale il primo atto è costituito dall’intitolazione dei satelliti di Giove alla famiglia medicea. Forte dell’appoggio che il granduca Cosimo II, suo antico allievo, gli avrebbe offerto e avvalendosi dell’amicizia di Belisario Vinta segretario dello Stato granducale, egli chiese di poter essere chiamato a Firenze, presso la Corte, alle dipendenze del principe e senza obbligo di insegnare, allo scopo di portare avanti i grandi piani di ricerca scientifica che le scoperte e gli studi precedenti avevano spinto a formulare. A Firenze vedeva anche la possibilità di fruire di un appoggio politico preciso e sicuro, fondato sulla benevolenza del Principe, senza che di ciò si dovesse rendere conto ad alcuno: egli era ben consapevole delle condizioni della cultura e degli intellettuali in una situazione politico-sociale in cui l’incondizionata volontà del Principe si identifica con la volontà dello Stato. Non va dimenticato infatti che per il carattere aristocratico dello Stato, per le condizioni di ignoranza delle plebi, la cultura non poteva sperare in appoggi diversi da quelli dell’autorità sovrana e gli intellettuali erano così costretti ad accettare il ruolo ornamentale e remunerativo, sì, ma non autonomo, di cortigiani: ci vorrà ancora più d’un secolo perchè nella cultura italiana possa tornare ad esprimersi l’ideale di libertà e di indipendenza dal potere politico!
A queste considerazioni che lo inducevano a lasciare la Repubblica veneta – nonostante che in essa non gli sarebbe mancata la libertà di ricerca cui anelava, come ebbe a scrivergli rammaricato il suo amico Sagredo – si aggiungevano altre relative alla sua condizione familiare: le figlie, avute dall’unione con la Gamba, erano ormai cresciute ed egli pensava ad una loro sistemazione, che non gli gravasse troppo, e che troverà in Toscana, facendole entrare in convento, mercé l’appoggio di alcuni cardinali amici. Nel frattempo, si preoccupava anche di risolvere nel modo migliore la relazione con Marina Gamba, cosa che fu senz’altro agevolata dalla sua partenza per Firenze.
Qui egli giunse nel settembre del 1610, avendo ricevuto la nomina a “Primario Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana”, a cui era aggiunto il titolo di “Primario Matematico dello Studio di Pisa”, senza obbligo di tener lezioni. Era trascorso appena un anno dal suo arrivo a Firenze e già egli dovette iniziare una lunga, e anche astiosa, polemica con un astronomo tedesco, il padre gesuita Cristoforo Scheiner, il quale aveva annunciato di aver scoperto con il suo cannocchiale delle macchie sulla superficie solare. Si trattava di una scoperta sfuggita all’attenzione di Galilei? Certo, sembra strano che il grande scienziato, che per primo aveva compiuto scoperte astronomiche sensazionali, che riguardavano il sistema solare, avesse poi trascurato di osservare proprio il Sole. Noi sappiamo che egli fin dal tempo delle prime scoperte aveva visto le macchie in questione, ed anzi nel 1611, in occasione di una sua visita ai matematici del Collegio Romano ne aveva fatto cenno; se non aveva reso nota quest’altra notizia è forse per le difficoltà di eseguire osservazioni dirette, difficoltà che superò verso il 1611-­1612, quando potè ricorrere all’osservazione in proiezione.
Tuttavia, all’inizio del 1612, delle scoperte dello Scheiner egli ebbe notizia diretta da Mar­co Welser, duumviro di Augusta, che gli inviò tre lettere dello Scheiner, alle quali risponderà con altrettante lettere, le quali raccolte in volume, per conto dell’Accademia dei Lincei, di cui egli era membro, furono pubblicate sotto il titolo di “Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti” (1612).

Papa Urbano VIII

Un’altra disputa, svoltasi alla corte granducale alla presenza di due cardinali, fra i quali il futuro Urbano VIII, che in quell’occasione si mostrò favorevole alla tesi galileiana, ebbe il Nostro con il filosofo peripatetico Ludovico delle Colombe, che già in altre occasioni s’era rivelato puntiglioso sostenitore delle teorie peripatetiche e che aveva avuto modo di contendere con Galileo: l’argomento della disputa riguardava le vere cause che determinano il galleggiamento o l’affondamento dei corpi nell’acqua; Galilei, richiamandosi alle dottrine archimedee sostenne, contro la tesi aristotelica, che la causa sia da ritrovarsi nel rapporto tra il peso del corpo e quello dell’acqua spostata. Ma l’interesse più attuale dello scritto è la serrata argomentazione polemica, con cui Galilei oppone all’aristotelico il nuovo metodo d’indagine, il metodo sperimentale, costruito su una rigorosa connessione di osservazioni sperimentali e di calcoli matematici e ragionamenti stringati: anche questa disputa, come la precedente, è un momento di quella battaglia culturale rivolta a difendere il nuovo orientamento culturale e, in particolare, della scienza.
Un’occasione per misurare, ancora una volta, la distanza che separava lo scienziato galileiano dalla moda tradizionale, per verificare, cioè, il cammino compiuto dalla scienza moderna. Le tesi galileiane furono poi raccolte nel “Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono”.
Quest’opera, come tutti gli iscritti compresi nel periodo 1610-1632, mostra che nessuna distinzione può farsi tra il metodo galileiano di ricerca e la tenacia polemica posta dallo scienziato nella dimostrazione delle sue scoperte: l’impegno e l’obiettivo comune è il chiarimento delle nuove vedute, la ripulsa dell’errore e la sua rettifica. Per quanto fiducioso nella forza della ragione e sicuro, per questo, del suo procedere, Galileo, che vive in una fase di involuzione e di timore, conosce bene il nesso che collega, spesso sottomettendola, la verità scientifica alle esigenze del mondo e agli scrupoli e alle preoccupazioni religiose. Per questo egli è al tempo stesso cauto, disposto alla discussione, pronto ad ascoltare i consigli degli amici, ma anche ad attaccare senza esitazione l’avversario nel suo stesso campo: si tratta di una esigenza di difesa che fa tutt’uno con la diffusione e l’affermazione del nuovo orientamento scientifico.

L’accusa di eresia

Non passò infatti molto tempo, che già l’attacco contro la teoria eliocentrica e contro la scuola galileiana che la sosteneva venne portato su un terreno ben più insidioso e complicato: il terreno della disputa teologica. Già nel 1612, nel giorno dei morti, un domenicano, fra’ Niccolò Lorini, professore di storia ecclesiastica a Firenze, accusò di eresia la dottrina e i suoi sostenitori, provocando molto rumore negli ambienti intellettuali più avanzati, tanto che pochi giorni dopo negò di aver parlato pubblicamente ma di avere dichiarato in privato la sua opinione. L’episodio appare ancor più grave se si considera che un anno prima, al tempo della disputa sui corpi galleggianti, v’erano state, presso l’arcivescovo Marzimedici, consultazioni tra esponenti ecclesiastici e fin d’allora s’era deciso di attaccare Galileo, designando persino chi avrebbe per primo predicato contro; tuttavia il prescelto preferì tacere.
Verso la fine del 1613, alla corte granducale di Pisa, alla presenza del granduca, della granduchessa madre Cristina di Lorena, del padre Benedetto Castelli, allievo carissimo di Galilei e insegnante nello Studio pisano, un filosofo di quell’Università, Cosimo Boscaglia, attaccò duramente la teoria copernicana, sostenendo che la Sacra scrittura era manifestamente contraria ad essa. Il Castelli era intervenuto a difesa ed era riuscito a mettere in confusione il Boscaglia, ma la partecipazione diretta ed interessata della famiglia granducale ed il fatto stesso che la disputa fosse avvenuta in una sede governativa – il che lasciava supporre l’intenzione di colpire il favore di cui Galileo godeva presso i Medici – indussero il Nostro a rispondere.

Il manifesto della scienza moderna

La lettera del 21 dicembre 1613 a Benedetto Castelli – le cui argomentazioni verranno riprese ed estese due anni dopo nella più lunga lettera a Cristina di Lorena – costituisce senza dubbio il manifesto della scienza moderna, il proclama della indipendenza della cultura scientifica da ogni soggezione ad autorità estranee: essa rappresenta la dichiarazione della libertà intellettuale minacciata dal pregiudizio teologico e filosofico.
Pur confermando il rispetto e la riverenza per l’autorità della Sacra scrittura, in materia di fede e di morale, Galileo respinge ogni tentativo di avvalersi delle espressioni della Scrittura a favore di tesi scientifiche, sostenendo la assoluta incompetenza dei testi sacri a causa dell’inadeguatezza ed approssimazione del linguaggio usato in essi rispetto all’assolutezza e precisione rigorosa della scienza:

“La Scrittura ira molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole e però mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo”.

Pur procedendo ambedue dal Verbo divino, la Scrittura e la natura usano linguaggi differenti, poichè la Scrittura, per la sua forma espositiva ed esortatoria ricorre ad espressioni spesso imprecise, allo scopo di farsi intendere da tutti gli uomini. La scienza naturale, invece, è inesorabile e immutabile nelle sue espressioni rigorose; essa non cura affatto “che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini, per lo più che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli”. Nè vale pensare che “quel medesimo Dio, che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto [cioè dei soli mezzi di cui si avvale il metodo sperimentale per scoprire la verità] abbia voluto darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire”. Un rigore metodologico, una economia del pensiero, dunque, che rivelano in Galileo, insieme alla sua fondamentale educazione rinascimentale, la sua natura di uomo moderno, che fa pensare alla polemica svolta dieci anni dopo nel “Saggiatore” contro la pletoricità delle espressioni e la ridondanza del linguaggio, propri della tradizione medievale.
Un rovesciamento del rapporto, consacrato dalla tradizione, tra scienza e religione viene a dichiararsi con queste parole: mentre per tutto il Medioevo le esigenze della ricerca scientifica erano state subordinate alle esigenze della religione, Galileo propone qui non solo l’autonomia della scienza dalla religione, ma configura tra queste una nuova relazione che fa della scienza una forma di espressione e manifestazione del Verbo divino più rigorosa della stessa Scrittura sacra.
E’ per questo che la lettera al Castelli, anziché placare le mormorazioni intorno alle sue scoperte, creò una frattura ancora più profonda tra la nuova scienza e il passato e finì per costituire la prova testimoniale indispensabile per un accertamento istruttorio che l’Inquisizione mise in atto non appena ebbe notizia della disputa alla corte di Pisa. Mentre Galileo, sincero cattolico, cercava un’intesa con l’autorità romana, convinto che, così facendo, operava per il bene della Chiesa, a cui riconosceva, per le condizioni della cultura d’allora, l’autorità di massima organizzazione culturale, gli uomini oc­chiuti del Santo Uffizio scorgevano il pericolo insito nella tesi di Galileo: un iniziale processo di emancipazione del pensiero dalla tutela ecclesiastica, che sarebbe potuta diventare più tardi un’evasione e ribellione generale del sapere, ciò che in effetti avverrà un secolo più tardi con la cultura illuministica.
Non mancarono tuttavia interventi ‘diplomatici’ intesi a convincere Galileo perchè considerasse la teoria copernicana come una sola ipotesi, ciò che egli, sicuro della prova effettuale avuta con il cannocchiale, respinse sdegnosamente in una lettera a mons. Dini del 1615, perchè contrari alla sua etica scientifica: un compromesso tanto inutile quanto umiliante, che mentre non avrebbe risolto il grosso contrasto in atto, avrebbe solo squalificato la figura di colui che in quel momento aveva contribuito all’emancipazione della scienza.

La denunzia al Santo Uffizio e la sconfitta della scienza

Il Palazzo del Santo-Uffizio a Roma
Sede dell’Inquisizione (da una antica stampa)

Nel dicembre del 1614, la quarta domenica dell’Avvento, il domenicano Tommaso Caccini, fanatico e grossolano dal pulpito di Santa Maria Novella in Firenze inveisce contro la matematica e contro coloro, come Copernico e Galileo, che presumono di correggere la Bibbia: dietro le sue parole vuote e arroganti vi è tutto il livore del mondo ecclesiastico fiorentino contro Galileo, di cui si fa espressione mons. Baccio Gherardini, vescovo di Fiesole che minaccia di compiere passi ufficiali presso il Granduca perchè cessi lo scandalo galileiano.
Come immediato riscontro a queste minacce, il 7 febbraio 1615 fra’ Lorini denuncia Galileo al Santo Uffizio, inviando copia della lettera al Castelli; nel marzo successivo apre l’udienza dei testimoni, citati dal Caccini, il gesuita Fer­dinando Ximenes e Giannozzo Attavanti, allievo di Galilei; ma le deposizioni di questi sono favorevoli allo scienziato.
Informato dall’Attavanti delle manovre che si svolgevano contro di lui, Galileo, benché ancora infermo chiese al Granduca delle lettere commendatizie per recarsi a Roma, nel tentativo di scongiurare una condanna delle dottrine; tuttavia il 24 febbraio 1616 il Santo Uffizio, dopo aver ascoltato il parere dei padri teologi, dichiarò la dottrina copernicana, che ritiene il sole centro dell’universo, “stolta e assurda in filosofia e formalmente eretica, in quanto contraddice alle sentenze della Sacra scrittura”; le opere copernicane furono vietate finchè non fossero state corrette. Il giorno successivo il cardinale Bellarmino comunicava a Galileo il divieto di professare la teoria copernicana sia in pubblico che in privato.
Aveva termine così il primo atto della battaglia culturale apertasi nel gennaio 1610 con le scoperte astronomiche di Galileo. Questi restò amaramente colpito dalla sentenza, sentendosi sconfitto nelle sue aspirazioni e deluso nei suoi ideali; con lui tutta la cultura italiana avvertì la gravità della sentenza: si può dire che essa chiudeva definitivamente il periodo di relativa autonomia della cultura dal potere teologico, periodo iniziatosi con l’età moderna.
La scuola galileiana si strinse attorno al suo maestro in un operoso silenzio; Galileo trova conforto negli studi e nelle ricerche, nella devozione dei discepoli che non gli consentono di abbandonare ogni speranza nel futuro, e nell’affetto della figlia Virginia, ora Suor Maria Celeste, che lo consola e lo rianima con il suo intelligente affetto filiale.
Superato lo stato d’ira e d’inquietudine che s’era portato appresso da Roma, dopo la sentenza, Galilei sembrò adeguarsi alle nuove condizioni e confidò in una ripresa della lotta ideale. L’occasione gli venne offerta da una disputa insorta circa l’origine e la natura delle comete, come erano quelle apparse nel 1618 e nel 1619: nella disputa era intervenuto un gesuita romano, padre Orazio Grassi che nella sua “Disputatio astronomica” del 1619 sosteneva che il luogo delle comete fosse il cielo, in accordo con la dottrina sostenuta nel 1577 dal grande astronomo Tycho Brahe, maestro di Keplero. Era una tesi abbastanza moderna, ma sostenuta da argomentazioni del tutto astratte, da discorsi letterari ed eruditi, da espressioni retoriche, secondo un metodo che non si adattava più alle nuove esigenze della scienza.

Il Saggiatore

A questa strana trattazione rispose un allievo di Galilei, Mario Guiducci, con un “Discorso delle Comete”, stampato nel 1619, che fu ritenuto opera del vecchio scienziato: in verità egli, che era costretto in casa per i suoi malanni e che quindi non aveva potuto osservare le comete, era intervenuto nella stesura dell’opera; sícchè quando il padre Grassi, vistosi attaccato rispose sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsí con un duro scritto polemico, la “Libra astronomica ac philosophica”, Galilei fu costretto a scendere direttamente in campo con “Saggiatore” che costituisce ancora oggi la più bella opera di polemica scientifica che sia stata scritta.
In essa non è tanto la tesi sulle comete che interessa (Galileo sostiene che le comete sono soltanto vapori terrestri), quanto piuttosto la serrata polemica contro il metodo seguito dal Grassi: una polemica interessante perchè costituisce una vivissima esposizione del metodo scientifico galileiano, e quindi una difesa brillantissima delle vie e dei procedimenti della scienza moderna. L’opera stampata a cura dell’Accademia dei Lincei è un documento fondamentale della nascita della concezione moderna della cultura, non solo per quanto s’è detto, ma anche perchè viene precisato che l’obiettivo della ricerca scientifica non è, come per la filosofia, la ricerca di una realtà metafisica, ma la definizione rigorosa delle leggi naturali. Alla “Natura” infatti, e non ai libri di Aristotele o degli altri filosofi, deve mirare con sguardo attento lo scienziato: da essa infatti, mediante il linguaggio matematico potrà ricevere soddisfazione alla propria sete di verità.
L’opera era dedicata al papa Urbano VIII che era da poco salito al soglio pontificio, destando speranze vivissime negli intellettuali del tempo per il suo passato di mecenate e di amico della cultura; egli che si era sempre mostrato amico di Galileo, gli aveva dedicato anche un componimento poetico quando furono scoperti i satelliti di Giove: quale migliore occasione per riprendere la non mai abbandonata battaglia per il rinnovamento della cultura?
I primi atti del nuovo Pontefice, la nomina a Maestro di camera di mons. Virginio Cesarini (a cui Galileo si rivolse nel “Saggiatore”) e di mons. Giovanni Ciampoli a Cameriere segreto e Segretario ai Brevi, sono considerati un segno molto favorevole ai galileiani; il desiderio manifestato dal Pontefice di ricevere l’omaggio dello scienziato fu interpretato come una evidente manifestazione di benevolenza, e Galileo non indugiò a riprendere con entusiasmo il suo non mai dimesso programma per il progresso del sapere: nel 1624 pubblica la “Risposta” da lui inviata ad uno scritto di Francesco Ingoli (“De situ et quiete Terrae”) che risaliva al 1616 e che voleva essere una confutazione del sistema copernicano. Nella parte introduttiva, Galileo giustifica la ripresa, a distanza di otto anni, della polemica, con una singolare argomentazione: bisogna dimostrare che gli uomini di Chiesa condannarono la teoria copernicana nel 1616, non già per ignoranza, ma per “il zelo della religione e della nostra fede” e con abile insinuazione polemica aggiunge:

…”sì che quando loro i protestanti abbino vedute tutte le loro ragioni astronomiche e naturali benissimo intese da noi, anzi, di più, altre ancora di maggior forza assai delle prodotte fin qui, al più potranno tassarci per uomini costanti nella nostra opinione, ma non già per ciechi o per ignoranti dell’umane discipline: cosa che finalmente non deve importare a usa vero cristiano cattolico”.

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi

Frontespizio dei Dialoghi

Era questo l’annuncio della ripresa battaglia e l’anticipazione dei temi che saranno contenuti nella grande opera in difesa del copernicanesi­mo, il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, con cui egli pensava di definire una volta per sempre, attraverso un’ampia e circostanziata disamina delle due tesi in contrasto, la vertenza cosmologica. Un’opera quindi non propriamente scientifica, ma più vasta, che abbracciasse anche le questioni filosofiche e i problemi di metodo; una regolamentazione generale dei conti con la cultura passata.
La composizione dell’opera durò molti anni, sia perchè egli sentì spesso il bisogno di precisare quella che a suo giudizio era la prova fondamentale – la sua teoria delle maree, già esposta in uno scritto del 1616, fondata soltanto sulle conseguenze meccaniche del movimento terrestre, mediante informazioni raccolte dai navigatori, sia perchè più volte le difficili condizioni di salute lo costrinsero ad interrompere il lavoro.
Finalmente nel 1630 il “Dialogo” è terminato e inizia la lunga vicenda del controllo ecclesiastico e della concessione dell’imprimatur, per la quale operazione egli deve recarsi a Roma, dove giunge fiducioso nella benevolenza del Papa, che secondo notizie pervenutegli avrebbe dichiarato di criticare la condanna del 1616. La revisione fu affidata al padre, maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Riccardi e, per la parte scientifica al matematico padre Raffaello Visconti. La revisione durò a lungo, anche perchè il Riccardi, che pure non mostrò malanimo verso Galileo, era preoccupato che le pressioni contrarie dei Gesuiti – e forse dello stesso padre Scheiner antico avversario di Galilei – non agissero sull’animo di Urbano VIII, di cui temeva gli improvvisi e duri cambiamenti di opinione. Finalmente l’imprimatur fu concesso e il 21 febbraio 1632 il Dialogo è finito di stampare.

L’intervento dell’Inquisizione e il processo

Ma improvvisamente il 21 luglio successivo il padre Riccardi ordina all’inquisitore di Firenze di sospendere la diffusione e confiscare le copie: le forti proteste dei sostenitori della rigida disciplina, anche mentale, e della piena sottomissione all’autorità religiosa, le insinuazioni giunte all’orecchio di Urbano VIII, secondo cui egli sarebbe stato adombrato nella figura dell’aristotelico Simplicio – che nel “Dialogo” è oggetto di tutte le polemiche e di tutte le ironie degli altri due interlocutori – la preoccupazione, apparsa più evidente alla lettura dell’opera (nonostante le cautele imposte dal Riccardi all’inizio e alla fine), di un’eccessiva liberalità della Chiesa verso le posizioni più spinte della cultura, il timore di difficoltà politiche che potessero insorgere per il pontificato di Urbano VIII, tutte queste ragioni avevano provocato il fermo dell’opera.
Il deferimento di Galileo al Santo Uffizio sembra ormai inevitabile: infatti, presa la decisione il 23 settembre, il successivo 1° ottobre l’Inquisitore di Firenze notifica a Galileo la denuncia, ingiungendogli di presentarsi al Commissario dell’Inquisizione in Roma. Galilei tenta di evitare tale deferimento, adducendo le ragioni della sua vecchiaia e della salute malferma e spera nell’appoggio del granduca Ferdinando II: ma la questione è troppo grave perchè l’autorità romana si preoccupi di non urtare la suscettibilità della dinastia dei Medici – alla cui testa era allora un granduca vanesio e poco fermo – e perciò, dopo la intimazione pontificia perchè Galileo si presenti a Roma “legato anco con ferri”, Ferdinando II invita il suo Matematico a “finalmente ubbidire ai tribunali maggiori” e il 20 gennaio Galileo parte per Roma, e da questo momento egli non sarà più libero.
Pur essendo trattato con ogni riguardo, specialmente per rispetto del Granduca, ed essendogli concesso di risiedere nella sede dell’ambasciata toscana in Roma, anziché essere rinchiuso nelle carceri del Santo Uffizio, la condizione di Galileo è ormai quella di un prigioniero.
La prova d’accusa è l’infrazione all’intimazione rivoltagli nel 1616 dal cardinale Roberto Bellarmino,  a non professare, nè per iscritto nè a voce, ne in pubblico nè in privato, la dottrina copernicana. Era stato ritrovato, secondo quanto aveva confidato il padre Riccardi all’ambasciatore toscano in Roma, il generoso e leale Niccolini, un documento contenente il verbale del relativo atto di diffida.
Sulla validità di tale documento e sulla sua regolarità formale si è molto discusso. In verità nel 1616 l’ingiunzione del Bellarmino fu trasmessa a Galileo piuttosto sotto forma di un consiglio che non secondo il rito previsto per le diffide; lo stesso Galileo aveva ottenuto una lettera del Bellarmino che attestava che nessuna ingiunzione gli fosse stata fatta, nè penitenza comminata, ma che gli era stata soltanto comunicata la sentenza del Santo Uffizio. Nessun vincolo personale pareva a Galileo che lo condizionasse; del resto, nel Dialogo l’esposizione della tesi copernicana è coperta dall’abile forma della citazione e del richiamo ai fini del dibattito che vi vien svolto, come si fa parallelamente per la teoria tolemaica.
Ma è evidente che avventurarsi in una disquisizione procedurale, specialmente per la tortuosa e segreta procedura del Santo Uffizio, sarebbe un’impresa vana: ciò che conta è che contro Galileo e le sue dottrine vi era uno schieramento molto vasto. Mentre nel 1610 e poi anche nel 1616 dal campo ecclesiastico si erano levate voci in difesa dello scienziato toscano e si erano espressi consensi per le sue scoperte (ivi compresa la “Adulatio perniciosa” rivoltagli dal cardinale Barberini, divenuto poi Urbano VIII), ora nessuno osava parlare in sua difesa, e lo stesso Pontefice era profondamente irritato verso di lui.
Eppure, sembra strano che per giungere alla condanna si sia dovuti ricorrere ad un documento che contrasta nettamente con la dichiarazione che il Bellarmino rilasciò a suo tempo a Galileo: nel documento si parla di tutti gli atti formali che hanno luogo nelle diffide regolari, si dichiara persino che Galileo avrebbe fatto atto di acquiescenza all’ingiunzione e avrebbe promesso di obbedire e di abbandonare definitivamente la dottrina copernicana (come se non resti all’uomo, quando ha perduto tutto, la sola libertà di pensare: ma anche a quella si voleva che Galileo rinunciasse!). Evidentemente la cosa dovette apparire strana agli stessi Inquisitori i quali nella sentenza non faranno alcun cenno al divieto del 1616, anche se poi ricompare nel testo della confessione imposta a Galileo.

La sentenza e l’abiura

La sentenza venne pronunciata il 22 giugno 1633: in essa, che è sottoscritta soltanto da sette dei dieci cardinali inquisitori, si accusa Galileo, “fortemente sospetto d’heresia”, d’essere incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni promulgate. Gli si ordina che “abiuri, maledichi e detesti li sudetti errori et heresie et qualunque altro errore et heresia contraria alla Cattolica et Apostolica Chiesa”; il “Dialogo” viene proibito e l’autore è condannato al carcere formale ad arbitrio del Santo Uffizio e a “penitenze salutari”, riservandosi il supremo tribunale ecclesiastico “facoltà di moderare, mutare o levar in tutto o in parte de sodette pene e penitenze”.
Quindi, in ginocchio il vecchio Galileo Galilei, colui che “vide sotto l’etereo padiglion rotarsi più mondi e il Sole irradiarli immoto”, colui che aveva aperto con il suo ingegno una grande epoca nella storia della cultura e della civiltà, fu costretto, nel silenzio generale, a pronunciare l’atto di abiura.
Con la sentenza e l’abiura il piano messo in atto dalla coalizione di interessi, timori e pregiudizi avversi alla scienza nuova, sembrava riuscito: finalmente il fiero, il polemista Galileo Galilei, era stato costretto ad inginocchiarsi, a sottomettersi al volere di quelle forze che difendevano il passato: l’autorità ecclesiastica provvide a rendere note in tutti i paesi la sentenza e l’abiura, inviandone copia a tutti gli Inquisitori, perchè la pubblicazione di quegli atti fosse monito severo a quelle menti imprudenti che accarezzavano sogni di indipendenza e perché i ben pensanti, i nemici delle novità, i paurosi e gli ignoranti si rasserenassero: non v’era alcun pericolo ormai di dover rivedere in fretta le basi delle proprie credenze e delle proprie nozioni.
Ma era ancora troppo presto per cantar vittoria: non erano trascorsi invano i secoli dell’Umanesimo e del Rinascimento, non era stata inutile per la coscienza della libertà la rivolta antiromana scoppiata con Lutero e divampata in modi imprevisti e con istanze nuove; non tutti erano disposti a cambiare opinione sulle scoperte galileiane, sulla fisica moderna, sul metodo di ricerca, sol perchè così comandava il Santo Uffizio.
Assegnato dapprima agli arresti nella villa dell’ambasciatore di Toscana, Galileo Galilei fu poi trasferito, per intercessione dello stesso ambasciatore, presso l’arcivescovo di Siena, Ascanio Pic­colomini , vecchio amico dello scienziato. Qui, nella sua Toscana, confortato dall’amicizia del prelato, che generosamente non aveva mutato sentimenti, egli si riprese e cominciò a riavere fiducia in se stesso. Monsignore Pic­colomini fece di tutto perchè la sua residenza in Siena gli apparisse più una affettuosa ospitalità che una detenzione. Attorno a Galileo, nella sede dell’Arcivescovado, cominciarono a riunirsi quegli uomini liberi che avevano ammirato in lui il coraggio con cui aveva osato opporsi a dottrine secolari, mentre dalla figlia e dagli amici lontani giungevano lettere di conforto e di speranza.
Ma l’Inquisizione vigilava su di lui, preoccupata che il cerchio di ferro in cui lo aveva rinchiuso non fosse infranto: una delazione anonima informò il Santo Uffizio che Galileo diffondeva “opinioni poco cattoliche, fomentata da questo arcivescovo suo hospite, quale ha suggerito a molti che costui sia stato ingiustamente agravato”. Per evitare che egli avesse contatti col mondo esterno, l’autorità romana accolse le insistenti richieste del Niccolini, e a Galileo fu concesso di ritirarsi nel suo villino di Arcetri, presso Firenze, purché vi stesse come in carcere, “con ritiratezza e senza ammettervi molte persone insieme a discorsi, nè a mangiare”.
Si trattava pur sempre di urla condizione d’illibertà, ma vicino alla villa era il convento di suor Maria Celeste, che fu di grande conforto per il vecchio padre e che fece di tutto per rendergli meno pesante la sua nuova condizione.

Gli ultimi giorni, in Arcetri

Ad Arcetri il vecchio scienziato riprese la stesura, iniziata a Siena di un opera di meccanica: abbandonata la questione cosmologica, Galileo faceva ritorno alle ricerche di fisica che così grande sviluppo avevano avuto durante gli anni padovani. Era un argomento non pericoloso, ma l’opera che venne fuori, i “Discorsi intorno a due nuove scienze” non fu meno impegnata della precedente: il “ritorno alla scienza pura”, come è stata definita l’ultima fatica di Galilei, si collega a tutto il fermento di progetti, di polemiche e speranze nate dalle scoperte astronomiche, per quel comune proposito di rinnovare i termini e le condizioni della ricerca e la prospettiva della cultura scientifica, sicché i “Discorsi” possono – e sono stati giustamente – essere definiti ‘copernicani’ quanto il “Dialogo”: anche qui infatti il punto centrale è costituito dalla discussione sulla teoria del movimento che era stata la punta avanzata della polemica antiperipatetica e anti-tolemaica del precedente periodo.
La speranza di pubblicare questa sua ultima opera dette animo e coraggio al vecchio Galileo, colpito prima dalla morte dell’affettuosa figlia, suor Maria Celeste, poi dalla grave afflizione agli occhi, che lo rese cieco. Ma pur percosso nel fisico e nei sentimenti, il suo animo era sempre forte, tanto da avere ancora il coraggio di opporsi alle manovre dei clericali che cercavano di impedirne la pubblicazione.
Il tentativo avviato per mezzo del fedele fra’ Fulgenzio Micanzio di far stampare l’opera nella Repubblica veneta, l’unico Stato in Italia dove l’Inquisizione non poteva tutto, fallì dolorosamente, tanto che il Micanzio dovette comunicargli il 19 febbraio 1635 il divieto generale “de editis omnibus et edendis”, di ripubblicare o di pubblicare alcuno suo scritto.
Ma più della rigidità e della sorveglianza degli Inquisitori potè la tenace e perseverante solidarietà degli amici e degli allievi che, sparsi per tutta l’Europa impedirono che l’opera del grande Maestro fosse soffocata nell’oblio. Mentre si avviavano le traduzioni in latino o in francese delle sue precedenti opere e si progettavano imprese per l’edizione completa, fervevano, in Francia, a Vienna, a Praga, nei Paesi Bassi le iniziative per la stampa della nuova opera, della cui stesura la notizia era corsa fra tutti i galileiani, suscitando entusiasmo e speranze per l’avvenire: la ragione scientifica non poteva essere sopraffatta dalla violenza. Fu così che gli Elzeviri, i grandi stampatori olandesi, portato nascostamente il manoscritto da Venezia a Leida, ne iniziarono la stampa che fu completata nel 1638.
Il Santo Uffizio non era riuscito ad impedire che il cervello di Galileo, oppresso dalla condanna, continuasse a funzionare, e non era nemmeno riuscito ad impedire che l’ultima, la più grande opera scientifica di Galileo, vedesse la luce. Così come non aveva impedito quei frequenti e vari rapporti epistolari che Galileo intrattenne con amici, allievi ed estimatori, i quali allacciarono con lui una fitta rete di relazioni che, mentre ridava animo e energia al vecchio prigioniero di Arcetri, consentivano la diffusione delle sue idee, la sopravvivenza della scienza colpita ma non vinta dal terrore teologico: Pietro di Car­cavy, Antonio de Ville, Fulgenzio Micanzio, Lorenzo Realio, il Castelli, il Viviani e il Torricelli, che lo assistettero, e persino i peripatetici, come Fortunio Liceti, ebbero modo di ascoltare dalla sua voce o di leggere nelle sue lettere, oltre alla serena e pacata fiducia del vecchio Galileo nelle sorti della ragione umana, la sua spinta a continuare, la sua esortazione a non rinunciare mai a ciò che nessuno, nemmeno il Santo Uffizio, può togliere all’uomo: l’uso libero del suo pensiero.
Quando l’8 gennaio 1642, a quattro ore di notte, lo colse la morte, egli lasciava con le sue opere e con il suo esempio un preziosissimo testamento agli intellettuali e a tutti gli uomini: un’eredità di generosa dedizione alla scienza, di difesa appassionata dei diritti dell’ingegno, di fiduciosa speranza nella forza liberatrice della ragione.

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Ritratto di Galileo Galilei di Justus Sustermans
(Galleria degli Uffizi, Firenze)
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