GIOTTO di BONDONE – Vita e opere

GIOTTO di BONDONE (1267 – 1337)

La biografia del pittore nazionale è pieno di leggende, che iniziano con l’incontro con Cimabue. Nel periodo romanico, l’arte è quasi in contrasto con la vita, ma Giotto concilia la libertà dell’una con la verità dell’altra; il suo genio cerca lo spazio, e vi dispone o vi aggrappa le figure con una logica di atti e di pensieri così facile, che tutti si capiscono al volo, e che il movimento e il colore contrassegnano con purezza tipica. Non si può parlare di naturalismo nel senso comune del vocabolo; il grande fiorentino non copia dalla realtà le lunghe ed esili figure, le scene e i paesi, né si compiace di vuote combinazioni lineari e cromatiche, ma con memoria scrupolosa accumula i particolari dai quali traspariscono gli stati dell’anima, e la facoltà intuitiva compone di suo, badando all’esattezza delle cose corporee ed incorporee. L’artista che non respinge tutte le convenzioni del passato ma che sfugge l’imitazione metodica degli antichi, studia l’uomo secondo l’ideale di San Francesco.

Leonardo da Vinci, a proposito della pittura dei pittori che lo precedevano, ha scritto:

– I pittori, dopo i romani, sempre imitarono l’uno dall’altro, e d’età in età mandarono detta arte in declinazione. Dopo questi venne Giotto fiorentino il quale, non stando contento di imitare l’opera di Cimabue suo maestro, nato in monti solitari cominciò a disegnare su per i sassi gli atti delle capre delle quali lui era guardatore; e dopo molto studio avanzò non che i maestri dalle sue età, ma tutti quelli di molti secoli passati. Dopo questi l’arte ricadde, perché tutti imitavano le fatte pitture, e così di secolo in secolo andò declinando, insino a tanto che Tomaso fiorentino, cognominato Masaccio, mostrò con opera perfetta come quegli che (non) pigliavano per autore (…) la natura, maestra de’ maestri, s’affaticavano invano.

L’importanza di questo giudizio non consiste soltanto nel fatto dell’assoluto riconoscimento della grandezza di Giotto, ma anche nell’indicazione precisa dello stretto rapporto tra l’arte di Giotto e il Rinascimento.
Secondo Leonardo, Giotto fu infatti il primo artista che rivolse la sua attenzione direttamente alla natura, dando inizio a quel processo che Masaccio seppe riprendere con tanta energia nel Quattrocento.

Al di là di tante distinzioni scolastiche non c’è dubbio che questo giudizio, sia pure nella sua enunciazione embrionale, è una base fondamentale per ben capire e collocare nella sua giusta luce la profonda rivoluzione plastica di Giotto: una rivoluzione che s’inserisce nell’ambito dell’affermazione della civiltà comunale, così come la grande poesia di Dante o la prosa del Boccaccio.
La lingua pittorica di Giotto ha più di una analogia con la lingua poetica di Dante: entrambi infatti parlano il “volgare”, cioè si esprimono in termini borghese-popolari. Di questa viva analogia con Giotto e la sua arte, con la novità che essa rappresentava, sembra del resto sembra che Dante avesse una coscienza esplicita, come si può leggere nelle sue due famose terzine del Purgatorio…
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Credette Cimabue nella pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido
sì che la fama di colui oscura.
Così ha tolto l’uno all’altro Guido
la gloria della lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà dal nido.
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SAN FRANCESCO RICEVE LE STIMMATE (1300 circa) – Giotto
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Non si può dunque intendere il senso di concretezza, di vigore espressivo dell’arte di Giotto, né la sua capacità di creare potenti personaggi, forti caratteri, se non ci si rende conto della profonda trasformazione che in ogni campo, da quello economico e politico a culturale, si era verificata nella vita di una città come Firenze.
E’ la stessa concezione monastico-feudale che il sorgere e lo svilupparsi della civiltà comunale ha rotto, modificato, mutato. I vari momenti della storia dell’arte, che si distinguono nei nomi di “romanico” e di “gotico” vanno visti così all’interno di questo processo culminante, appunto, nel Rinascimento. Che Giotto fosse vivamente incorporato nella società comunale ce lo dicono anche le notizie che sono riuscito a trovare della sua vita. Egli infatti, che era nato, come dice il Vasari, da padre “lavoratore di terra”, presso Vicchio di Mugello, pare nel 1267, trovò in Firenze la situazione più favorevole per l’attività del suo genio e per il successo del suo senso pratico.
Giotto fu forse l’unico artista fiorentino del Trecento che abbia saputo diventare veramente ricco. Sembra addirittura che egli abbia esercitato anche l’usura, traendo dai suoi prestiti un profitto annuo del 120 per cento. Insomma, come si dice oggi, era un abile uomo d’affari, che sapeva aumentare con molteplici imprese ciò che guadagnava con la sua arte. I committenti di Giotto furono il Comune, le autorità ecclesiastico-ufficiali, gli esponenti più ricchi dell’alta borghesia, legati tutti da interessi comuni: erano cioè, in pratica, gli ambienti più moderni d’Italia. Tutto ciò bisogna tenerlo presente per capire la concezione che sostiene la sua pittura impegnata nei temi religiosi di San Francesco ad Assisi e a Firenze e della vita di Cristo a Padova. In questi affreschi di Giotto la religione appare umanizzata, priva di misticismo. Giotto infonde alle scene religiose una plausibilità, una verità naturale. I suoi personaggi sono solidi, vivono in uno spazio che ha una dimensione reale, compaiono gesti che esprimono sempre sentimenti diretti, significativi.
Nello stile di Giotto, così energico, severo e imponente, si manifesta un senso positivo e attivo del valore dell’uomo e del suo operare. In questi particolari caratteri dell’arte grottesca si può anche cogliere la differenza tra il gotico italiano e quello d’Oltralpe, francese o germanico, nutrito di sottile, aristocratica raffinatezza o d’eroismo cavalleresco.
Lo sviluppo del linguaggio figurativo di Giotto, partendo dalle esperienze di Cimabue e del Cavallini, nonché da talune suggestioni della scultura di Arnolfo da Cambio, si muove dagli affreschi della basilica di Assisi, eseguiti col concorso di aiuti verso l’ultimo decennio del Duecento, e attraverso il ciclo della Cappella degli Scrovegni di Padova, terminato entro il 1305, giunge agli affreschi di Santa Croce in Firenze, compiuti dopo il 1317: le cappelle Bardi e Peruzzi.
In Santa Croce lo stile di Giotto, sia per l’organizzazione compositiva delle scene basate su di uno stretto rapporto logico fra le tre dimensioni dello spazio, che per la straordinaria capacità di concentrazione formale della visione, tocca la sua più alta maturità, anche se è andato attenuandosi il sentimento più veemente e drammatico delle storie dipinte ad Assisi e a Padova. Dei soggiorni compiuti a Roma, Rimini, Verona, Napoli e Milano non ci restano dirette testimonianze, tranne due frammenti di mosaico a Roma. Parecchie sono le opere attribuite in raccolte europee e americane, ma in genere si tratta di attribuzioni discutibili. Sicura è invece la splendida MADONNA D’OGNISSANTI custodita agli Uffizi. Giotto è morto nel 1337. Tre anni prima era stato nominato capomastro dell’opera del Duomo, a Firenze, e a quella stessa data aveva avuto inizio la costruzione del famoso campanile che porta il suo nome, anche se poi è stato portato a termine da altri. Alla sua morte gli furono fatti funerali imponenti e per cura del Comune fu sepolto in Santa Reparata.
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